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La mia amichetta sgranò gli occhi. Non capiva che cosa stesse accadendo e, d’altronde, neppure io! Poi se ne andò senza di me.
“Rendimi i soldi che hai rubato!”
“Mamma, io non ho rubato niente!”
“Non mentirmi, per di più!”
“Non sto mentendo! E non ho rubato!”
Con un gesto brusco affondò la mano nella mia tasca ed estrasse la moneta da cinque franchi.
“Ah! E questa che cosa sarebbe?”
“Sono dei soldi che ho preso, ma non li ho rubati!”
“Puoi spiegarmi la differenza?”
“Ma certo! Dovevo correggere la terribile ingiustizia che Gesù Bambino ha commesso nei confronti di Frida. Volevo comprarle una bambola!”
Con mia gran sorpresa, fu la mamma ad acquistarla, ma la sistemò sullo scaffale, accanto al salvadanaio regalatomi dalla signora Koch.
“Ascolta bene, figlia mia. Rubare significa prendere qualcosa che non ti appartiene, poco importa per quale scopo. Voglio che questa bambola ti aiuti a ricordarlo. Rimarrà su questo ripiano. Guai a te se la sposti! Fino a che tu la lascerai là e non ruberai più, non farò parola di questa storia a tuo padre, manterrò il segreto. Sai che lui deve lavorare ore, anzi, che dico, giornate intere per guadagnare cinque franchi? Tu sai quanto lui tenga all’onestà, perciò fa’ attenzione! Non ti ha mai picchiata,eppure in questo caso lo farebbe. Non azzardarti a spostare questa bambola dallo scaffale, altrimenti ti caccerai in guai seri!”
Il giovedì non c’era scuola, così ogni tanto mia cugina veniva a trovarci con la sua bambola e assisteva alle lezioni che davo alla mia. Prendevo questo compito molto seriamente e facevo del mio meglio, tentando di ripetere i concetti di educazione civica appresi a scuola. Trovavo, però, delle difficoltà quando cercavo di spiegare alle bambole che cosa fosse e come funzionasse la coscienza, come la si potesse perdere oppure non possederla affatto. In verità, non lo comprendevo appieno neppure io!
Un giorno domandai al papà: “Che cos’è una coscienza?”
“È una specie di vocina interiore che ti dice ciò che è bene e ciò che è male”.
“Papà, la maestra dice che dovremmo riflettere ogni sera sulla giornata appena trascorsa e su quello che abbiamo fatto”.
“Questo significa farsi un esame di coscienza. Certo, per i piccoli è ancora un po’ difficile, ma più crescerai più lo saprai fare”.
“Io non sento niente, eppure vi presto attenzione tutte le sere. Non c’è nessuno che parli dentro di me. Come devo fare perché questo succeda?” Lo volevo sapere! Non avevo assolutamente intenzione di far parte dei “piccoli”.
“Continua a cercare questa vocina e ad attenderla. Un giorno la scoprirai: è dentro di te”.
“Papà, la notte scorsa, mentre ero coricata, le mie gambe mi hanno parlato”.
“E che cosa ti hanno raccontato?”
“Che avevano voglia di girarsi”.
“E tu che cosa hai risposto?”
“Ho cambiato posizione”.
“Erano i tuoi muscoli a mandarti il segnale. Anche i tuoi sentimenti ti parlano e, col tempo, imparerai ad ascoltarli con attenzione e a ubbidire loro”.
Continuavo a istruire la mia bambola con tutta la serietà del caso. Un giorno ero con lei nella nostra “aula” e guardavo la mamma intenta a cucire. Quando il papà entrò nella stanza fui felice, ma poi i suoi occhi si posarono sulla bambolina seduta sulla mensola. Mi sentii come Zita, che, dopo avere combinato qualche marachella, si rifugiava sotto il letto!
“Da dove viene questa bambola?” Quasi certamente mi aspettavano dei guai!
“Non è carina? È come piace a Simone”, rispose la mamma, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro. Mi irrigidii ed evitai di guardare il papà.
“Deve essere costata cara, le miniature di questo tipo sono senza prezzo”.
Mi sentivo persa! Lanciai uno sguardo sconsolato alla mamma, che continuava tranquillamente a cucire.
“A proposito, Adolphe, visto che parliamo di oggetti costosi, ti sei informato sul prezzo di una bicicletta nuova?”
“Sì, l’ho fatto. Per il momento non possiamo permetterci una tale spesa. È veramente troppo cara!”
“E per quanto tempo dovremo risparmiare?”
La mia cara mamma aveva mantenuto il segreto! Mi levai un peso dallo stomaco. La sera, a letto, guardai la bambolina e pensai a tutti i dolciumi che avevo distribuito. Rividi i visi felici dei miei compagni di classe. Ma, improvvisamente, il mio cuore si mise a battere più forte. Con i soldi rubati, avremmo forse potuto acquistare una bicicletta per il papà? I battiti accelerarono sempre di più. Era la mia coscienza che parlava? Come esserne sicura? Non potevo certo domandarlo al papà, altrimenti avrei tradito il segreto. Era una situazione senza via d’uscita!
Non sopportavo più la vista di quella bambolina! La mattina dopo la spostai tutta tremante, ma la sera me la ritrovai sulla mensola, seduta al suo solito posto. Nonostante i miei sforzi per farla sparire, la scena si ripresentò anche nei giorni seguenti. Col passare del tempo i battiti del mio cuore divennero sempre più veloci e alla fine mi sentii soffocare sotto il peso del rimorso. Il silenzio della mamma sul nostro segreto mi era diventato un fardello. Capii di aver preso coscienza della mia coscienza!
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Un giorno l’insegnante descrisse con dovizia di particolari una visione mistica mozzafiato: lo splendore del trono divino. Ci parlò entusiasta degli angeli creati da Dio per attorniare il suo trono e diffondere una musica celestiale con le loro arpe dorate. Perché non potevo essere con loro?
“Noi esseri umani non li possiamo vedere perché sono delle creature spirituali invisibili. Hanno delle grandi ali e volano attraverso i cieli”.
Alla fine di questo esaltante discorso mi risultò difficile concentrarmi sull’esercizio di calcolo. Le lezioni proseguirono per altre due ore e poi, alle undici del mattino, sopraggiunse il curato per la lezione di catechismo.
“Benedetto sia colui che viene nel nome del Signore!”, recitò con voce solenne. L’intera classe si alzò per rispondere: “Amen”.
“Come si fa ad andare in cielo?”, ci domandò.
Era proprio quello che desideravo sapere!
“Accettando la sofferenza”, rispose lui stesso. “Gli uomini soffrono per un castigo di Dio, che punisce i suoi prediletti. Allora, rallegratevi quando soffrite!”
Al termine della lezione lo avvicinai. “Signor Curato, per quale motivo Dio ha creato gli angeli direttamente in cielo, mentre noi possiamo arrivarci solo attraverso le sofferenze?”
L’espressione del prete divenne minacciosa e mi fulminò con gli occhi. Con voce tonante e tremante di collera esclamò: “Non hai che sei anni e osi criticare Dio?”
“Ma signor Curato, volevo solo…”
“Taci! Tu hai uno spirito ribelle. Se continui così andrai direttamente all’inferno! Impara il catechismo e non lo mettere mai più in discussione!”
Me ne andai tutta triste, a capo chino e col cuore pesante. Immersa nei miei tristi pensieri, scoppiai in lacrime. Provai una tale vergogna che, per non darle un dispiacere, preferii non parlarne alla mamma. Da quel giorno il catechismo non mi piacque più. Lo sguardo severo del curato e la sua voce intimidatoria mi mettevano a disagio. Era come se non volesse parlare di altro che dell’inferno. Preferivo recarmi in chiesa.
Febbraio 1937
La domenica andavamo a messa a piedi, agghindati con gli abiti migliori. La mamma portava un bel cappellino e il papà un basco, che sfiorava con le dita in risposta ai saluti della gente. Tenevo il mio messale dalla copertina di madreperla nella mano sinistra e davo la destra al mio papà. La mamma stringeva al petto la borsetta e il proprio messale, salutava i passanti con un cenno del capo e un sorriso.
“Devono essere le dieci, gli Arnold vanno in chiesa”, dicevano alcuni nostri vicini. I rispettosi saluti che tutti porgevano ai miei genitori mi riempivano di orgoglio.
La nostra chiesa era imponente. Il portale era spalancato per accogliere i fedeli. L’altare maggiore, tutto dorato, splendeva sotto i raggi del sole, che attraversavano le alte vetrate, eclissando le fiammelle dei ceri. Ma io non ero più rapita come prima. Le statue dei santi avevano un che di tetro. Durante l’eucaristia non me la sentivo più di rivolgere lo sguardo al curato assistito dal chierichetto. Tuttavia mi battevo coscienziosamente il petto con gli altri fedeli: “Mia colpa, mia colpa, mia massima colpa”.
In una bella giornata di febbraio, calda e soleggiata, dopo la messa facemmo una scampagnata. “Dovrai lasciare Claudine a casa perché cammineremo molto attraverso campi e prati”.
La terra bruna, rallegrata qua e là dal verde primaverile di un prato, si estendeva a perdita d’occhio. Una cicogna, simbolo dell’Alsazia, passeggiava in un acquitrino vicino al Doller, il fiume locale. Zita scodinzolava e correva avanti e indietro con la pancia a terra, dando la caccia a tutto ciò che le capitasse a tiro e giocando a nascondino con me. Al tramonto i raggi del sole presero a danzare con i veli di foschia, che ondeggiavano sull’erba. All’improvviso, notai in lontananza un uomo dalla figura familiare che usciva dal folto degli arbusti in compagnia di un ragazzino. Si allontanarono frettolosamente e scomparvero.
La sera stessa, la mamma si sedette vicino a me; desiderava parlarmi prima che mi coricassi e ciò mi rese un po’ inquieta.
Mi guardò molto teneramente, ma con viva preoccupazione: “So quanto ti piaccia andare in chiesa a pregare prima della scuola. D’ora in avanti, però, tuo padre e io non vogliamo più che tu ci vada senza di noi”.
Queste parole mi lasciarono molto stupita: “Ma perché, mamma?”
“La chiesa è molto grande e poco illuminata. Qualche malintenzionato potrebbe nascondersi e tentare di farti del male”. Prese il mio mento tra le dita e, con voce più dolce, ma decisa, aggiunse: “Non andarci più da sola, d’accordo?”
Il lunedì mattina oltrepassai la chiesa senza fermarmi, e il cuore mi batteva forte. La richiesta dei miei genitori non mi piaceva, comunque obbedii. A scuola ci furono le solite lezioni; durante l’ora di religione trattammo la storia di santa Teresa di Lisieux. Come al solito presi un buon voto, con i complimenti della maestra per i compiti ben fatti. Frida era presente quella mattina, ma tossiva così forte che l’avevano fatta sedere da sola nell’ultima fila. Il cielo assunse gradualmente una sfumatura plumbea e la neve iniziò a cadere. Vennero riaccese le luci. A mezzogiorno, quando uscimmo, affrontammo una vera tempesta. Costrette a camminare all’indietro, ci riparavamo lungo i muri delle case. Frida lottava a fatica contro il vento scatenato. Era scossa da interminabili accessi di tosse e riprendeva fiato con difficoltà.
Quando giunsi a casa abbracciai la mamma e le sussurrai all’orecchio: “Non sono entrata in chiesa questa mattina!”
“So che sei una brava bimba”. Mentre ascoltava il racconto del movimentato ritorno, scrollò la neve dal mio mantello e mi porse delle pantofole ben calde.
“Sai mamma, adesso Frida, poverina, deve sedersi in fondo all’aula tutta sola a causa della sua tosse”.
“Quando tossisce davanti a te, faresti meglio a voltare la testa”.
Nel pomeriggio il cielo si rischiarò, ma il banco di Frida rimase vuoto e io mi resi conto delle gravi conseguenze delle malattie. Quel giorno decisi che, prima di divenire santa, avrei esercitato la professione di infermiera.
Dalla finestra dell’aula scorsi i passeri appollaiati sui davanzali delle vetrate colorate della chiesa e io immaginai l’altare illuminato dai variopinti raggi di sole che si infiltravano. Ma io non potevo più andarci!
Avevo tentato di intenerire mio padre per strappargli il permesso di passare in chiesa al mattino, ma lui mi aveva risposto: “Che cosa ti ha raccomandato la mamma?” Naturalmente lui aveva preso le sue parti. Rannicchiata sotto le coperte, me la presi con i miei genitori.
Perché dovevano sempre allearsi contro di me? Il papà sosteneva in modo incondizionato le affermazioni della mamma. Quando chiedevo a lei il permesso per qualcosa, ricevevo la puntuale risposta: “Ne hai già parlato col papà? Altrimenti possiamo sentire il suo parere”. Non c’era via di scampo! Non riuscivo a prendere sonno.
I miei genitori si sedettero in salotto come ogni sera. Il papà leggeva ad alta voce e la mamma lo ascoltava lavorando a maglia. Ma quella volta li sentii discutere. Parlavano forse di me? Sì, ne ero sicura, parlavano proprio di me! Inizialmente pensai di alzarmi per ascoltarli, ma l’idea mi creava inquietudine, perciò preferii rimanere a letto con l’orecchio teso.
Parlavano di religione. Sentivo la conversazione a intermittenza, in quanto le loro voci a volte si riducevano a un sussurro. “Adolphe, mi pare incredibile, sì persino impossibile, che Dio accetti di incarnarsi in un’ostia innalzata da mani così sudice come quelle di questo prete”.
“Emma, noi uomini non abbiamo il diritto di giudicare un servitore di Dio e…”
Non riuscivo proprio a capire. Mi rifugiai di nuovo sotto le coperte, pensando con orrore a quel sacerdote che non si lavava le mani prima di celebrare la messa!
L’indomani mi trovai d’innanzi alla piccola entrata laterale della chiesa. I battiti del mio cuore accelerarono. “È la casa del Buon Dio. Non può esserci pericolo qui, vero?” Aprii lentamente la porta, ma la chiesa apparve così buia e deserta che la richiusi immediatamente e me la diedi a gambe. Il giorno dopo presi una decisione: sarei entrata, mi sarei fatta il segno della croce con l’acqua santa, avrei percorso il corridoio in punta di piedi nascondendomi dietro i banchi, poi mi sarei inginocchiata davanti all’altare. Lì avrei chiesto in fretta perdono spiegando che non potevo trattenermi perché mi era stato proibito di entrare in chiesa da sola. Infine sarei uscita di corsa dalla parte opposta.
In preda a un’ansia incontrollata, fui quasi tentata di rinunciare. La porta si aprì con un lungo cigolio. Tremavo dalla testa ai piedi. I volti dei santi sembravano prendere vita. Davanti all’altare mi mancò il fiato. Prima di giungere dall’altra parte, sentii le mie gambe cedere. Credetti di udire una voce provenire dalla navata, allora iniziai a correre con tutte le mie forze e mi precipitai verso la porta, sbattendola violentemente dietro di me.
La mia coscienza mi tormentava perché avevo disobbedito, ma ragionai: “Dio è maggiore dei miei genitori! Loro non conoscono il mio desiderio di divenire santa!” Era il mio grande segreto e, per realizzarlo, mi sentivo persino disposta a incorrere nella loro disapprovazione. Ma non fu necessario, infatti non vennero mai a conoscenza delle mie visite clandestine!
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Ero consacrata alla Vergine Maria dal giorno del mio battesimo e ora mi era stata offerta la possibilità di partecipare alla processione che avrebbe avuto luogo di lì a poco. Il prete sarebbe sfilato sotto un baldacchino retto da quattro uomini. Avrebbe tenuto davanti al viso un ostensorio d’oro che richiamava le sembianze del sole, mentre delle bambine avrebbero cosparso il tragitto di petali di fiori. Che bella cerimonia sarebbe stata! La mamma confezionò un bel vestito bianco di leggera organza con una cintura blu. Mi comprò delle scarpe nuove e una coroncina di rose. Non stavo più nella pelle! Purtroppo mi venne la tosse e tutto dovette essere annullato. Fino ad allora non mi ero mai ammalata. Perché doveva proprio capitare in quel momento? Dio era forse adirato con me? La mamma passò tutto l’abbigliamento a un’altra bambina. Mi rodevo dalla gelosia. Dopo soli tre giorni dalla processione fui di nuovo in piena forma, ma più furiosa che mai.
Quando ritornai a scuola, Frida non c’era. Il medico le aveva proibito di uscire fino a completa guarigione. Ogni giorno, passando sotto casa sua, la chiamavo senza ottenere alcuna risposta.
Un mattino vidi nel suo cortile dei vasi con meravigliosi fiori bianchi. Finalmente qualcuno si era preoccupato di lei e le aveva mostrato un po’ di attenzione!
La mamma mi mandò da Aline a comprare dello zucchero per le fragole. Salii i quattro gradini della drogheria e mi trovai dietro a una cliente alta e slanciata che indossava uno spolverino e delle scarpe di coccodrillo. Una vera signora, molto diversa dalle donne della nostra via…
La vidi allungare una mano inguantata di pizzo. Mi mancò il fiato: era lei, la bella signora che tanto ammiravo! Rimasi a bocca aperta e la scrutai con attenzione. Per fortuna la mamma non poteva vedermi!
Aline mi sussurrò all’orecchio: “Simone, non fissarla in quel modo. Ha il pancione perché ha mangiato troppe ciliegie e poi ha bevuto molta acqua”. Non me ne ero neppure accorta. Non avevo avuto occhi che per la sua bella camicetta e la magnifica collana. Che delusione! Dunque quella signora così distinta non sapeva controllarsi? La sua pancia era così gonfia che pareva dovesse scoppiare da un momento all’altro. La scansai bruscamente e, ultimati i miei acquisti, corsi via, lontano da quella donna senza ritegno.
La mamma mi interpellò: “Simone, perché non hai portato Zita con te a fare la spesa?”
“Perché è ammalata e lo è anche Claudine”. Indossavo il camice da infermiera cucito dalla mamma quando le avevo confidato che da grande avrei voluto esercitare quella professione.
“Non scordare che si tratta solo di un gioco. Puoi ancora portare fuori Zita, ne ha bisogno”.
“D’accordo, ma siccome non sta bene la vesto e la metto nella carrozzina di Claudine”. La mamma scoppiò a ridere. Sapeva bene quanto mi piacesse portare a spasso la mia cagnolina fasciata e coricata supina come un neonato, con grande stupore dei passanti.
“No, ora è indispensabile lasciarla correre con le sue quattro zampe”.
“Ma mamma, è veramente ammalata!” Io lo sapevo: ero l’infermiera!
“Come lo sai?”
“Non hai notato che la sua testa sembra rimpicciolirsi ogni giorno un po’ di più rispetto al corpo?”
La mamma tacque e versò lo zucchero sulle fragole: “Guarda, il succo scioglie lo zucchero. Quando torneremo dalla passeggiata dovremo solamente cuocere il tutto”.
Dal nostro giardino godevamo una vista magnifica. All’orizzonte, da un lato della collina, si scorgevano i contorni azzurrognoli dei Vosgi e, dall’altro lato, i monti della Foresta Nera tedesca illuminati da un sole sfavillante.
“Sta’ attenta a Zita e impediscile di scavare buche dappertutto”.
Facile a dirsi! Davanti a una tana di topo, Zita sapeva dar prova di una forza e di una testardaggine fuori del comune e non era facile trattenerla dalle zampe posteriori per impedirle di infilarcisi.
Il crepuscolo sostituì infine l’ombra degli alberi, perciò radunammo celermente gli utensili da giardinaggio. Durante il ritorno, tenevo Zita al guinzaglio. Improvvisamente sentimmo un rumore che pareva il sibilo del vento. Il cielo assunse un colore rossastro e delle volute scure turbinarono sulle nostre teste. La mamma mi afferrò per mano e ci precipitammo al riparo dalle faville che svolazzavano da tutte le parti. Stava bruciando una fattoria!
Dal centro dell’incendio sprizzavano dei tizzoni ardenti che accendevano nuovi focolai nell’erba secca. Alcune galline correvano all’impazzata e altre avevano preso fuoco. Nessuno riuscì a soccorrere i maiali e le mucche prigionieri nella stalla. Gli automezzi dei pompieri erano giunti dalla vicina città per cercare di domare il rogo che stava consumando la fattoria e le case del vicinato. I caschi dei soccorritori riflettevano le fiamme, i loro visi erano rossi e le loro uniformi nere. L’edificio scricchiolò e improvvisamente crollò sugli animali intrappolati e pose fine alle loro sofferenze.
Ci permisero di riprendere la strada di casa, mentre dalle travi annerite si levava ancora del fumo. L’aria ne era satura anche a notevole distanza. Che spettacolo sconvolgente!

Rincasai tutta tremante, incapace di mangiare o di giocare. Lo spavento mi provocò la febbre e la mamma mi consigliò di coricarmi. Zita, che pareva abbattuta tanto quanto me, si accucciò ai piedi del letto con gli occhi lucidi. Non era ancora ora di dormire, ma la mamma mi propose: “Ti sentirai meglio dopo una buona notte di riposo”.
Quella notte fu tutt’altro che tranquilla. Vedevo fuoco dappertutto, anche con gli occhi chiusi. Nei miei incubi udivo i versi degli animali che bruciavano. La mamma venne a stendersi vicino a me.
Il giorno seguente non mi sentii affatto meglio. “Mamma, è stato Lucifero a incendiare la stalla dove si trovavano gli animali?”
Lei mi elencò le cause più probabili dell’incendio, ma le sue spiegazioni non bastarono ad allontanare il terrore dell’inferno. Il papà tentò di distrarmi facendomi disegnare, ma ero troppo turbata.
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La giornata era bella e calda, eppure Frida era ancora assente. “Signorina maestra, perché Frida non ritorna a scuola?” Invece di rispondermi mi accarezzò i capelli.
“Tossisce ancora?”
“Oh no, non tossisce più, ora è in cielo”.
“Ecco perché!”
“Che cosa vuoi dire?”
“Ecco perché c’erano dei vasi di fiori bianchi nel suo cortile”.
Passai singhiozzando davanti alla sua modesta casetta con le persiane sbarrate. I fiori erano ormai appassiti, morti anche loro. Ero così addolorata per la sua scomparsa che non sopportavo più di vedere la sua abitazione, così attraversai la strada. Ma un pensiero mi consolò: in cielo non avrebbe mai più tossito; avrebbe suonato per sempre l’arpa dorata su una nuvola. Poteva forse vedermi da lassù?
Ci fu di nuovo lezione di catechismo. Di che cosa avrebbe parlato il prete questa volta?
“Esiste una differenza tra il fuoco del purgatorio e quello dell’inferno; chi muore da peccatore può scampare al fuoco dell’inferno solo se gli vengono somministrati gli ultimi sacramenti e l’estrema unzione. Per questo bisogna chiamare un prete. Il moribondo deve confessarsi senza dimenticare alcun peccato. Allora gli si potrà impartire la santa comunione. Tuttavia un defunto, anziché essere accolto subito in cielo, potrebbe trascorrere un certo periodo in purgatorio, dove le anime bruciano e soffrono, ma possono uscirne dopo essere state purificate dai loro peccati. La famiglia può abbreviare le sofferenze del proprio caro attraverso la celebrazione di messe di suffragio, preghiere e offerte votive”.
La notte seguente fu terribile. Vedevo Frida tra le fiamme e la signora tanto distinta che gemeva lamentandosi del suo ventre scoppiato. Pompieri dalle facce cremisi avevano code forcute da demoni. I gemellini annegavano in un fiume infuocato. Volevo pregare per loro, però i santi non udivano la mia voce a motivo del crepitio del fuoco. Urlai e mi svegliai. La mamma accorse e mi asciugò la fronte madida di sudore. Il mio letto era completamente sfatto. Lei lo rassettò, mi rimboccò le coperte e mi baciò. Spossata, ricaddi nel sonno, ma gli stessi incubi non tardarono a tornare. La sera successiva ero troppo impaurita per andare a dormire. Il mio letto era divenuto un vero inferno!
Zita aveva partorito dei cuccioli e ora la sua testa sembrava aver ripreso le giuste proporzioni. Poco tempo dopo, in una bella giornata di sole, rividi l’elegante signora: spingeva una carrozzina e appariva sgonfiata. Corsi verso la mamma e le domandai: “Le donne portano i loro bambini nella pancia come Zita?” Le sue spiegazioni mi permisero di capire che la signora Huber e Aline mi avevano mentito.
“Ma perché le persone mi dicono che, per avere una sorellina, devo dare una zolletta di zucchero alla cicogna?”
“È una storiella per i piccoli”.
“Ancora con questi ‘piccoli’! Io non faccio più parte dei ‘piccoli’. Perché gli adulti raccontano delle menzogne?” La mamma non mi rispose.
“Dio non ha forse detto: ‘Non devi mentire’? Gli adulti non hanno dunque paura di andare all’inferno?”
Quella sera, sotto le coperte, decisi che non avrei mai più rivolto la parola alla signora Huber. Perché la mamma non aveva risposto alle mie domande? Perché gli adulti mentivano ai bambini? Da quel momento avrei dovuto vagliare accuratamente tutto ciò che mi avrebbero raccontato! Quell’idea mi mise di pessimo umore.
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Il papà era un meraviglioso compagno di giochi e mi suggeriva sempre nuovi passatempi. Avevo qualche difficoltà con la trottola che zio Germain mi aveva costruito. Appena iniziava a girare, già rallentava, vacillava e cadeva. Dovevo dunque ricominciare tutto daccapo: avvolgere la cordicella attorno al manico, posare la trottola con la punta rivolta verso il basso su una superficie piana e rilanciarla con un colpo secco all’estremità della cordicella.