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Il papà ci spiegò l’accaduto: “Gli operai della fabbrica hanno scioperato fermando le presse senza neppure togliere la stoffa dalle stampanti! Tutti sono corsi fuori precipitosamente, ma chi indossava le camicie bianche è stato costretto a rientrare. Alcuni sono stati perfino picchiati! Nessuno poteva più entrare o uscire1 ”.
1 In seguito alla vittoria del Fronte Popolare nel giugno 1936, scoppiarono scioperi bianchi in diverse zone della Francia.
“E tu come hai fatto a scappare?”
“Sono andato a dormire con gli ingegneri nel magazzino dei tessuti. Da lì sentivamo gli slogan e le minacce degli operai. Vi assicuro, era veramente spaventoso! Ma sapevo che alle due del pomeriggio alcuni colleghi stampatori, coloristi e incisori sarebbero arrivati all’entrata. Quindi sono sceso. Appena mi hanno visto, hanno aperto la porta gridando: ‘È dalla nostra parte, anche se porta una camicia bianca! Lasciatelo uscire!’ Ho avuto bisogno della loro protezione a causa degli operai che non mi conoscevano”.
Mio padre aveva avuto bisogno di protezione? Aveva avuto paura? E aveva dormito in un magazzino pieno di bidoni di inchiostro senza fare una sola macchia sui suoi abiti? Non ci capivo niente!
Mangiava e raccontava con parole che non mi erano familiari. Non l’avevo mai visto così agitato. La sua faccia era tutta rossa e la voce tesa. Temevo che cadesse morto stecchito, proprio com’era successo tempo addietro a suo padre.
Continuò il suo discorso con termini inconsueti: proletariato, comunisti, socialismo, rivendicazioni, salari, diritti umani, classe dirigente, fiducia.
A un certo punto non ne potei più di tutto quel parlare febbrile. Uscii sul balcone. La luce della cucina rischiarava le petunie blu e bianche e i gerani rossi, ma la notte aveva zittito il canto degli uccelli e il ronzio delle api.
“Guarda, papà! Il cielo ha di nuovo indossato il suo mantello di velluto nero trapunto di diamanti”.
Allora lui smise finalmente di parlare e mi raggiunse. Mi sollevò fra le sue braccia, mentre la mamma sparecchiava la tavola.
“Simone, quei diamanti lì sono stelle. Sono molto, molto grandi e anche tanto lontane”. Ne indicò alcune sopra la nostra testa e proseguì: “Le vedi quelle quattro disposte in quadrato con le altre tre che formano una coda?”
“Oh, sì! È una pentola”.
“Si chiamano Orsa Maggiore”.
“Non riesco a vedere l’orsa!”
“Non riesci, perché non puoi vedere tutte le stelle che la formano”.
“Oh! Adesso ho capito, l’orsa è nella pentola!”
Da quella sera continuai a scrutare il cielo stellato per cercare di trovare l’Orsa Maggiore, ma la pentola rimaneva disperatamente vuota.
♠♠♠
Estate 1936
La mamma e io avevamo trascorso le vacanze estive dai nonni. Ora la stagione calda giungeva gradualmente al termine, portandosi via le belle giornate soleggiate e la mamma aveva quasi terminato i suoi lavori di cucito. Zio Germain era estasiato dalle sue camicie nuove, il nonno era soddisfatto dei calzoni di velluto e la nonna andava fiera del suo cappello letteralmente trasformato: ornato con i fiori e quei nastri color lilla, avrebbe fatto colpo alla messa domenicale.
Per quell’anno il nonno aveva deviato un’ultima volta la fredda acqua della montagna, che serviva ad alimentare la fontana. Quella rimasta nella vasca si sarebbe scaldata al sole di mezzogiorno, così avrei potuto sguazzarci dentro con mia cugina Angèle, ma non prima del riposino pomeridiano. Mentre eravamo stese sul divano tra i quadri di San Giuseppe e della Vergine Maria, una luce soffusa entrava dalle persiane accostate; sotto erano allineati dei vasetti pieni di marmellata messa a raffreddare. Qualche raggio di sole ne faceva scintillare il contenuto rosso scuro e giallo brillante, trasformandolo in rubino e oro. Ascoltavo con piacere il ronzio delle api e delle mosche che cercavano instancabilmente di entrare dalla finestra. Quanto amavo quelle melodie! Sognavo a occhi aperti, immaginando di essere una santa in cielo.
All’annuncio della mamma: “Il papà sarà qui domani dopo la messa di Kruth!”, saltai dalla gioia.
Il mattino seguente, il nonno si alzò di buon’ora per lavarsi alla fontana. Immerse la testa e il torso nell’acqua gelida. Poi, osservando i nuvoloni neri sopra la foresta tra Oderen e Kruth, decise che quel giorno, invece di andare a messa, avrebbe messo al riparo le mucche, prima dell’arrivo del cattivo tempo sulla fattoria di Bergenbach. Ero delusa. Mi piaceva tanto accompagnare il nonno a messa!
Osservò: “Spero che Adolphe ce la faccia ad arrivare alla fattoria. Sembra che si stia avvicinando un brutto temporale”.
La nonna e la mamma tornarono di corsa dalla prima messa. Il vento soffiava così forte da obbligare la nonna a trattenere il suo cappello “nuovo”, mentre la mamma litigava col vestito. Arrivarono entrambe trafelate e sbuffando nervosamente. In quel medesimo istante, giunsero anche le mucche che si accalcavano per entrare nella stalla. In previsione di un’interruzione di corrente, zia Valentine, che quel giorno era affaccendata in cucina, iniziò a cercare tutte le candele della casa. Poi corse in giardino per cogliere qualche lattuga, prima che fossero tutte distrutte da un’eventuale grandinata.
Ancora non pioveva, ma il rimbombo del tuono segnalava l’avvicinarsi del temporale. La nonna si rifugiò nell’angolo più nascosto della fattoria col rosario stretto a sé. La sua paura era contagiosa. Angèle cominciò a piangere e sua madre a tremare. Zio Germain divenne bianco come un cencio e a gesti mi incitò a rientrare. Mi indicò il cane che era rintanato nella sua cuccia e teneva la testa fra le due zampe anteriori, implorando con i suoi grandi occhi umidi. Una sfacciata raffica di vento sventagliò le piume della coda del gallo che rientrava nel pollaio per ultimo.
Un gocciolone cadde sulla mia testa e un altro mi colpì il naso, mentre un lampo illuminò Bergenbach. “Uno… due…”, contò il nonno e il tuono rombò. “Il temporale è a soli due chilometri da qui”, concluse. Mi sedetti per terra sulla soglia che separava la cucina dalla stanza vicina e guardai il viso della mamma. Da esso traspariva la stessa preoccupazione che vi avevo letto quando il papà era stato trattenuto in fabbrica.
Poi l’acquazzone scoppiò. “Se ora si trova nella foresta, sarà pericoloso per Adolphe!” La voce di zia Valentine assunse un tono più drammatico, mentre continuava: “Se ne è già uscito, almeno non cercherà riparo sotto un albero”. Poi, rivolgendosi verso noi bambine, ci raccomandò: “Ricordatevi bene, ragazze! Non rifugiatevi mai sotto un albero quando ci sono i fulmini!” Per impedire che il bollito si scuocesse, tolse la pentola dalla cucina a legna e si rivolse a sua sorella che era rimasta silenziosa: “E se corre in cerca di un nascondiglio, il fulmine potrebbe colpirlo!” Mentre alimentava il fuoco con un ceppo umido, continuò il suo monologo: “E non si deve mai correre, mai usare l’ombrello!”
La mamma vagava da una parte all’altra della cucina, così come la scodella del cane, trascinata qua e là nel cortile dalle raffiche di vento.
Una figura si profilò vicino alla vigna e si diresse fin verso l’entrata. Era il mio papà, bagnato fradicio tanto da sembrare alto la metà. Ma che sollievo provammo quando varcò la soglia!
Cadde un fulmine, seguito da un tuono così repentino da non avere nemmeno il tempo di contare. “Questo ha colpito proprio la roccia dietro casa!”, sentenziò il nonno. Vidi il papà entrare in cucina ancora tutto ricurvo per ripararsi dalla pioggia e dal vento. Si raddrizzò, prestando attenzione a non urtare il paralume di porcellana appeso al soffitto. La mamma lo aiutò a togliersi la giacca bagnata e andò a prendergli dei vestiti asciutti; intanto zia Valentine gli porse una scodella di zuppa calda.
Il papà iniziò a mangiare. Chiese a zio Germain una sigaretta anche se, come tutti gli altri, aveva condannato vigorosamente il giovane abate della parrocchia, che fumava segretamente. Alla parete era appeso un accendino elettrico. Nel preciso istante in cui il papà lo stava usando per accendere la sigaretta, un fulmine colpì il melo cresciuto di fronte alla casa, proprio accanto alla linea elettrica. Mio padre fu scaraventato verso il soffitto e ricadde violentemente sulla schiena. Tutti gridarono: “Adolphe, Adolphe!”
Zia Valentine accese subito delle candele. Sotto quella luce tremolante scorgemmo il papà disteso sul pavimento, pallido come un cadavere.
“Respira”, costatò zia Valentine rivolgendosi alla mamma riapparsa proprio allora con i vestiti asciutti. Entrambe le sorelle esclamarono: “Oh Dio mio, grazie!” A poco a poco il papà riaprì gli occhi.
“Riesci a muovere le gambe?”
Il papà provò e ce la fece. Io invece no: ero paralizzata dall’emozione.
“Tutto a posto, mi gira solo un po’ la testa”, disse, e per rassicurarci si alzò, appese i suoi abiti bagnati e infine bevve un’intera scodella del famoso brodo di carne della domenica.
Un altro fulmine ci fece rabbrividire, ma fortunatamente cadde più lontano e colpì l’altra parte della vallata. Poi l’acquazzone cessò. Le piante del giardino giacevano a terra appesantite dalla pioggia, quasi dovessero riposarsi da quell’estenuante intermezzo. La nonna sbucò dal suo nascondiglio, si diresse immediatamente verso l’acquasantiera e si fece il segno della croce. “Siamo sfuggiti per un pelo a un incendio, con tutto quel fieno secco depositato in soffitta!”
La calma dopo la tempesta sembrava aggiungere a quel pranzo festivo un sapore insolito. La nonna tracciò col coltello una croce sulla pagnotta fresca e poi tagliò delle grosse fette per ognuno dei commensali. Fuori gli alberi emersero lentamente dalla nebbia come fossero dei fantasmi.
“Bambine, se volete giocare, potete andare in solaio”, ci concesse la nonna. Era una fortuna, perché lassù potevamo evitare tutte quelle noiose conversazioni degli adulti sugli scioperi.
“Prima voglio un altra fetta di torta”, pretese Angèle con tono imperioso. E gliela diedero! Se io avessi chiesto qualcosa in quella maniera, mia madre avrebbe fatto orecchio da mercante! “Le signorine non dicono mai ‘io voglio…’ – mi soleva ripetere – dicono: ‘mi farebbe piacere avere…’ o ‘vorrei…’”
Le scale che conducevano al solaio si trovavano in un angolo della casa. Sulla parte destra della soffitta era stato riposto del fieno. Sulla sinistra, in corrispondenza col soggiorno, c’era un baule dove era custodita ogni sorta di ricordini preziosi con i quali ci era permesso giocare. Attraverso gli interstizi del pavimento ci giungevano voci, fumo di sigarette e aroma di caffè. Svuotammo la parte del baule che conteneva vecchi vestiti e giocammo “alla casa” con tazze e piatti dell’Ottocento.
Da sotto sentivamo la voce della nonna: “Se fossimo tedeschi, non ci sarebbe nessuno sciopero! Dall’altra parte del Reno nessuno sciopera!”

“Rifletti!”, ribatté il nonno. “Quando la madre di Adolphe era tra i promotori del primo vero sciopero socialista, non eravamo tedeschi a tutti gli effetti? Eppure, quando andò a confessarsi, il prete la rimproverò e la schiaffeggiò, minacciando di farle perdere il lavoro se si fosse impegnata ancora in quelle attività!”
“Ma questo avveniva prima della Grande Guerra. Ora, sotto il regime di Hitler, i tedeschi hanno tutti un lavoro e una buona paga. Stanno prosperando!”, aggiunse la nonna.
La pioggia tornò a martellare il tetto. Al piano inferiore gli adulti stavano ancora bevendo caffè e liquori: vino dolce fatto in casa per le donne, acquavite forte per gli uomini.
La nonna riprese a lamentarsi: “Adolphe, è per colpa dei francesi e dei loro alleati che la moneta tedesca ha perso valore, e non perché i tedeschi siano dei lazzaroni! I francesi sono pigri – asserì – sono apatici e disorganizzati…” Parlava e parlava, ma non c’era disputa poiché nessuno ribatteva.
“Mamma, per avere un punto di vista obiettivo, sarebbe meglio che leggeste altri giornali, oltre a quelli che parlano a favore della Germania”, buttò lì qualcuno2 .
2 Alla fine della prima guerra mondiale la popolazione dell’Alsazia-Lorena era per il 75 % di lingua tedesca. Il governo francese incontrò una viva resistenza quando cercò di sopprimere i giornali tedeschi.
“Simone! Angèle! Scendete dal solaio. Non piove più!”
Qualcuno suggerì di approfittare dei pallidi raggi di sole e uscimmo tutti. Ma, appena arrivammo all’incrocio, il nonno adocchiò la cima delle montagne: “Non sarebbe prudente allontanarci troppo dalla fattoria”.
Allora attraversammo il prato fino al limite della rupe dove zio Germain aveva costruito una panca di legno e aveva piantato tre pini. La panca era troppo bagnata per potervici sedere, ma da lì si godeva il panorama di tutta la vallata: Kruth, il paese natale del papà; Oderen, il nostro villaggio; Fellering con le sue due chiese, in centro quella cattolica e in periferia quella protestante.
Ricordai che una volta avevo domandato alla nonna quale fosse la differenza tra le due confessioni. “I protestanti sono nemici dei cattolici”, mi aveva risposto.
“Figliole, dovreste affrettarvi a prendere la via del ritorno”, avvertì il nonno indicando delle nuvole violacee.
“Certo, vedete quella nebbia laggiù?”, aggiunse la nonna. “Sta salendo, il che significa che qui ricadrà sotto forma di pioggia. Se vi sbrigate, riuscirete a prendere il prossimo treno ed eviterete così di inzupparvi fino alle ossa”.
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Appena giunti a casa, la mamma raccolse alcuni fiori in giardino “per ridare un po’ di vita alla baracca”. Le dalie gialle e rosse disposte nel bel vaso alsaziano di creta grigia con motivi blu crearono subito un ambiente accogliente e facilitarono il nostro ritorno alla vita cittadina.
“Vieni Simone, andiamo sul balcone a riordinare le petunie”.
“Mamma, guarda! Il pezzetto di zucchero è sparito!” In effetti, prima di andare dai nonni, avevo lasciato una zolletta di zucchero sul balcone.
La mamma sorrise. “Pensi che sia stata la cicogna a portarlo via?”
“Certo!”, fu la risposta che udimmo dal balcone vicino. Era la voce della signora Huber, una nostra vicina, che aggiunse: “Lo zucchero è sparito. Adesso puoi aspettarti una sorellina o un fratellino. La cicogna ritornerà in primavera e potrebbe portarti un bimbo”.
Qui a Mulhouse i bambini venivano portati dalle cicogne; invece a Wesserling i bambini si sceglievano la mamma nascondendosi sotto un grosso cavolo. A Mulhouse non c’erano mai stati bambini nei cavoli, al massimo si trovavano dei vermi! Ero sicura che ci fosse un bambino in arrivo. Non avevo forse scelto la migliore mamma del mondo? Desideravo tanto un fratellino o una sorellina!
Ogni tanto nella nostra palazzina capitavano altri bambini. Il signor Eguemann, un vicino, aveva due nipotine che venivano di tanto in tanto a trovarlo. “Porta fuori la cagnetta e gioca con loro – mi diceva allora la mamma – e trattale come se fossero le tue sorelline”.
Ma non mi sentivo più a mio agio con loro. Il loro nonno mi guardava in malo modo ogni volta che mi incontrava, perché un giorno lo avevo sorpreso a rubare. Era successo una mattina molto presto, quando la mamma mi aveva fatta scendere per prendere il latte e il pane. Tutte le sere, le otto famiglie del nostro stabile, appendevano al muro dell’entrata il secchiello per il latte e un paniere col denaro e, mentre ancora tutti dormivano, passavano il lattaio col suo carretto trainato da due cani e il panettiere col suo cane bardato: entrambi servivano ogni focolare a seconda della somma di denaro lasciata. E quella mattina colsi in flagrante il signor Eguemann intento a frugare nel paniere di qualcun altro.
Io e la mia cagnetta Zita trascorremmo comunque dei bei momenti insieme con le nipoti del signor Eguemann. Un giorno eravamo così prese dal gioco da non sentire che mia madre mi stava chiamando per la cena. L’indomani si ripeté la stessa scena.
“Adesso ascoltami bene!”, mi avvertì. “Oggi ho dovuto chiamarti di nuovo tre volte. Che cosa penserà la gente? Che la figlia della signora Arnold è una bambina disubbidiente e che la sua mamma è troppo tollerante con lei e non riesce a farsi rispettare!” Con uno sguardo severo e la fronte corrugata sottolineò, scandendo bene le parole: “Se domani dovesse succedere di nuovo, dovremo riservarti la stessa punizione data a Brumel, la mucca ribelle”. Dopo un silenzio interminabile aggiunse: “Guai a te se devo chiamarti ancora tre volte!”
Ero avvilita e abbassai la testa. La mamma mi avrebbe veramente trattata come Brumel? Non mi aveva mai sculacciata prima e nemmeno il papà, ma sapevo che ne aveva il diritto. Avrebbe potuto attuare la sua minaccia.
Una cosa era certa: la mamma aveva un’espressione veramente seria. Ubbidire divenne improvvisamente una questione di capitale importanza. Adesso ero grande, in fondo avevo già sei anni! Così, quando sarebbe arrivata la chiamata per la cena, avrei dovuto essere pronta a rientrare.

Il giorno dopo, nel sentire la mamma mi affrettai a raccogliere i giocattoli sparpagliati qua e là. Al secondo richiamo mi precipitai verso casa, ma in quel momento una delle bambine che correva davanti a me, cadde e si sbucciò i gomiti. Ci mettemmo a piangere tutt’e due. La mamma insisté per la terza volta. Terrorizzata, lasciai lì l’amichetta e salii le scale di corsa. La porta dell’appartamento era aperta e vidi una racchetta da ping-pong sul mio letto. Mi sentii mancare. Prima che mi rendessi conto della situazione la mamma mi afferrò per il maglione, mi trascinò in cameretta, mi buttò sul letto, mi abbassò le mutandine e, senza una parola, mi diede una bella sculacciata. Poi uscì dicendo: “Quando avrai finito di piangere, potrai venire a mangiare la tua zuppa. Se aspetterai troppo si raffredderà”. Nascosi la faccia nel copriletto e piansi a dirotto. Il peggio era la vergogna del mio sedere all’aria. Ero anche amareggiata, perché la mamma non sapeva che io ero stata pronta a ubbidire!
Il campanello della porta di entrata squillò. Era il signor Eguemann: esigeva che fossi punita in sua presenza, perché secondo lui avevo urtato la sua nipotina. Ero spaventata a morte, ma la mamma rispose con voce ferma: “Signor Eguemann, la punizione di mia figlia è affar mio, non vostro!”
“Allora sarà meglio che vostra figlia non giochi più con le mie nipotine!”, concluse in tono minaccioso.
Finalmente la mamma intuì ciò che era successo e capì perché non avevo risposto subito quando mi aveva chiamata per la cena. Entrò piano piano nella mia cameretta, mi rigirò teneramente verso di lei e si sedette accanto a me sul letto.
“Mi dispiace di essermi sbagliata. Mi si spezza il cuore. Mi perdoni?”
Mia madre che mi domandava di esser perdonata! Le mie lacrime si asciugarono all’istante! “Vieni a mangiare la tua zuppa, te la riscaldo”. Anche se il mio sederino bruciava ancora, mi sentivo molto meglio. E, visto che il papà era ancora al lavoro, avevo la mamma tutta per me.
Dopo cena la mamma mi dedicava sempre tutto il suo tempo. Mi invitava nella stanzetta che i miei genitori chiamavano con orgoglio “il salotto”. C’era appena lo spazio sufficiente per il divano verde, la poltrona e il tavolino a forma di mezzaluna accostato al muro. Una grossa lampada col paralume di seta arancione, confezionato dalla mamma stessa, diffondeva nella stanza una luce calda che sapeva di tramonto. La porta era stata rimossa per poter installare una stufa nell’angolo sinistro del locale. A fianco c’era un ripiano sul quale erano appoggiati una radio e un mappamondo. Lo specchio appeso in corridoio sopra una mensolina, rifletteva il mazzo di dalie, la porta finestra del balcone e la lampada; così il nostro salottino sembrava due volte più grande. Zita amava accucciarsi dove il papà metteva di solito i piedi mentre leggeva o “viaggiava” facendo ruotare il mappamondo.
Che giornata! Avevo imparato l’importanza dell’ubbidienza e del rispetto. La mamma mi aveva anche insegnato l’umiltà: aveva riconosciuto il suo errore e mi aveva chiesto scusa. Fu una di quelle lezioni che si sarebbero rivelate di grande valore nella mia vita futura.
Mi sentii pienamente soddisfatta quando quella sera, china sul mio letto, la mamma mi rimboccò le coperte. Lo sguardo profondo dei suoi occhi blu, il tenero bacio e le sue ultime parole – le prime parole in inglese che io imparai – “Good night, my darling”, furono il punto finale di quel giorno indimenticabile.
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1° ottobre 1936
La fresca brezza mattutina mi aiutò a tenere aperti gli occhi ancora assonnati. Era il primo giorno alla scuola femminile e, anche se conoscevo bene la strada per raggiungerla, la mamma mi dovette accompagnare. L’edificio, una costruzione in pietra rosa a tre piani, si trovava accanto alla chiesa. Ci fecero radunare davanti alla scalinata. In cima, sul gradino più in alto, troneggiavano la direttrice e la maestra che aveva in mano una lista. Solo poche ragazze possedevano una cartella nuova di zecca. Quando avevamo comprato la mia, la mamma aveva detto: “Il cuoio deve essere di buona qualità, perché la cartella dovrà durare per i prossimi otto anni”.
“Le lezioni si terranno dalle 8.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00 eccetto il giovedì, che resterà libero”, si leggeva nel regolamento. “Ogni allieva dovrà munirsi di cartella da portare in spalla e di una lavagnetta alla quale saranno attaccati, mediante una cordicella, uno straccetto asciutto e una spugna umida. Dovrà indossare un grembiule a maniche lunghe abbottonato sulla schiena, abbastanza ampio da coprire l’intero vestito e avrà sul davanti due tasche, una delle quali conterrà un fazzoletto. Il grembiule resterà a scuola per l’intera settimana, ma ogni sabato sarà riportato a casa per essere lavato e stirato”. Sotto le mani di fata di mia madre presero forma un grembiulino rosa, uno azzurro e uno verde acqua: l’ennesimo prodigio con la sua macchina da cucire. E perché potessero “crescere” con me almeno per i prossimi due anni, la mamma aveva lasciato i vivagni e gli orli dei miei grembiuli abbastanza larghi.
“Simone Arnold!” Fui la prima a essere chiamata. Avanzai di un passo in direzione della signorina e alzai lo sguardo su di lei, cominciando dagli stivaletti e proseguendo verso l’alto lungo il suo vestito grigio. Aveva un aspetto imponente, come quello della madre del papà sulle fotografie del nostro album di famiglia. Il colletto di pizzo bianco e i capelli di un grigio cenere, legati all’indietro, facevano apparire il suo volto rotondo come una luna piena. Dietro i cerchi degli occhiali i suoi occhi blu acciaio mi ricordavano quelli di mia madre. Da ognuno dei porri che punteggiavano il suo viso usciva un pelo, proprio come quelli di zia Eugénie. Era una signora attempata come la nonna Maria, però esternava la stessa autorità del papà! Mi sentii perfettamente a mio agio, poiché in lei vedevo l’insieme dei tratti di coloro che amavo.
La signorina mi assegnò il posto accanto a Frida. “Questo banco è ancora abbastanza nuovo e non ha nessuna macchia di inchiostro. Visto che sei fra le più piccole, siediti qui in seconda fila”. Capii subito che avevo la sua approvazione. Quel primo giorno volò.
Nella mia via abitavano quattro mie compagne di classe. Al rientro da scuola passavamo prima dalla casa di Frida, poi dalla mia palazzina, mentre Andrée, Blanche e Madeleine vivevano un po’ più lontano. Frida tremava continuamente come una foglia di pioppo. Sentivo di doverla proteggere. Era molto gracile. Con i capelli biondi, la pelle diafana, le guancette rosee e le occhiaie nere sotto gli occhi brillanti sembrava particolarmente fragile.
“I bambini con grembiuli grigi oppure blu scuro vengono da famiglie povere”, mi aveva spiegato la mamma. Quelli di Frida non solo erano blu, ma anche senza forma e rattoppati e la sua cartella era logora.
Noi cinque andavamo a scuola tutte insieme: percorrevamo la Rue de la Mer Rouge per circa un chilometro. Dopo una prima curva giungevamo alla stazione ferroviaria, procedevamo lungo un quartiere operaio e passavamo davanti alla panetteria, alla merceria, alla drogheria e infine alla latteria. Da quel punto il nome della via diventava Zu-Rhein, dal nome di una famiglia di nobili la cui residenza si trovava sulla destra, immersa in un esteso parco. Sulla sinistra c’erano delle stupende ville con ampi balconi.