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Questo libro documenta il mondo interiore di una piccola testimone di Geova perseguitata dai nazisti. È la chiave per comprendere la sua posizione, premessa a qualsiasi tipo di ricerca storica sull’argomento.
Hans Hesse
Storico tedesco
Primavera 2002
RINGRAZIAMENTI
Per quanto la memoria mi abbia permesso, ho raccontato la mia vita ricostruendo fedelmente i fatti. Nondimeno mi sento di ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutata a dare forma alla narrazione. Tra questi Germaine Villard, Françoise Milde, Adolphe Sperry, sua nipote Virginie ed Esther Martinez, che hanno effettuato ricerche a conferma dell’esattezza storica dei luoghi e degli avvenimenti rimasti nei miei ricordi. Ho anche confrontato le mie memorie con quelle, ancora molto vivide, di due altre testimoni oculari, Rose Gassmann e Maria Koehl. La signora Bautenbacher del Wessenberg’schen Erziehungsanstalt für Mädels e il Servizio degli Archivi della città di Costanza hanno collaborato con me per ritrovare i documenti relativi al mio internamento. Ringrazio lo scrittore Andreas Müller, che ha pubblicato la storia di mio marito, arricchendo il mio bagaglio culturale con numerose informazioni storiche sulle attività della Hitlerjugend. Altri documenti, soprattutto quelli fotografici, sono stati messi a disposizione dagli archivi della Watchtower Society a Brooklyn (New York) e delle rispettive filiali a Selters (Germania) e Thun (Svizzera), come pure dal Cercle Européen des Témoins de Jéhovah Anciens Déportés et Internés (Circolo Europeo dei Testimoni di Geova Ex Deportati e Internati), al quale aderisco.
I calorosi incoraggiamenti di due meravigliosi amici, il defunto Lloyd Barry e John Barr, mi hanno fornito la motivazione necessaria per scrivere.
È anche doveroso ricordare due persone che hanno avuto un ruolo decisivo nella realizzazione del mio libro. Per primo il mio editore Fred Siegel che mi ha costantemente sostenuta col suo ottimismo. Poi Jolene Chu, che mi ha messo a disposizione il suo scrupoloso talento letterario: con l’attenta lettura del manoscritto inglese, le brillanti osservazioni e una buona comunicativa è stata un impareggiabile aiuto. Questo lavoro ci ha unite in un forte legame affettivo; per me è diventata come una figlia che ha accettato di tramandare la mia vicenda quale personale eredità.
Un sentito grazie a Patrick Giusti, il mio prezioso segretario, che ha ricoperto in modo straordinario il ruolo di intermediario per il lavoro di tutti i traduttori in Europa.
Per la versione italiana ringrazio Gabriella Palermo e il team dei traduttori: Biancalisa Baroni, Cinzia Guiracocha, Lorena Gheza, Anna Ghezzi, Elena Necchi, Antonella Petrocchi, Gennaro Romano. Un buon traduttore è colui che, pur intervenendo sulla base del proprio bagaglio personale, accetta di rimanere nell’ombra per comprendere e rispettare sia il pensiero dell’autore sia i suoi sentimenti e i suoi modi di esprimersi: queste persone ne sono indiscutibilmente una fedele e avvincente immagine. Aggiungerò che la loro serietà, devozione, disponibilità e coinvolgimento nei confronti di vicende e personaggi del libro hanno contribuito a tessere tra noi profondi legami di amicizia. Di grande valore è stato il contributo di Marco Palermo, che ha pianificato e supervisionato in modo attento tutto il lavoro del gruppo.
Per finire, ringrazio Max, mio amato sposo, per la sua eccezionale pazienza e i suoi amorevoli incoraggiamenti.
INTRODUZIONE
Tutta l’Europa si stava preparando a celebrare il cinquantesimo anniversario della liberazione dal terrore nazista. Il mondo doveva ricordarsi ancora una volta di un periodo entrato nella storia con appellativi tanto inquietanti come “abisso”, “inferno”, “epoca di terrore” o “tenebre”. Anche un piccolo gruppo di testimoni oculari ha commemorato l’avvenimento: aveva portato il triangolo viola, contrassegno dei Testimoni di Geova nei campi di concentramento. Cominciando da Strasburgo e Parigi queste persone, me compresa, hanno visitato numerose città francesi per narrare la loro storia nell’ambito di esposizioni itineranti. I nostri racconti hanno suscitato molta curiosità, sia su fatti storici sia sul vissuto personale. Le insistenti domande dei visitatori mi hanno obbligata ad alzare a una a una le saracinesche solidamente serrate della mia memoria. Ho avuto l’impressione di ritrovare la mia infanzia, di tornare a essere la bimba di un tempo, con i suoi ricordi, sentimenti, gioie e paure. Le numerose interviste hanno proiettato luce sui miei sogni – e i miei incubi – e hanno richiamato gli orrori del mio passato. Tutto si è delineato con tanta vividezza e precisione che ho rivissuto quel periodo, in cui ero confrontata con l’oppressione del “Leone” nazista.
Al coro si sono uniti numerosi amici: “Scrivi tutto, dipingici un quadro, fissa i tuoi ricordi sulla carta. Scrivi adesso, finché c’è ancora tempo…”
Sono ritornata nell’Alsazia degli anni Trenta, una bella regione dai paesaggi maestosi, dai forti valori ancestrali, una terra agognata, che portava ancora le dolorose cicatrici dei passati conflitti fratricidi.
Proprio in questa cornice la ragazzina felice e allegra che ero allora aveva sviluppato una maturità precoce, scoprendo la povertà dei figli delle famiglie operaie, le ingiustizie, l’intolleranza, le dispute tra i sostenitori della Francia o della Germania e l’angoscia crescente degli adulti ossessionati dalla prospettiva di una nuova guerra.
Il “Leone” – così soprannominavamo il regime nazista avido di prede – aveva finito per estendere la sua tana alla nostra regione, braccando i miei amici, disperdendo la mia famiglia, infrangendo il mio universo e defraudando la mia fanciullezza. Non mi restavano altro che i miei ricordi, definiti simpaticamente da mio padre la mia “biblioteca privata”. La prova fu terribile.
Nonostante tutto, la mia storia è una testimonianza vivente che la coscienza, anche quella di una bambina, può rimanere fedele a se stessa e trionfare sulle avversità, purché educata e alimentata da un ideale o da elevati valori. Che questa vicenda possa infondere fiducia e coraggio a chiunque in futuro debba affrontare qualunque Leone possa sorgere!
PRIMA PARTE
dal giugno 1933 all’estate 1941
CAPITOLO 1
La mia infanzia tra città e campagna
Giugno 1933
La mia famiglia abitava a Husseren-Wesserling, un piccolo e grazioso villaggio situato nella valle di Thann nei Vosgi, non lontano dalla fattoria dei nonni. La nostra casa era incantevole: un rigoglioso pergolato di rose consentiva l’accesso al giardino e ai prati. Il mio paese si trovava in Alsazia-Lorena, una regione di frontiera teatro di lunghe contese tra Germania e Francia.
Avevo quasi tre anni quando la mamma, il papà, io e la mia cagnetta Zita ci trasferimmo a Mulhouse, al terzo piano di un palazzo situato in Rue de la Mer Rouge al numero 46. A quel tempo la mia famiglia era tutto il mio mondo. Nemmeno nei miei più inquietanti incubi avrei potuto immaginare le sofferenze, la miseria e il terrore che sarebbero piombati su di noi. Il nome della nostra via, Rue de la Mer Rouge – Via del Mar Rosso – sarebbe divenuto il simbolo del nostro destino: disperazione, separazioni, viaggi, ma soprattutto speranza. Mi domando se i miei genitori abbiano mai riflettuto sull’affinità fra il significato storico del nome della via e le nostre future vicissitudini.
La stazione ferroviaria di Mulhouse-Dornach segnava l’inizio della lunga Rue de la Mer Rouge, che si snodava tra giardini e prati, e serviva agli abitanti di una serie di case popolari e di palazzine. Il numero 46 era un edificio di quattro piani e otto appartamenti, dove abitavano alcuni operai della ditta Schaeffer & Co., una stamperia tessile rinomata in tutto il mondo. Il papà vi lavorava come consulente artistico.
In città non mi era permesso di avvicinarmi troppo alle finestre di casa e tanto meno di uscire per strada da sola. Che tristezza per una ragazzina di campagna! Anche i fiori sul balcone erano prigionieri dei loro vasi!
Fortunatamente tornavamo spesso alla fattoria dei nonni. Viaggiavamo in treno fino a Oderen, un luogo di pellegrinaggio dedicato a Maria Vergine. Da lì un sentiero si inerpicava su per la montagna, costeggiava un fresco ruscello montano, poi saliva bruscamente, arrampicandosi lungo un pendio scosceso, fino a Bergenbach, una pianura verdeggiante ricoperta da diversi tipi di alberi da frutto.
La fattoria dei nonni si trovava tra rocce, felci e boscaglia. Oltrepassata la minuscola porta, occorreva qualche istante prima che gli occhi si abituassero alla penombra e potessero distinguere in un angolo l’ampio camino nero, dove era stata installata una grossa cucina a legna. L’odore del fumo mescolato all’aroma del fieno e dei cereali era per il mio olfatto la fragranza più gradevole. Fuori c’era una fontana di pietra: il placido gorgoglio delle sue acque era stato la dolce ninnananna di tante generazioni.

Negli anni ’90 del XIX secolo la mia nonna Maria aveva lasciato la casa paterna per ritornarvi da vedova con le sue due bambine, Emma ed Eugénie, rispettivamente mia madre e mia zia. Dal secondo marito, Remy Staffelbach, aveva avuto altri due figli: mia zia Valentine e mio zio Germain. Remy era un vero nonno per me.
La nonna era una persona dinamica: dalla mattina alla sera si prendeva cura degli animali della fattoria e si occupava del giardino, mentre gli uomini si guadagnavano da vivere altrove.
La mansione del nonno consisteva nel preparare i colori in una stamperia tessile e zio Germain lavorava in una cava. La nonna era sempre in ansia per lui. Siccome era sordo, temeva che non si accorgesse del segnale che precedeva lo scoppio della dinamite con la quale venivano fatte esplodere le rocce. Così ogni volta che sentiva un boato provenire dalla cava – in qualunque luogo si trovasse e qualsiasi faccenda stesse sbrigando – si fermava e recitava una preghiera per suo figlio. Con le lacrime agli occhi e la voce tremante, la nonna mi narrava spesso la solita storia: “Siccome tua madre voleva diventare suora missionaria in Africa, ci siamo recati al convento per avere informazioni, ma la dote richiesta era troppo alta. Avremmo dovuto vendere tutte le nostre mucche…” Ogni volta che riascoltavo quel racconto mi domandavo se, per servire Dio, fosse necessario un tale sacrificio.
“La famiglia ha preso allora la decisione di mandare la tua mamma a lavorare e di usare parte del suo guadagno per le spese del collegio per sordi dove Germain stava conseguendo un’istruzione scolastica. Così è diventata tessitrice di stoffa damascata e ha incontrato tuo padre, Adolphe, un artista orfano e senza soldi, non un agricoltore purtroppo, ma almeno un buon cattolico!”
Non avevo difficoltà a comunicare con zio Germain. Mi piaceva il vivace linguaggio dei segni che lui stesso aveva ideato.
Lo zio possedeva una decina di alveari e sapeva lavorare il legno, scolpire la pietra e innestare le piante. Durante le nostre visite alla fattoria ci mostrava sempre, con un largo sorriso di autocompiacimento, la sua ultima creazione. La sua più grande gioia consisteva nel rendersi utile. Era molto legato a sua madre e come lei era molto religioso. Anch’io lo ero!
La nonna doveva essere stata molto bella da giovane. L’età non aveva assolutamente scalfito il fascino dei suoi bei lineamenti armoniosi. La sua abbronzatura attenuava l’azzurro intenso dei suoi occhi. I capelli bianchi, raccolti sulla testa in una piccola crocchia, alla luce del sole brillavano come un’aureola. Durante la settimana, la nonna indossava un austero vestito nero protetto da un ampio grembiule, invece la domenica metteva un allegro abito a fiori rosa e lilla, che addolciva il suo viso serio.
Nel corso degli anni la nonna Maria era diventata un po’ robusta, eppure ciò non le impediva di affaccendarsi lentamente, ma senza posa. Appena entravo in cucina, iniziava una vivace conversazione: “Adesso prepariamo la zuppa di patate per il maialino”. Le schiacciava con le mani. “Ora vi aggiungiamo un po’ di crusca, gli avanzi del pranzo, ovviamente senza ossa, e il latticello del formaggio. Vieni, piccola mia, versiamo il tutto nella mangiatoia”. Il naso rosa del maialino si tuffava nella zuppa: ch-ch-ch. “Guarda questo sciocco che cerca prima i pezzi migliori!”
Le galline si radunavano di fronte alla porta della cucina. “Devono essere le cinque. Buttiamo una manciata di grano anche per loro!”
“Sciò! Sciò!”, gridava battendo le mani per tenere indietro i polli più forti che volavano addosso agli altri. “Hai visto, piccolina? Sono proprio come le persone: non hanno nessuna considerazione per i più deboli!”
“Ora è il turno dei gatti. Micio, micio! Venite, ecco il vostro latte”. Era la schiuma del latte della mucca che il nonno aveva appena munto. Ne avevo già gustato la mia parte in una ciotola nera, la mia tazza personale. Una delle micie lasciò prima bere il suo piccolo. “Vedi, questa sì che è una vera mamma!” I gatti venivano a strofinarsi contro le nostre gambe e facevano le fusa. “Guarda come ci ringraziano tutti!”
Appena possibile i miei genitori e io trascorrevamo le domeniche a Bergenbach. Che privilegio per me accompagnare il nonno a messa! Zio Germain usciva di casa sempre dopo di noi, ma in qualche modo arrivava in chiesa per primo! Dopo la funzione andavamo tutti e tre al bar, dove gli uomini del villaggio si ritrovavano a discutere quasi sempre di politica e del loro bestiame:
“Ho comprato una mucca dal venditore”.
“Da quale? Dall’ebreo o dall’alsaziano?”
“Dall’ebreo, e mi ha imbrogliato di nuovo!”
“Perché non vai dall’alsaziano?”
“Beh, sai, è troppo caro! Esagera sempre sulla qualità dell’animale e poi gonfia il prezzo. È disonesto!”
Non riuscivo a seguire il loro ragionamento: se non sopportavano gli ebrei, perché preferivano comunque rifornirsi da loro? Secondo me non aveva senso.
Risalire la montagna per tornare a Bergenbach in piena estate e sotto la canicola di mezzogiorno era, a detta della nonna, un sacrificio che dava maggior valore alla nostra partecipazione alla messa. Sicuramente aveva ragione, però io avrei preferito che non facesse così caldo!
Il viso del nonno era rosso quasi quanto i suoi capelli. Indossava un completo di velluto marrone scuro e teneva la catenella dorata dell’orologio infilata nel taschino della giacca che portava sempre sbottonata; con un fazzoletto si asciugava continuamente il sudore dalla nuca. Zio Germain, correndo come una gazzella su per la salita, ci precedeva e, una volta a casa, si nascondeva e ci aspettava. Quando arrivavamo nelle vicinanze, saltava fuori, accogliendoci con la sua caratteristica risata simile a un nitrito.
La nonna assisteva alla prima messa del mattino, così rincasava in tempo per preparare i suoi deliziosi pranzetti domenicali, incluso ogni tipo di dolce casereccio. Durante i pasti le conversazioni erano sempre animate e interessanti e, fintantoché a tavola eravamo in sei, rimanevano pacifiche. Era tutt’altra cosa quando zia Valentine, la figlia più giovane della nonna, veniva in visita con suo marito Alfred e mia cugina Angèle. Alfred, un uomo di statura alta, monopolizzava la conversazione: sapeva tutto su tutto! Mentre lo zio parlava e parlava, mio padre restava in silenzio. Questo proprio non mi piaceva: il papà era ben più in gamba. Perché non interveniva?
Sembrava che zio Alfred provasse piacere nel suscitare polemiche e ci riusciva senza difficoltà, parlando di argomenti irritanti. Il nonno disapprovava il rigore autoritario dei tedeschi. Aveva prestato servizio nella marina per quattro anni e aveva visto con i suoi stessi occhi alla punizione dei marinai ribelli: veniva legata loro una corda intorno alla vita e poi, gettati in mare, erano trascinati dalla nave per ore intere. Quei marinai – pensavo fra me – dovevano essere degli eccellenti nuotatori, per reggere una simile velocità!
La nonna criticava sempre i francesi, perché li considerava dei fannulloni. Non aveva dimenticato che durante la Grande Guerra soldati francesi a corto di cibo avevano requisito le sue mucche e nessuno l’aveva mai risarcita della perdita. Al contrario aveva solo parole di ammirazione per i recenti successi di Hitler in Germania.

Al termine di questi dibattiti il nonno sembrava rimpicciolirsi e la nonna diventare più grande. Le mani di lei si irrigidivano per la collera, mentre raccoglieva bruscamente i piatti da dessert dalla tavola. Quelle stoviglie antiche, decorate con minuziosa finezza, erano bellissime e io temevo che un giorno ne avrebbe ridotta qualcuna in cocci con uno dei suoi gesti troppo energici.
Dopo il dessert Angèle e io sparivamo all’aperto per giocare. Avevo costruito una bambola. A una piccola patata ben rotonda, la testa, avevo incastonato due piccole pietre a mo’ di occhi. L’avevo fissata con un bastoncino a una carota, il corpo, mentre il vestito era una grossa foglia. Mia cugina, una pura cittadina, non apprezzava la mia bambola artigianale. Preferiva sdraiarsi e subito i suoi occhietti blu si chiudevano. Le sue ciglia rosse sembravano delle cuciture a sopraggitto e la boccuccia imbronciata era come una fragolina. Le gote rotonde, belle e rosse incorniciavano un nasino cosparso di lentiggini e i magnifici boccoli dei suoi capelli ramati si spandevano sull’erba verde come raggi di sole. Col suo delicato vestito blu ornato di nastrini diventava la mia bambolina che richiedeva le mie cure. Cercavo una grossa foglia da usare come parasole, poi mi sdraiavo anch’io per terra sotto la felce, godendo del suo profumo familiare. Da quella posizione ascoltavo il ronzio delle api e seguivo con gli occhi la pigra sfilata delle nuvole o l’improvviso balzo di una cavalletta. Immersa in quella pace, riflettevo sulle conversazioni degli adulti cercando di capirne il senso.
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Un giorno la nonna mi regalò un’altra piccola immagine sacra da aggiungere alla mia collezione. Quando mio padre la vide, il suo viso tondo sembrò allungarsi. Inarcò le sopracciglia sbarrando gli occhi e serrò le labbra perplesso. Lessi sul suo volto un grosso punto interrogativo. L’espressione della mamma invece non era né seria né sorridente. Gli angoli della sua bocca si abbassarono e gli occhi fissarono il vuoto. Fece un piccolo cenno con la mano destra e stese tutte e cinque le dita. I miei genitori non erano entusiasti della mia immagine sacra!

“Mettila nel tuo messale”, mi ordinò il papà. Avevo già ricevuto quel messale bianco, ricoperto di madreperla, molto prima di iniziare la scuola. “No!”, replicai risoluta. Quell’immagine benedetta dal prete era un dono della nonna; volevo metterla sull’altare della mia cameretta. “La nonna ha detto che scaccerà gli spiriti cattivi”, protestai. “Lei stessa ne ha appese diverse persino sopra la porta della rimessa!”
Il papà non andò oltre. Lasciò l’ultima parola alla mamma che mi permise di sistemare l’immagine sul mio altare personale. Così mi andava bene. Da quando aveva comprato una nuova macchina da cucire, lei lavorava nella mia cameretta e quindi il nuovo santo avrebbe protetto anche lei.
Seduta sul pavimento col mio orsacchiotto di peluche, rimanevo affascinata dalla grossa ruota della macchina da cucire che la mamma azionava con i piedi. Nessuno avrebbe potuto farlo più velocemente di lei! Adoravo il rumore dei pedali accompagnato dal suo canticchiare. Che soave melodia! Ero incantata vedendo quelle stoffe trasformarsi in splendidi vestiti e in camicie stupende che facevano di mio padre un gran signore.
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Giugno 1936
Un giorno la mamma smise di canticchiare. Camminava avanti e indietro con un’andatura stanca, poi si fermava, nascondendo il volto fra le mani. Di tanto in tanto si alzava e andava a guardare fuori dalla finestra. Quando le domandai: “Mamma, non stai bene?”, scosse la testa e si voltò. Mi sedetti accanto a lei e mi accarezzò i capelli.
Il papà si era recato al lavoro alle tredici e trenta per il turno pomeridiano. lo aspettai inutilmente che mia madre giocasse con me come di solito. Arrivò poi l’ora di andare a letto. La mamma mi accompagnò in cameretta e mi diede l’acqua santa per fare il segno della croce. Recitò una preghiera e, prima di rimboccarmi le coperte, mi baciò teneramente.
Di solito la mamma chiudeva le persiane, ma quella sera si sedette sul bordo del mio letto e rimase in silenzio. Pian piano calarono le tenebre e la luce della luna le illuminò i capelli neri e mossi. La sua carnagione di porcellana aveva assunto un colorito ancor più pallido. Non riuscivo a vedere i suoi occhi blu scuro, ma li sentivo su di me. Lentamente il suo profilo si dissolse. Mi addormentai alle otto, l’orario in cui abitualmente andavo a letto.
Spesso mi svegliavo alle dieci e un quarto di sera, disturbata dal rumore delle biciclette degli operai che tornavano a casa dalla fabbrica. Sentivo il papà mentre sistemava la sua nel garage e saliva gli scalini di legno che scricchiolavano sotto i suoi piedi. Poi faceva girare la chiave nella serratura e apriva la porta il più silenziosamente possibile. La mia cagnolina Zita, che dormiva nel bagno vicino all’entrata, lo accoglieva festosamente e lo seguiva in cucina. Lì il papà si toglieva le scarpe, infilava le pantofole e appendeva la giacca. A quel punto tiravo su la coperta del letto fino al naso e serravo forte gli occhi. Ed ecco il magico momento in cui il papà entrava nella mia stanza, si chinava su di me, sfiorava il mio viso col suo respiro caldo e posava sulla mia fronte un bacio leggero come una farfalla. Le sue mani accarezzavano i miei capelli corti e, mentre fingevo di dormire assaporando intensamente quel soave istante, sentivo su di me il suo sguardo pieno di amore.
Quella notte, invece, mi svegliai improvvisamente con l’angosciante sensazione di essere sola. Chiamai disperatamente e la mamma accorse subito in camicia da notte e con i capelli ondulati raccolti in una retina.
“Dov’è il papà? Non è venuto a darmi il bacio della buona notte!”
“Sst, sono le tre passate. Il papà deve dormire e anche tu!” Si sedette vicino a me accarezzandomi i capelli intrisi di sudore per il panico.
Il mattino seguente il papà non era seduto con noi a tavola per la colazione e non c’era neppure la sua tazza.
“Il papà starà via per qualche giorno”, mi disse la mamma con voce tremula, trattenendo a fatica le lacrime.
Il mio papà ci aveva lasciate! Se n’era andato! Ecco perché negli ultimi tempi mi era sembrato così triste, teso e preoccupato. Ricordai una recente conversazione tra lui e la mamma. “È stato un errore! Non sarebbe dovuto accadere!”, le aveva sussurrato, pensando che non li sentissi. “Adolphe, non ti preoccupare! Può capitare a chiunque di sbagliare!” Come aveva osato la mamma accusare il papà di avere commesso degli errori? Lui non sbagliava mai. Ne ero sicura! Doveva essersene andato via mortificato da quell’offesa.
Ma dove poteva essersi diretto? Sicuramente a Kruth, il villaggio situato in fondo alla valle. Era uno dei miei luoghi preferiti. Avrei voluto fuggire con lui, lontano da quella mamma così meschina.
A Kruth viveva Paul Arnold, zio e patrigno del papà. Io lo chiamavo “nonno-padrino”. Aveva l’abitudine di stare in piedi con la mano destra appoggiata allo stipite della porta, proprio sotto la croce scolpita nell’architrave di pietra, dove erano state incise delle cifre. Quando sorrideva, i suoi occhi sparivano fra le rughe del viso. Era così vecchio e rugoso che assomigliava a un pruno! Portava i calzoni arrotolati più volte attorno alla cintura. Avrei tanto voluto essere da lui!
Perché il papà non mi aveva portato con sé?
Invece me ne stavo lì imbronciata nella mia cameretta e poco dopo iniziai a piangere.
“Adolphe, Adolphe, sei riuscito a tornare a casa!” La voce eccitata di mia madre mi fece sussultare. Stavo sognando? Balzai in piedi e mi precipitai fra le braccia di mio padre; intanto la mamma corse in cucina a preparargli un pasto caldo.