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“Adolphe, hai letto la circolare?”, domandò la mamma. Veniva comunicato che il venerdì l’intera classe, senza alcuna eccezione, avrebbe dovuto fare una doccia. Alle allieve sarebbero stati forniti gratuitamente un costume da bagno e del sapone. Alle dieci tutte le bambine che venivano da famiglie sostenute da sussidi sociali avrebbero ricevuto una scodella di latte e un panino.
“Ai miei tempi non avevamo tutte queste agevolazioni – disse il papà – ma non mi meraviglio. Muhlouse è una città socialista”.
“Papà, che cos’è una città socialista?”
“È una città dove i lavoratori si uniscono per difendere i loro diritti e combattono per ottenere delle condizioni più giuste. Il loro stipendio è così basso che si tratta di un’ingiustizia lampante”.
“Papà, che cos’è un’ingiustizia?”
Il papà additò un quadro a olio alto mezzo metro appeso in salotto. Rappresentava un pastore che recitava l’Angelus a mezzogiorno. Lo aveva dipinto lui a quindici anni, quando frequentava la Scuola di Arti e Mestieri. “Era stato esposto durante una mostra di lavori degli allievi e aveva ottenuto il voto più alto. Ma, quando distribuirono i premi, ricevetti la medaglia d’argento anziché quella d’oro. Il mio patrigno si recò dal direttore della scuola per chiedere spiegazioni”. Il papà si sedette, mi prese in braccio e con tono amareggiato proseguì:
“Simone, non dimenticare mai la risposta del direttore: ‘È semplicemente impensabile dare una medaglia d’oro a un ragazzino che viene dalle montagne e il cui nome non significa niente per nessuno. La medaglia d’oro è già stata assegnata al figlio del signor Tal dei tali, che ci sostiene finanziariamente ed è un uomo conosciuto in città!’” Seguì un lungo silenzio.
“Il direttore aggiunse perfino: ‘Se non le va bene, posso riprendermi la medaglia d’argento’”. Io aprii il cassetto e osservai quella medaglia, mentre il papà ripeteva: “Ingiustizia, ecco contro che cosa si devono battere gli operai. Essere socialisti significa proprio questo”.
♠♠♠
Nel cortile della scuola l’albero di tiglio stava ingiallendo. Il vento gli strappava via le foglie e le sparpagliava qua e là ancor prima che noi stesse riuscissimo ad afferrarle per giocare. Ma Frida non correva mai dietro le foglie. Si limitava a guardarci giocare standosene seduta, mentre mangiava il panino con burro e marmellata che io avevo scambiato col suo pezzetto di pane asciutto. Non mi sentivo a mio agio col grembiule rosa. Non volevo essere considerata una “bambina ricca”.
“Sembri stanca, Frida”, le dissi preoccupata.
“È solo che non mi piace il vento”, rispose tra due colpi di tosse.
“Dove lavora tuo padre?”
“Nel suo giardino”.
“Ma allora non può ricevere un salario, vero?”
“No. È invalido”.
Decisi di indagare su quella strana attività. Nemmeno lei era in grado di spiegarmelo. Era troppo timida. Un lunedì mattina non si presentò a scuola. Quando passai davanti a casa sua, le persiane delle finestre che davano sulla strada erano chiuse come sempre. Fortunatamente quel pomeriggio Frida venne a scuola. Mi era mancata tanto e avevo offerto la mia merenda a un’altra ragazzina. Con quale coraggio avrei potuto mangiare il mio panino col burro davanti a tante bambine così povere?
Il lunedì seguente ricominciò a piovere e Frida era nuovamente assente. “È fatta di zucchero?”, mi domandai. Perché mai aveva paura della pioggia? Le mantelline col cappuccio, i capelli bagnati e le scarpe inzuppate diffondevano nell’aula un odore di stalla. Quel mattino dalle quattro grandi finestre non riusciva a penetrare sufficiente luce. E durante il rituale appello le lampadine sotto i paralumi di porcellana ci rischiaravano a malapena.
Venendo a scuola avevamo visto i pompieri, l’ambulanza e la polizia, e ora Blanche e Madeleine ne parlavano animatamente. “Sta arrivando la signorina!”, avvertì qualcuno. Ci precipitammo tutte ai nostri posti per riporre il materiale in ordine sui banchi: la lavagnetta di ardesia con la cornice di legno bianco ben lucidata, la spugna pulita e il fazzoletto piegato accuratamente. Anche le nostre dieci dita dovevano allinearsi alla perfezione sul banco. All’arrivo dell’insegnante piombò improvvisamente il silenzio, come quando si spegne una radio. L’ispezione richiese parecchio tempo perché la signorina esaminava tutto: le scarpe, le gonne e perfino le orecchie!
Quel giorno non riuscivo a togliermi dalla mente l’agghiacciante spettacolo osservato nello Steinbächlein, il fiume che scorreva dietro casa nostra per poi sparire sotto terra. Qualcosa di azzurro veniva trasportato dalla corrente e due uomini cercavano di tirarlo fuori con dei ganci. “Simone, presto, entra in casa!”, mi aveva ordinato la mamma. Più tardi avevo sentito i vicini commentare la scomparsa di due gemelli di tre anni. Il corpo di uno era stato ritrovato, mentre quello dell’altro era stato inghiottito da un mulinello gorgogliante.
“Mamma, dove sono ora i gemelli?”
“Si trovano in cielo, sono degli angioletti”.
Mentre camminava tra le file, la signorina ci avvisò dei pericoli del fiume. “La riva può essere traditrice. Il suolo può cedere sotto i vostri piedi”. Comprendemmo subito che quel giorno non ci avrebbe parlato come il solito dei santi, della loro vita o dei loro sacrifici, ma dell’annegamento e della morte. Ero molto dispiaciuta di perdere la lezione di religione.
Quando tornavamo da scuola nel tardo pomeriggio, ero sempre triste di lasciare Frida davanti a casa sua. Non aveva la mamma ad aspettarla, né una dolce musica di benvenuto, niente tè per riscaldarla né una bevanda fresca per dissetarla, neppure un cagnolino che l’accogliesse festoso. Invece io avevo la mia mamma ad attendermi al ritorno. Nelle giornate di pioggia mi faceva sempre trovare il catino con l’acqua calda per un pediluvio e una deliziosa fetta di pane con della marmellata.
Mi piacevano anche le conversazioni confidenziali tra noi due. Potevo aprirle il mio cuore e rivelarle tutto, o quasi. Avevo un piccolo segreto: provavo un’ammirazione travolgente anche per un’altra donna, ma, siccome temevo di farla ingelosire, avevo deciso di non parlargliene. Una giovane signora si era trasferita nel nostro quartiere. Ammiravo la sua bellezza e la sua eleganza. Divenne il mio modello. Ogni giorno, alla stessa ora, passava sotto casa nostra e io mi precipitavo alla finestra col batticuore per scorgerla. Quanto avrei voluto vederla da vicino!
Il papà prendeva molto sul serio i miei compiti. Non accettava nessuno scarabocchio e se ce ne erano mi faceva ricominciare il lavoro, anche se mettevo il broncio. Amava ripetere: “So che puoi fare di meglio. Non dimenticare che porti il mio nome”. Esercitava la sua autorità in maniera dolce e piacevole. I rari momenti di ribellione mi facevano sprofondare dalla vergogna. Allora dicevo fra me: “Perché tenere testa a un papà così tenero?”
CAPITOLO 2
Riflessioni sulla morte e sull’inferno
Le giornate si stavano accorciando. Coltri di nebbia si stendevano sopra i prati e le dalie reclinavano il capo. Noi bambini rincorrevamo le foglie morte sospinte dal vento e raccoglievamo anche le castagne che i maschi utilizzavano per bombardare le femminucce, costrette a nascondersi per scansarle. Quanto li detestavo!
Era il periodo di Ognissanti e molte persone in visita ai cimiteri spingevano carriole ricolme di crisantemi bianchi e rosa. Presto le famiglie si sarebbero raccolte sulle tombe dei loro cari defunti. Anche zia Eugénie, pur abitando lontano, sarebbe venuta a Bergenbach per l’occasione.
Con mio grande divertimento, i nostri vicini l’avrebbero di nuovo scambiata per mia madre. Aveva i capelli simili a quelli della mamma, ma la carnagione era ambrata, come le pietre della sua collana, e gli occhi parevano due ciliegie nere. Era facile prenderle per gemelle, perché avevano entrambe gli stessi modi allegri e vivaci. D’altronde era proprio così che si sentivano, perciò zia Eugénie era per me una seconda mamma.
Accompagnai la nonna al cimitero di Oderen per ripulire le tombe dei nostri morti. Zia Eugénie, con in mano un grosso vaso di crisantemi, si accostò alla tomba di suo marito. La vidi pregare e piangere.
“Nonna, perché piange?”
“Perché tuo zio è morto da poco, a soli tre anni dal matrimonio”.
“È annegato nel fiume?”
“No, è morto di tubercolosi”.
“La mamma mi ha detto che la morte è la porta per il paradiso”.
Il giorno in cui ero entrata per sbaglio nella camera del mio bisnonno materno ero ancora molto piccola. Giaceva sul letto: con gli occhi chiusi e attorniato da corone di fiori finti, sembrava raccolto in preghiera. La tremolante luce di quattro grossi ceri e il soffocante odore di incenso si diffondevano nella stanza in penombra. In quell’occasione mi era stato spiegato che il nostro caro era in viaggio per raggiungere il cielo. Adesso, dunque, davanti alla sua tomba, ero confusa.
“Nonna, la morte è veramente la porta per il cielo?”
“Dipende, potrebbe anche essere la porta per l’inferno”.
“Io ho già visto il fumo del fuoco dell’inferno. Qualche volta esce dallo scantinato della fabbrica dove lavora il papà. Quando lo vedo, mi allontano!”
La nonna sorrise, prese le mie mani tra le sue e iniziò a recitare una preghiera, alla quale si unì anche zia Eugénie.
“Perché preghi? I morti possono sentirci?”
“Certo! Possono anche aiutarci, se non si trovano in purgatorio”.
“In purga-che?”
“Il purgatorio è il luogo dove, attraverso il fuoco, veniamo purificati dalle cattive azioni compiute e dai peccati commessi. Solo i santi salgono direttamente in cielo”.
“Chi si occupa del fuoco dell’inferno?”
“Il Diavolo, Lucifero. Una volta era un arcangelo, ma, per la sua superbia, fu costretto ad abbandonare il cielo e divenne il guardiano dell’inferno”.
“Nonna, fa freddo! Sto tremando! Vorrei andar via di qua”.
In Alsazia il cimitero viene chiamato “Kirchhof”, vale a dire “cortile della chiesa”. All’uscita l’ombra del campanile avvolgeva tutte le tombe. Su ognuna erano stati sistemati dei fiori, perciò conclusi che lì dovessero esserci sepolti solo dei santi.
Raggiungemmo la fattoria dei nonni, dove attesi con trepidazione l’arrivo di mia cugina Angèle.
♠♠♠
Tutta la famiglia contribuì agli ultimi preparativi per la festa di Ognissanti; zio Germain spostò la tavola e le sedie del soggiorno in un altro locale; il nonno portò in casa dei grossi ceppi per il camino; la mamma e zia Valentine prepararono le castagne da arrostire e la nonna accese un grosso cero vicino al crocifisso tra le due finestre. Tutti ci inginocchiammo, a parte la piccola Angèle che non sembrava particolarmente interessata alle pratiche religiose. Pronunciammo il nome di un defunto: “Reciteremo il rosario per il riposo della sua anima”. Le litanie parevano lunghi mormorii lamentosi. I gemiti del vento e i secchi scoppiettii del fuoco resero l’atmosfera più pesante del solito. Esaminai tutti i visi uno a uno.
Zio Alfred non aveva gli occhi chiusi.
“Zio, perché non preghi come si deve?”
“Se tu stessa l’avessi fatto, non avresti potuto vedermi”, replicò prontamente. Non era vero! Ero perfettamente in grado di guardarmi attorno e allo stesso tempo pregare, io! Il bagliore del cero danzava sul soffitto. Era forse questo il fuoco dell’inferno? O quello del purgatorio? Fuori potevo vedere una luna livida scivolare tra le nuvole e animare ombre bizzarre e lugubri. Erano forse gli spiriti dei morti? Mi pervase un crescente sconforto, tutte quelle preghiere non finivano più… Le ginocchia mi dolevano. L’ultimo ceppo si spense e le castagne smisero di scoppiettare. La tremula luce del cero cominciò ad affievolirsi e la stanza a oscurarsi. Anch’io tremavo! Il filo di fumo nero dello stoppino si contorceva nell’aria in forme curiose. A un tratto il lucignolo, ormai quasi interamente consumato, lanciò un ultimo vacillante bagliore che illuminò il quadro della Vergine Maria. Lei era là, nella sua bella cornice. Teneva fra le braccia il bambino Gesù con un globo nella mano. Il suo petto dischiuso mostrava un cuore sanguinante. Lo scrutai attentamente e mi parve battere e sanguinare ancora più forte, poi tutto sparì, inghiottito dall’oscurità.
Qualcuno si alzò e accese la luce. Zio Germain riportò nel soggiorno le sedie e la tavola, sulla quale furono disposti delle ciotole e del latte. La mamma e zia Valentine sbucciarono le caldarroste, ma quella sera mi sembrarono senza sapore.
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Dicembre 1936
Ero in piedi su una sedia e guardavo la mamma inginocchiata davanti a me: appuntava gli spilli per segnare l’orlo del mio costume da angelo, confezionato con un vaporoso tulle bianco. Sulla schiena vi aveva applicato due ali. Ripetevo la mia parte all’infinito. I miei genitori avevano permesso alla maestra di inserirmi nelle Allodole, un circolo cattolico per bambini. Sotto la direttiva del parroco dovevo interpretare il ruolo dell’arcangelo Gabriele in una rappresentazione teatrale natalizia. I miei incubi sul fuoco dell’inferno mi avevano tormentata fin dalla festa di Ognissanti, ma ora i preparativi per la recita li avevano gradualmente scacciati. Ero di nuovo in piena forma!
La vigilia di Natale non riuscivo a prendere sonno per l’eccitazione: finalmente era giunta la notte del 24 dicembre e Gesù Bambino sarebbe passato. Lottavo per tenere gli occhi aperti. Improvvisamente, verso mezzanotte, la mamma mi chiamò, mi pettinò e mi fece indossare una vestaglia. Dalla sala da pranzo proveniva una luce soffusa. Mi disse: “Gesù Bambino è venuto! Andiamo a vedere che cosa ti ha portato!”
Quasi non ci credevo! In un angolo della stanza aveva lasciato un piccolo abete tutto addobbato: la luce delle candele accese, che si rifletteva sulle bocce di vetro multicolore, produceva un magico scintillio tra le ghirlande argentate. Sotto i rami erano disposte arance e noci. Nell’avvicinarmi, scorsi una carrozzella e una magnifica bambola. “Mamma, papà, guardate! Gesù Bambino ha indovinato i miei desideri!” Tempo prima la nostra vicina, una persona particolarmente curiosa, aveva domandato quale regalo avessi ordinato e la mamma aveva giustamente osservato: “Un regalo non si ordina! Sicuramente Gesù Bambino conosce con esattezza che cosa tu desideri e meriti, Simone!” Come aveva avuto ragione!
La bambola era seduta con le braccia tese, come se reclamasse una mamma. Gesù sapeva quanto sognassi una bambina. Strinsi forte la bambola al mio petto e le diedi subito un nome, Claudine.
Il giorno seguente ci esibimmo nella nostra rappresentazione teatrale. Il sipario calò sul primo atto e il pubblico applaudì, ma, per il secondo, furono gli incoraggiamenti dei miei insegnanti a infondermi la sicurezza necessaria: ultimamente avevo sognato spesso di trovarmi sul palcoscenico con la bocca spalancata e completamente afona.
Zia Eugénie, che lavorava come governante presso la famiglia Koch, venne a trovarmi durante l’intervallo e mi disse: “Togliti il costume da angelo e seguimi! Fa’ pure con comodo, hai abbastanza tempo.
“I Koch gradirebbero conoscerti; si trovano con i tuoi genitori in un palco della balconata”. Nella penombra avevo difficoltà a distinguere l’ambiente. Lo spazio era ridotto al minimo e le poltroncine ricoperte di velluto rosso emanavano uno strano odore. Il signor Koch si alzò tendendo la mano destra verso di me: “Sono molto onorato di incontrare una signorinella così incantevole e dotata”. Poi mi fece il baciamano! Ero completamente imbarazzata; per fortuna sua moglie aggiunse: “E con un vestitino così grazioso!”
“Sì, è stata la mamma a cucirmelo”. Ne ero così fiera che desideravo farlo sapere a tutti quanti. Andavo pazza del mio completo di velluto nero con la giacchetta bordata di roselline.
La porta del palco si aprì. Henriette, una piccola minorata mentale, era ferma sulla soglia; portava al collo un cestino appeso a una correggia. Scossa da tremiti in tutto il corpo, ce lo mise sotto il naso. Ci guardava con occhi supplichevoli e ripeteva con voce implorante: “Per favore, per favore, acquistate un biglietto della lotteria! Vincerete sicuramente!” Tutti noi ne comprammo e lei corse verso il palco successivo, dove era seduto un uomo solo, che manifestò il suo rifiuto scuotendo la testa. Lei allora fuggì via tutta rossa in volto. Povera ragazzina! Che pena! La mamma guardò con aria di rimprovero la persona che aveva rifiutato il biglietto. Lo riconobbi: era il curato della nostra parrocchia.
Il campanello annunciò l’inizio del secondo atto. Dovevo sbrigarmi! Ormai le luci si stavano abbassando. Incrociai Henriette che tornava indietro. Il prete le aveva fatto cenno di avvicinarsi.

La rappresentazione fu un vero successo! Il sipario calò, si rialzò immediatamente e fummo richiamate sul palcoscenico. Alcune di noi avanzarono di qualche passo per salutare. Il teatro era gremito, tutti applaudivano e allora mi commossi fino alle lacrime. Avevo voglia di fuggire, ma rimasi inchiodata al pavimento. Allora Il sipario si abbassò definitivamente. Qualcuno dovette prendermi per mano e accompagnarmi fuori con le altre. Ero esausta e desideravo soltanto rifugiarmi nel mio letto, sotto le coperte.
La mamma mi raggiunse dietro le quinte, mi abbracciò e mi diede un bacio. Rannicchiata in quell’affettuosa stretta, la sentii irritata e tesa. Qualcosa doveva averla contrariata. Si rivolse incollerita al regista: “Simone non reciterà più con voi e si ritirerà dal gruppo delle Allodole. Non allevo mia figlia per poi esporla al pericolo!”
“Ma che intendete dire?”, domandò lui molto stupito.
“Avreste dovuto vedere che cos’è successo nel palco accanto al nostro!” (Anni dopo venni a sapere che il curato aveva trattenuto Henriette e si era abbandonato ad atti sconvenienti.)
La mamma mi portò via in fretta e mi disse: “A casa ti attende la tua bambola Claudine, la tua bimba e lei ha bisogno di te! È sicuramente più importante di queste Allodole! Presto, rientriamo!” Attribuii il suo dissenso alla mia evidente stanchezza e le fui molto riconoscente.
“Sì, devo occuparmi di Claudine, povera piccola, è a casa tutta sola!”
L’indomani, con Claudine al mio fianco, imparai a lavorare a maglia. Anche Zita mi teneva compagnia. Guardai dalla finestra e vidi i fiocchi di neve mutarsi a poco a poco in gocce di pioggia, che rovinarono il bel manto immacolato.
Ci recammo sul posto di lavoro di zia Eugénie. A forza di sguazzare nella fanghiglia gelata, i nostri piedi erano fradici e intirizziti. La signora Koch aveva pregato la zia di invitarmi alla festa di Natale che stranamente lei celebrava qualche giorno dopo il 24 dicembre.
La mamma mi aveva ripetuto allo sfinimento le arcinote raccomandazioni: ‘Sii educata! Non devi mettere un piede sopra l’altro quando sei in posizione eretta! Non devi toccare i mobili! Non devi servirti da sola! Non devi masticare con la bocca aperta! Non devi entrare in un locale senza esservi stata invitata! Non devi mettere i gomiti sulla tavola né appoggiare la testa sulle mani! Non devi giocare con i capelli! Non devi… non devi… non devi!’
La grande villa mi riempì di soggezione. Aveva una scalinata di marmo, degli specchi di cristallo sfaccettato e un tappeto dai colori vivaci. La miscela di aromi di pino, candela, cioccolato e torta, le fragorose risate dei tre piccoli Koch e dei loro cugini, un albero di Natale alto fino al soffitto con un mucchio di pacchetti multicolori ai piedi… ero talmente frastornata che avrei voluto avere le ali ai piedi per fuggire via!
“Accomodati, Simone, non essere timida, non ti faranno certo del male!”
Zia Eugénie mi presentò ai bambini e ai loro cugini, che non parevano per nulla entusiasti di trovarsi in presenza di una ragazzina. “I maschi sono tutti uguali – pensai – anche questi sono dispettosi come i miei compagni di scuola, che continuano a lanciarci le castagne”. Non li sopportavo proprio!
Mi fecero accomodare su una sedia così alta che i piedi penzolavano e in più i capelli mi infastidivano. Osservando la scena la zia sorrise. Con un gesto dolce, ma deciso mi toccò le ginocchia per farmi smettere di ciondolare le gambe, poi spostò la mia mano che si trastullava con i capelli. Io arrossii. Qualcun altro aveva forse notato i miei atteggiamenti poco garbati?
La signora Koch, in un elegante abito di pizzo e con una collana a tre fili, si sedette accanto a me. Mi rivolse la parola in francese, anziché in dialetto alsaziano: “Simone, Babbo Natale ha portato qualcosa anche per te!” Mi condusse per mano davanti all’abete magnificamente decorato e accanto c’era una tavola ricoperta da una tovaglia ricamata. La luce degli addobbi dell’albero si rifletteva sui bicchieri di cristallo e sulle stoviglie d’argento. Ero talmente affascinata da quei luccichii che indugiai a cercare il mio regalo tra la moltitudine dei pacchetti.
La zia venne in mio aiuto: “Simone, è quello che porta un’etichetta col tuo nome”. Sotto l’albero c’era un presepio come quello esposto in chiesa la sera di Natale. Però la festa era già passata. Allora perché quello era ancora lì? Una scatola stretta conteneva il mio regalo, un omino di legno alto una ventina di centimetri con una fessura sul dorso. “È un salvadanaio. Potrai conservarci i tuoi risparmi”. Lo aprii: era vuoto.
Presi il mio regalo e tornai a sedere. Una cameriera in abito nero e grembiulino bianco mi offrì dei dolcetti. Mi sentivo a disagio, così la zia mi invitò a servirmi.
Finalmente la signora Koch annunciò: “Eugénie, il tram per Dornach parte tra una decina di minuti, potete riaccompagnare la nostra signorina”. Che sollievo! La domestica mi portò il cappotto, la sciarpetta di martora e il cappello di feltro e si offrì di aiutarmi a indossarli.
“Oh no, grazie! Sono grande, posso arrangiarmi da sola!” Tutti i presenti sorrisero.
“Una vera donnina!”, esclamò la signora Koch e ci accompagnò all’ingresso. Da una porta aperta che dava sul corridoio il signor Koch mi salutò inclinando la testa brizzolata. Dietro di lui c’era una specie di tavola con dei piedi dorati e dei cassetti; vidi anche degli scaffali alti fino al soffitto, ingombri di libri. Che tipo di locale poteva mai essere quello?
Era ripreso a nevicare. La casa dei Koch, con tutte le finestre illuminate, pareva un castello delle favole.
Sulla via del ritorno domandai a zia Eugénie perché i signori Koch chiamassero Babbo Natale il Bambino Gesù e come mai lui avesse portato un regalo per me a casa loro e in una data diversa da quella di Natale. Ma le sue risposte furono alquanto evasive. Non ci capii più niente!
Dopo le vacanze ripresi la scuola con gioia, ma l’aula scolastica era gelida. La stufa appena accesa ci mise un po’ per riscaldare gradevolmente l’ambiente. Madeleine, Andrée, Blanche e Frida non avevano avuto un albero di Natale. I loro unici doni erano stati un’arancia, una mela e qualche noce. “È perché sono povere”, disse la mamma.
La notte seguente, sotto le coperte, rimproverai Gesù Bambino: “Perché tratti in modo diverso i poveri e i ricchi? Perché hai regalato ai figli dei Koch trenini elettrici, libri, giochi e automobiline? Hanno ricevuto tanti regali che si sono stancati di aprire i pacchetti! Invece alla maggioranza delle mie compagne di classe non hai voluto portare niente. Nulla! Neppure un giocattolino! Questa è ingiustizia bell’e buona!” Non era forse così che il papà aveva definito l’ingiustizia: favorire i ricchi a scapito dei poveri?
Questa ignominia doveva assolutamente finire. Iniziai a comprare del cioccolato e dei pasticcini da distribuire a scuola quotidianamente. Un giorno, passando davanti a un negozio di giocattoli, vidi esposta una graziosa bambolina sistemata su un seggiolone. Visto che a Natale Frida era stata dimenticata, decisi di regalargliela. Entrai nel negozio per informarmi sul prezzo: cinque franchi! “Per favore, tenetemi da parte questa bambola, verrò a prenderla oggi pomeriggio”, dissi. Quindi rientrai a casa per mangiare.
Dopo pranzo, Madeleine mi chiamò dalla strada per fare il tragitto insieme, ma la mamma la invitò a salire in casa. “Madeleine – domandò guardandomi in tono di rimprovero – ti piacerebbe avere una ladra per amica? Per piacere, di’ alla maestra che Simone arriverà in classe con un po’ di ritardo!”