- -
- 100%
- +
Intanto il papà mi incitava dal balcone: “Riprova! Andrà meglio la prossima volta!” Nella nostra via non c’erano automobili in circolazione, perciò vi potevo giocare liberamente. In estate, dopo l’orario di lavoro, alcuni vicini si affacciavano alle finestre con le braccia comodamente appoggiate su un cuscino disposto sul davanzale. Quella sera mi osservavano e le loro battute, invece di scoraggiarmi, mi spronarono a impegnarmi di più. L’ora di coricarsi arrivò presto e faceva talmente caldo che la mamma lasciò le persiane socchiuse.
“Mamma, papà, presto, aiuto, aiuto, il fuoco, il fuoco!” Un bagliore rosso e arancione aveva invaso la mia cameretta. Il papà arrivò, mi fece alzare e mi accompagnò sul balcone. La signora Huber, la signora Beringer e la signora Eguemann erano uscite tutte e tre per ammirare lo straordinario spettacolo. Il sole era tramontato, le montagne blu erano divenute nere, tutto il cielo si era tinto di scarlatto e Jean, un giovanotto del vicinato, suonava una melodia nostalgica col suo mandolino.
“Chi ha aperto la porta dell’inferno?”
“Non è il fuoco dell’inferno, ma un tramonto eccezionale!”
“No, per illuminare tutto il cielo deve essere un fuoco immenso!”
Il papà e la mamma si guardarono scuotendo la testa.
“Sono straconvinta! Questo bagliore proviene dall’inferno. Il curato ci ha detto che i peccatori impenitenti non salgono al cielo, ma discendono in un inferno ardente”.
Il papà tentò di spiegarmi qualcosa a proposito di lava e di fuoco sotterraneo, ma i suoi discorsi servirono solamente ad accrescere il mio terrore e confermare le mie paure. La mamma mi riaccompagnò a letto, si sedette accanto a me e mi rassicurò nuovamente che si trattava di un semplice tramonto.
“Non aver paura dell’inferno. Noi abbiamo i santi che intercedono per noi e anche un angelo custode”.
Non servì a nulla, poiché io conoscevo molto bene la sorte di chi moriva senza la confessione e l’estrema unzione! Se i miei genitori fossero morti nel sonno, sarebbe stato tremendamente orribile. Da quella sera in poi mi intrufolavo ogni notte nella loro camera e verificavo che respirassero ancora mettendo il mio dito sotto il loro naso. Solo così riuscivo a prendere sonno.
Una domenica pomeriggio uscimmo per l’abituale passeggiata e passammo davanti a una trattoria; mi ricordai di esserci già stata all’età di tre anni e di avere ballato su una tavola fra gli applausi dei clienti.
Anche il papà se ne ricordò, infatti mi disse, con un’aria che avrebbe voluto sembrare severa: “Ti ricordi? Che sia chiaro una volta per tutte: non voglio assolutamente che tu divenga una ballerina di cabaret!”
Non era il caso! Quella raccomandazione era del tutto superflua! Ero grande e seria ora; presto avrei compiuto sette anni! Sapevo tutto sulla malattia, sulla morte, sul purgatorio, sull’inferno e su Dio, che ci procurava ogni sorta di sventura per testare la nostra fede. I miei genitori cercavano di rassicurarmi, ma la mia spensieratezza era finita. L’educazione religiosa ricevuta a scuola mi aveva fatto comprendere quanto la vita terrena fosse difficoltosa e che io, per divenire santa, avrei dovuto sopportare molte prove. Questa era diventata la mia principale preoccupazione. Un anno di catechismo mi aveva immersa in uno stato permanente di terrore di Dio, questo Padre così severo ed esigente! Come avrei mai potuto essere dell’umore adatto per ballare?
Seduta su uno sgabello, istruivo ancora Claudine. Cercavo di insegnarle la pronuncia dell’alfabeto tedesco. La mamma era sulle scale del caseggiato per il suo turno delle pulizie. La nostra vicina si accontentava di lavarle con uno straccio umido, invece la mamma passava la cera con insistenza fino a fare brillare il legno. La sentii parlare con qualcuno sul pianerottolo, rientrare nell’appartamento per prendere del denaro e riuscire subito.
“Le leggerò – la udii promettere – ma ho l’impressione che Dio dorma e che non si interessi dei nostri problemi. Qual è la vostra risposta?”3 Come aveva osato esprimersi in quel modo? Sarebbe stata dannata all’inferno! Mi inginocchiai davanti al mio piccolo altare e supplicai i santi di intercedere in suo favore per proteggerla dall’ira divina. La salvezza della sua anima mi stava a cuore.
3 La mamma aveva conversato con dei testimoni di Geova, che stavano predicando di porta in porta e distribuivano degli opuscoli. Fino al 1931 si chiamavano Studenti Biblici o in tedesco Bibelforscher (ndt)
Quel giorno era il mio turno di lavare le stoviglie e non riuscivo a pulire bene le incrostazioni sul fondo delle pentole. “Ci verseremo dentro dell’acqua e le lasceremo in ammollo. Si puliranno più facilmente in seguito”, mi disse la mamma, con la mente rivolta altrove. Appoggiò le pentole su un mobile del balcone, dietro a una tenda che proteggeva la nostra cucina dagli sguardi curiosi dei vicini. Rimasero lì per diversi giorni!
La mamma era entusiasta delle riviste che le avevano lasciato. Non smetteva di leggere la Bibbia che si era comprata in libreria: a malapena si prendeva il tempo per preparare i pasti! Da quel famoso giorno in cui mi aveva proibito di andare in chiesa da sola, lei stessa non vi era più tornata, né per confessarsi né per fare la comunione. Partecipò ancora per qualche tempo alle funzioni della vicina parrocchia, ma poi abbandonò del tutto le consuetudini religiose. Restavo solo io ad accompagnare il papà. Lui aveva un’aria piuttosto depressa e neppure io mi sentivo a mio agio. Nemmeno la bella musica dell’organo serviva a risollevarmi il morale. E ora, per di più, la mamma sembrava non sapesse più cucinare! “Legge troppo!”, dicevo tra me.
Una sera, mentre stavo per prendere sonno, sentii i miei genitori discutere. Tesi le orecchie il più possibile per captare le loro parole. Di certo avevano un segreto e io volevo assolutamente carpirlo. Sgusciai nel corridoio per ascoltare la loro conversazione. Il papà aveva un tono insistente. La voce della mamma era più dolce, ma molto ferma, e parlava della libertà di scegliere la religione secondo coscienza.
“Noi siamo cattolici!”, rispondeva continuamente il papà.
“Certo che lo siamo! Che bisogno ha di ripeterlo?”, mi domandai. Non riuscii ad afferrare la risposta della mamma.
Il papà, innervosito, ribadì con fermezza: “Noi dobbiamo restare fedeli!” Aggiunse che a Roma si trovava una certa roccia, chiamata Pietro, sulla quale era assiso il Papa; poi si alzò bruscamente. Accennai un mezzo giro per cercare di eclissarmi, ma era troppo tardi: il papà mi aveva vista. Uscì dal salotto infuriato: “Fa’ come credi!” Dopo alcuni passi si voltò per ribadire: “Ti proibisco di parlare a Simone delle tue idee e delle tue letture”.
Incredibile! Parlavano di me, eppure mi ignoravano; insomma, mi trattavano come una lattante! Stavo per esplodere dalla collera. Ero così agitata che decisi di tenere testa al papà.
L’indomani le mie prime parole furono: “Mamma, che cosa leggi tutti i giorni?”
“Letteratura biblica”.
“Di che cosa si tratta?”
“Riguarda la Bibbia, la Parola di Dio”.
“La leggerò anch’io”.
“Potrai farlo quando sarai grande”.
“No, subito!”
“Simone, ho promesso a tuo padre di non parlarti né della Bibbia protestante né di altri scritti religiosi”. Mi stavano davvero nascondendo qualcosa!
“Ma ora il papà non c’è!”
“È vero, ma gli ho fatto una promessa”.
“Ma il papà non ti vede e io non gli racconterò niente”.
“Non è una buona idea, sarebbe una specie di menzogna. Figlia mia, tuo padre lavora sodo per mantenerci e per pagare l’affitto. Ha tutti i diritti di prendere delle decisioni sulla tua educazione!” Mi sentii ribollire.
“Ma perché? Perché non ho il diritto di leggere ciò che voglio?”
In casa si creò un ambiente insolito. La mamma continuava a non andare in chiesa, ma almeno non lasciava più bruciare le pietanze. Il papà quasi non apriva bocca, non menzionava neppure più il socialismo! Salutava la mamma in modo meccanico, senza calore o entusiasmo, poi iniziava a interrogarla.
“Chi hai visto? Dove sei stata?” Trovavo stupido questo modo di fare. Eppure mio padre era al corrente che la mamma vedeva solo il droghiere, il macellaio e il panettiere! Perché non la lasciava in pace? Un giorno le sue domande presero i toni di un vero e proprio terzo grado.
“Pretendi di convincermi che quegli uomini che ti hanno lasciato questa letteratura non siano più venuti a trovarti?”
“No, non sono più tornati e mi dispiace, perché avrei molte domande per loro”.
Questa risposta non soddisfece il papà, che continuò: “Allora puoi spiegarmi come ti sei procurata queste nuove riviste?”
“Le ho ordinate”, ribatté la mamma. “Ecco la prova!”, aggiunse esasperata, mostrando una grande busta marrone con tanti francobolli.
“Perché ne hai ordinate così tante e dove sono finite?”
“Ho ordinato tre diversi opuscoli e me ne hanno inviati dieci copie di ognuno”.
“E che cosa ne hai fatto?”
“Le ho distribuite ai vicini del palazzo e ad alcuni che abitano nella strada un po’ più avanti”.
Il papà scosse la testa fuori di sé.
Mi rintanai in un angolo del soggiorno, pensando che dovessero essersi completamente scordati di me. Mi feci più piccola e silenziosa che mai.
Il papà fissò la mamma dritto negli occhi e scandì chiaramente: “Fai anche della propaganda adesso?” La mamma impallidì. Gli avrebbe risposto per le rime? Io l’avrei fatto! La stava trattando come una bambina!
D’un tratto lei disse: “Adolphe, bisogna dare a ognuno la possibilità e il diritto di fare scelte consapevoli. Questo non significa fare della propaganda!”
“Brava mamma!”, pensai, ma, senza rendermene conto, l’avevo fatto ad alta voce e avevo anche borbottato che ognuno, me compresa, aveva pure il diritto di scegliersi le proprie letture. Entrambi mi fissarono e tacquero sbigottiti.
CAPITOLO 3
Il mondo dei libri
Dopo la morte di Frida rimanemmo solo in quattro, e per andare e tornare da scuola preferivamo camminare sul lato della strada opposto alla sua abitazione. Passando davanti a un edificio, sentivamo una ragazza tossire molto forte. Io non l’avevo mai incontrata, ma Blanche la conosceva: si chiamava Jacqueline. Dopo una lunga degenza presso un sanatorio, era stata dimessa perché incurabile. Era più grande di noi e aveva la tubercolosi. Volevamo informarci meglio su questa malattia, così, siccome ero io “l’infermiera”, promisi alle mie compagne di fare delle ricerche in un manuale medico.
Per accedere all’ultimo ripiano della libreria a muro del papà, mi arrampicai sullo sgabello, il più in alto possibile. Il cuore mi batteva così forte che ne percepivo le pulsazioni alle tempie. Con mano tremolante afferrai Il medico in famiglia, il grosso libro dalla copertina di cuoio rosso. Preferii leggerlo rimanendo appollaiata lassù, così, non appena avessi sentito la mamma depositare gli attrezzi da giardinaggio in cantina, avrei avuto il tempo di riporlo, scendere, e richiudere e sistemare lo sgabello al suo posto.
Una vocina mi suggerì: “Non hai chiesto il permesso!” Pensai: “Se glielo chiedessi, la mamma mi risponderebbe con un secco ‘no!’, ma, siccome sono ‘l’infermiera’, devo imparare a tutti i costi. Visto che i miei genitori mi hanno proibito di leggere perfino quel libro che chiamano ‘Bibbia’, non posso correre lo stesso rischio!” Era particolarmente elettrizzante prendere decisioni senza dover chiedere il consenso a qualcuno. Quelle letture clandestine mi eccitavano all’inverosimile.
Il dizionario medico divenne la mia lettura preferita. Mi sarebbe piaciuto ricopiarne le illustrazioni, ma il pericolo di farmi scoprire era troppo alto. Ero affascinata dai termini complicati e dalle descrizioni delle malattie, che spesso terminavano con: “… e ne consegue il decesso”.
“Niente può succedere se non è voluto da Dio”, ci ripeteva il prete. “È lui a decidere l’ora della nostra morte”. Stando alle mie letture ci mandava dei mali orribili e spaventosi. Non comprendendo tutto quello che leggevo, mi necessitavano ulteriori chiarimenti per poter rispettare la promessa fatta alle mie amiche. Decisi dunque di interpellare la mamma, alla quale domandai con disinvoltura: “Mamma, che cos’è la tubercolosi?”
“È una malattia. Ma perché una simile domanda?”
Dovevo prestare molta attenzione alla mia risposta. “Ne abbiamo parlato quando siamo passate davanti alla casa di Jacqueline. Secondo Blanche non può più andare a scuola”.
“Esatto. Ha proprio la tubercolosi e quando accudiva Frida neonata, la malattia era già in corso”.
“È stata lei a passarla a Frida?”
“Probabilmente sì. Si dice contagio. Sai, Simone, se ti proibisco di sederti sul marciapiede, non è solo perché i cani ci fanno i loro bisogni, ma anche perché a volte persone malate sputano per terra”.
“È vero. Ho letto che potrebbero sputare i polmoni”.
“Che cosa?”
“Ho detto che ho sempre paura che sputino i loro polmoni. Era questa la malattia di zio Louis? È morto di tubercolosi?”
“Sì”.
“Allora l’ha beccata anche zia Eugénie?”
“No, grazie a Dio!”
Feci tesoro di queste nuove indicazioni e, una volta a scuola, avvertii le mie compagne di non raccogliere mai niente per strada, perché rischiavano di imbattersi in pezzi di polmoni. Come “infermiera” era mio dovere infondere in loro il mio stesso timore della tubercolosi.
Arrivarono infine le vacanze estive e anche il papà ebbe le ferie, le prime da quando aveva iniziato a lavorare. “Sono obbligato, la fabbrica chiude per due settimane”. Il governo francese aveva infatti ceduto alle rivendicazioni degli scioperanti e aveva promulgato una legge che imponeva la chiusura delle fabbriche una volta l’anno, concedendo agli operai ferie retribuite. Speravo che quella pausa forzata contribuisse a migliorare l’umore di mio padre.
In effetti aveva trovato un nuovo argomento di conversazione.
“Emma, che ne dici di comprare delle biciclette?”
“Possiamo permettercelo?”
Mi tornò allora in mente la mia bambolina da cinque franchi.
“È vero che bisognerà prendere questi soldi dai nostri risparmi e non ne sono molto entusiasta, perché può sempre capitare un imprevisto. D’altra parte le biciclette sarebbero una specie di investimento che permetterebbe alla nostra famiglia di fare escursioni in montagna”.
Le due biciclette nuove fiammanti fecero colpo sul vicinato. Erano di un bel rosso scuro, avevano un profilo dorato ed erano dotate di tre marce. Ognuna era equipaggiata di un seggiolino per me, uno fissato sulla sbarra del papà, l’altro sul portapacchi della mamma. Sarei stata col papà per salire i pendii e con la mamma per discenderli. Organizzammo un’escursione verso i laghi di Longemer e Gérardmer, e venni a sapere che avremmo dovuto portare con noi mio cugino Maurice. Che noia!
Maurice, un giovanotto di quattordici anni, aveva occhi di ghiaccio e capelli biondi. Non smetteva mai di vantarsi. La mamma parlava di lui come di un “povero orfano”. Dopo la gita ai laghi, prima di rientrare a Bergenbach, l’avremmo riaccompagnato a casa sua. Non mi lasciarono scelta, dovetti adattarmi.
Trovai però una tattica per fargli abbassare la cresta. Lo imitavo in tutto senza mai lamentarmi, anche se ero costretta a correre o ad arrampicarmi; anzi, quando diceva di essere stanco, esclamavo: “Ah, sì? Io no!”
A casa dei nonni dissi a mia cugina Angèle: “Da questo momento sarò un maschio”. Questa novità la lasciò sbalordita! Per dimostrarglielo, mi arrampicai senza indugio sul ramo più alto del mirabolano e feci cadere dei frutti maturi e dorati. Purtroppo, nel tentativo di scendere, il vestito si impigliò e mi ritrovai sospesa a dondolare, fino a quando il tessuto si lacerò. Feci un volo spettacolare e atterrai rudemente sulla pancia. Angèle scappò via gridando. Joly, il giovane pastore tedesco della fattoria, si precipitò su di me a mordicchiare e fare a pezzi gli ultimi brandelli del mio vestito, evidentemente per giocare. Mi rialzai lentamente tutta indolenzita. Un ragazzo non piange, vero? Strinsi i denti e, piegata sotto il peso del paniere riempito di mirabelle, rientrai come se niente fosse.
Nella fattoria della nonna tutti gli animali dovevano avere un bell’aspetto, altrimenti venivano venduti. Joly era un cane magnifico, tutto muscoli. Era un peccato – pensavo – che servisse soltanto ad abbaiare, mentre il nonno e zio Germain si affannavano a trasportare giù dalla montagna una voluminosa massa di fieno sulla loro slitta, una specie di grande veicolo di legno costruito da Germain.
“Angèle, dovremmo abituare questo cane a trainare la slitta e poi potremmo anche caricarla”.
Acchiappammo Joly, portammo la slitta sulla collina dietro la fattoria e gliela agganciammo. All’inizio rifiutò di muoversi e, per farlo camminare, fummo costrette a tirarlo. Quando si rese conto che qualcosa lo seguiva, si mise a correre all’impazzata giù per il pendio. Angèle e io ridevamo a crepapelle, ma il nostro divertimento si trasformò in panico quando vedemmo Joly precipitarsi lungo la scala di pietra che si trovava fra il laboratorio e la fattoria. La slitta sbatté contro ognuno degli otto gradini con un fracasso spaventoso. Tutta la famiglia accorse, eccetto zio Germain che, naturalmente, non riuscì a sentire e continuò a segare la legna. Joly cercò in tutti i modi di liberarsi del suo fardello. Disperato, con gli occhi di un folle e la lingua penzolante, saltò nella fontana di granito; la slitta si sfasciò e l’acqua schizzò fuori della vasca. Come punizione per quella che definirono “una stupidata”, gli adulti ci mandarono a letto. Anche se geniale, la nostra trovata da bambini non venne affatto presa in considerazione.
♠♠♠
La mamma tolse dalla sua borsa un grosso libro con la copertina nera ed esclamò: “Guarda che cosa ho comprato, una Bibbia cattolica!”
“Che cos’è una Bibbia?”
“È il libro in cui Dio ha depositato la sua Parola e contiene saggi consigli per la nostra vita”. Cercai di leggerlo, ma i caratteri erano troppo piccoli e incespicavo sulle parole.
“Te la leggerò ogni mattina a colazione”. La mamma aveva finalmente deciso di non trattarmi più come una bambina!
“Siediti accanto a me”, mi disse ritornando al risguardo, dove erano in bella mostra le firme di vescovi e di cardinali. “Vedi? Questa Bibbia è stata stampata con l’autorizzazione della Chiesa e del Papa. Ogni parroco ne possiede una copia. Il papà non ci proibirà di consultare la Bibbia cattolica, non trovi?”
“Sicuramente no”.
“La metterò qui, vicino alla radio. Non la nasconderemo, vero?”
“No, così anche il papà potrà leggerla”.
Ma non lo fece.
Quando il papà lavorava con la squadra del mattino, la mamma me la leggeva mentre io assaporavo una fetta di pane con burro e marmellata, e sorseggiavo una cioccolata calda che riempiva l’appartamento di un gradevole profumo. A volte rileggeva un versetto o due. “Ricordati questo!”, aggiungeva. Oppure: “Hai compreso bene quest’altro?” Poi, per aiutarmi a memorizzare il tutto, ripeteva qualche parola del passo in questione. Nei giorni di lettura biblica avevo sempre qualcosa di speciale da raccontare alle mie compagne di classe.
Iniziai a sospettare che il papà fosse ammalato e anche contagioso, perché da qualche tempo cercava di evitarci e schivava i vicini. Tutto ciò mi teneva sulle spine. Giorno dopo giorno la mamma gli preparava i suoi piatti preferiti, ma puntualmente si ripeteva la stessa scena. Cupo, alzava la mano in segno di rifiuto e diceva con voce dura: “Mettimene di meno, non ho fame”.
Ero sconcertata! Il papà sembrava vivere di sigarette. Per di più dopo pranzo lasciava rapidamente la tavola per andare a fumare un sigaro e ascoltare le notizie alla radio. Zita lo guardava come per sollecitare una carezza, ma lui non si curava affatto dei suoi occhioni imploranti. Quando arrivava il momento di portarla fuori, però, l’accompagnava sempre lui per delle interminabili passeggiate.
Le gioiose conversazioni familiari erano finite. I miei genitori non avevano più niente da dirsi, neanche quando si trovavano da soli. Questo confermava le mie supposizioni: il papà doveva essere gravemente ammalato! Quando usciva sul balcone, restava dietro la tenda, così poteva salvarsi dagli interrogatori della signora Huber, la nostra vicina tanto curiosa. Avevo l’impressione che ora gli altri inquilini evitassero la nostra famiglia, come se fossimo tutti contagiosi.
A scuola la mia popolarità calò notevolmente e persi il mio carisma. Le mie amiche mi schivavano e non sembrarono più interessate alle mie informazioni. “Poco importa!”, mi dissi. La mamma mi ripeteva spesso: “Se vuoi diventare una vera signora non puoi conformarti agli altri”. Ecco un altro dei miei obiettivi: da grande, avrei anch’io calzato scarpe di coccodrillo, portato una collana a tre fili e indossato dei guanti.
La mamma voleva aiutarmi a raggiungere il mio obiettivo e per questo la trovavo meravigliosa. Un giorno andammo in un negozio di stoffe ad acquistare l’occorrente per un nuovo mantello da indossare la domenica. La commessa ci mostrò parecchi tessuti e puntualizzò: “Sono i più richiesti di quest’anno, se li contendono tutte ”.
La mamma si abbassò verso di me. “Scegli, Simone, però non sentirti obbligata a fare come le altre. Devi essere te stessa! Non c’è che una Simone Arnold e i tuoi gusti sono unici. Vuoi essere una signora? Ricordati che le signore dettano la moda, non la seguono. Hanno personalità”.
La commessa, una donna di una certa età, ci guardava stupita e con la bocca spalancata. “Speriamo che non vi entri una mosca!”, commentai fra me.
“Sei molto giovane per decidere da sola”, riuscì finalmente ad articolare. Come poteva darmi della bambina? Avevo sette anni.
“Devi solo tener conto della qualità e del prezzo”, aggiunse la mamma.
“Potete mostrarci questa, quella e l’altra laggiù, per piacere?”, dissi indicando alcune stoffe.
La mamma si informò sui vari prezzi. “Simone, l’ultima è troppo costosa. Non vorrai che tuo padre lavori una settimana intera solo per il tuo mantello, vero?” La fece rimettere sullo scaffale. “Puoi scegliere fra le altre due”. Era veramente avvincente! Mi sarei vestita a mio piacimento. Che soddisfazione potermi distinguere dalle altre!
“Non vi farete idoli”. “Essi hanno occhi, ma non possono vedere, hanno orecchie, ma non possono udire… Coloro che in essi confidano diverranno proprio come loro”, così recitava il passo della Bibbia che la mamma mi aveva appena letto. Ancora prima che lo ripetesse, abbandonai la tazza di cioccolata bevuta per metà, tolsi dalla mia collana e dal mio bracciale le medaglie della Vergine, corsi a gettarle nel gabinetto e tirai lo sciacquone. Poi mi precipitai in cameretta per smantellare il mio piccolo altare. La mamma rimase inchiodata sulla sedia, ammutolita per la profonda emozione. Appena tornai per terminare la colazione, lei mi disse: “Avremmo potuto regalare le medaglie d’oro ad Angèle”.
“Mamma, Dio proibisce di fare degli idoli. Anche Angèle commetterebbe un peccato se le portasse”.
Il giovedì non c’era lezione, perciò potevo attendere il papà al suo rientro dal lavoro. Per una ragione inspiegabile andò dritto verso la mia cameretta; lo vidi diventare improvvisamente pallido, come il giorno in cui era stato quasi folgorato da un fulmine alla fattoria dei nonni. Vederlo in quello stato, mi spaventò. Poi si diresse in silenzio verso la cucina, dove la mamma gli stava preparando il pranzo. Preferii non seguirlo perché l’espressione del suo viso lasciava presagire una tempesta.
“Dov’è l’altare di Simone?”, domandò con voce tagliente. La mamma, senza smettere di cucinare, gli rispose con calma:
“L’ha fatto a pezzi”.
“Gliel’hai detto tu?”
“Assolutamente no! Le ho solo letto certe leggi di Dio nella Bibbia”.
“Mi avevi detto che non le avresti mai insegnato le tue idee. Me lo avevi promesso!”
“Adolphe, si tratta di una Bibbia cattolica! E poi Simone ha agito senza neppure lasciarmi terminare la lettura. Non ti capisco. Non ti è mai piaciuto il suo altare con le immagini sacre e le candele. Allora dimmi, sì, dimmi perché adesso dai in escandescenza?” E, riprendendo il suo piatto, aggiunse: “Te lo riscaldo. Per favore, devi mangiare, fallo per noi!” Il papà borbottò fra i denti qualcosa che non capimmo, ma la bufera sembrava essersi momentaneamente calmata. Da parte mia continuavo a pormi domande, ma per il momento rimanevano senza risposta. Per quale ragione il papà si era irritato tanto? Forse perché le statue erano costate care e aveva dovuto lavorare a lungo per pagarle? La sua reazione mi aveva fatto molta paura!