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La pancia di Lacey brontolò ancora.
Seconda priorità, pensò, accarezzandosi lo stomaco.
Andò al piano di sotto, i capelli bagnati che le gocciolavano sulla schiena, ed entrò in cucina. Guardando dalla finestra, vide che solo due pecore della banda di quella mattina erano ora rimaste nel suo giardino. Controllando la credenza e il frigorifero, scoprì che entrambi erano vuoti. Era ancora troppo presto per andare in città, in pasticceria, e prendere le sue leccornie fresche di forno per la colazione. Avrebbe dovuto ammazzare un po’ il tempo.
“Ammazziamo il tempo!” esclamò Lacey con voce alta e piena di gioia.
Quand’era stata l’ultima volta che ne aveva avuto l’occasione? Quando si era mai anche solo permessa la libertà di sprecare del tempo? David era sempre stato così rigido con quel poco tempo libero che lei aveva. Ginnastica. Brunch. Commissioni di famiglia. Qualcosa da bere. Ogni momento “libero” era sempre programmato. Lacey ebbe un’improvvisa epifania: il semplice atto di programmare il tempo libero, ne negava la libertà! Permettendo a David di pianificare e dettare quello che facevano ogni volta, lei si era effettivamente lasciata rinchiudere in una camicia di forza di obblighi sociali. Quel momento di chiarezza la colpì con la potenza di una rivelazione buddista.
Il Dalai Lama sarebbe così fiero di me, pensò, battendo le mani compiaciuta.
In quel preciso istante le pecore in giardino belarono. Lacey decise che avrebbe usato la sua neo-acquisita libertà per trasformarsi in una detective amatoriale e scoprire da dove fosse saltato fuori quel gregge.
Aprì la porta finestra e uscì sul patio. La fresca umidità generata dall’oceano le bagnò il volto mentre lei percorreva il viottolo del giardino, diretta verso le due palle di pelo morbido che ancora stavano brucando la sua erba. Quando la sentirono arrivare, trotterellarono via goffamente, senza la minima grazia, e scomparvero attraverso un varco tra le siepi.
Lacey le seguì e guardò attraverso il buco, vedendo un altro giardino pieno di fiori variopinti al di là del groviglio di arbusti e cespugli. Quindi aveva dei vicini. A New York i suoi vicini erano stati distaccati, coppie di professionisti come lei e David, le cui vite consistevano nell’uscire di casa prima del sorgere del sole per farvi ritorno dopo il tramonto. Ma questi, da come appariva il loro giardino perfettamente curato, si godevano la bella vita. E avevano delle pecore! Non c’era un solo animale nel vecchio condominio in cui Lacey aveva abitato fino al giorno precedente. La gente impegnata negli affari non aveva tempo per gli animali domestici, né tantomeno l’inclinazione per avere a che fare con mute del pelo o odori da fattoria. Che delizia vivere ora a così stretto contatto con la natura! Addirittura l’odore degli escrementi delle pecore era in piacevole contrasto con l’appartamento iper-pulito di New York.
Mentre si rimetteva dritta in piedi, Lacey notò un’area dove l’erba era pestata e rada, ma un sentiero segnato dal passaggio ripetuto di tantissimi piedi. Conduceva dagli arbusti alla scogliera. Lì c’era un cancelletto, praticamente fagocitato dalle piante. Lacey vi si avvicinò e lo aprì.
Sul versante della scogliera era stata ricavata una serie di gradini che portavano giù fino alla spiaggia. Sembrava una cosa uscita da una fiaba, pensò Lacey, felicemente sorpresa mentre si apprestava a scendere con attenzione.
Ivan non le aveva neanche detto che c’era un passaggio diretto fino alla spiaggia. Se le fosse venuta una voglia matta di sentire la sabbia tra le dita dei piedi, poteva esaudire il desiderio nel giro di pochi minuti. E pensare che a New York era sempre stata così orgogliosa dei due minuti a piedi che la separavano dalla metropolitana.
Scese i disordinati gradini fino a che si trovò circa un metro sopra alla spiaggia. Fece un salto e la sabbia morbida permise alle sue ginocchia di assorbire perfettamente l’impatto nonostante le scarpe scadenti acquistate in aeroporto.
Lacey fece un profondo respiro, sentendosi totalmente libera da ogni pensiero. Questa parte della spiaggia era deserta. Intatta. Doveva essere troppo distante dai negozi in paese perché la gente vi si avventurasse. Era come se fosse una sua spiaggetta personale e privata.
Guardando in direzione del paese, vide il molo che sporgeva allungandosi nell’acqua dell’oceano. Subito venne colpita da un ricordo che la vedeva giocare al tirassegno, e la rumorosa sala giochi dove suo padre aveva permesso loro di spendere due sterline. Lacey ricordò che sul molo c’era anche un cinema. Era esaltata dai frammenti di memoria che le stavano tornando alla mente. Era una piccola sala, grande quanto una monovolume e praticamente non era quasi cambiato da quando l’avevano costruito, con le poltrone in elegante velluto rosso. Papà aveva portato lei e Naomi a guardare un oscuro cartone giapponese là dentro. Lacey si chiese quanti altri ricordi le sarebbero tornati alla mente durante la sua permanenza a Wilfordshire. Quanti altri vuoti nella memoria sarebbero stati riempiti da questo viaggio?
C’era bassa marea, quindi buona parte della struttura del molo era visibile. Da dove si trovava lei, si potevano vedere anche alcune persone che portavano a spasso il cane e un paio di altre che facevano jogging. Il paese stava iniziando a svegliarsi. Magari adesso avrebbe trovato una caffetteria aperta. Decise di imboccare la lunga via che costeggiava il mare per andare in paese e iniziò a percorrerla.
Man mano che si avvicinava al centro cittadino, la scogliera arretrava, e presto ci furono solo strade e stradine. Nel momento in cui mise piede sulla via pedonale, le venne in mente un altro improvviso ricordo: un mercato sotto un tendone che vendeva vestiti, gioielli e bastoncini di zucchero. C’erano sul pavimento una serie di numeri disegnati con la vernice che indicavano i punti in cui andavano sistemate. Lacey provò un’ondata di entusiasmo.
Allontanandosi dalla spiaggia, si diresse verso la strada principale, o High Street, come la chiamavano i Britannici. Notò il Coach House all’angolo, dove aveva incontrato Ivan la sera precedente, poi svoltò nella via decorata di festoni.
Era così diverso rispetto a stare a New York. Il passo era più lento. Non c’era il suono continuo dei claxon. Nessuno spingeva. E, con sua sorpresa, alcune caffetterie erano effettivamente aperte.
Entrò nella prima che trovò, dove sembrava non esserci coda in vista, e ordinò un caffè americano e una brioche. Il caffè era perfetto, forte e cremoso. La brioche riempiva la bocca di pasta friabile e delizia burrosa.
Con lo stomaco finalmente soddisfatto, Lacey decise che era giunta l’ora di andare a trovare degli abiti decenti. Aveva visto un bel negozietto alla moda all’altro capo della strada principale e aveva già iniziato a camminare in quella direzione quando un profumo di zuccherò le assalì le narici. Si voltò e vide un negozio di fudge artigianali che aveva appena aperto i battenti. Incapace di resistere, entrò.
“Vuole provare un assaggio gratuito?” chiese un uomo con un grembiule bianco a strisce rosa. Le indicò un vassoio argentato pieno di cubetti di diverse sfumature di marrone. “Abbiamo cioccolato nero e bianco, caramello, toffee, caffè, frutta mista e originale.”
Lacey sgranò gli occhi. “Posso provarli tutti?” chiese.
“Certamente!”
L’uomo tagliò dei cubetti per ogni gusto e glieli servì in modo che potesse provarli. Lacey si mise in bocca il primo e le sue papille gustative esplosero.
“Sorprendente,” disse con la bocca piena.
Passò al successivo. In qualche modo era migliore del primo.
Provò un pezzo dopo l’altro, e tutti le parvero man mano sempre più deliziosi.
Quando mise in bocca l’ultimo, quasi non si concesse il tempo di respirare ed esclamò subito: “Devo mandarne qualcuno a mio nipote. Resistono se li spedisco a New York?”
L’uomo sorrise e tirò fuori una scatola di cartone rivestito di carta stagnola. “Se usa la nostra speciale confezione per la consegna, sicuramente,” le disse ridendo. “È diventata una richiesta talmente comune, che le abbiamo fatte progettare appositamente. Abbastanza sottili da passare nella cassetta della posta, e leggere per mantenere basso il costo della spedizione. Può anche comprare i francobolli qui.”
“Che moderno!” disse Lacey. “Ha pensato a tutto.”
L’uomo riempì la scatola con un cubetto per ogni gusto, la chiuse per bene fissando il coperchio con del nastro adesivo e vi appiccicò sopra il giusto francobollo postale. Dopo aver pagato e ringraziato l’uomo, Lacey prese il suo pacchetto, scrisse il nome di Frankie e l’indirizzo e lo imbucò nella tradizionale cassetta delle lettere dall’altra parte della strada.
Quando il pacco fu sparito attraverso la fessura, Lacey si rese conto che si stava distraendo dal suo effettivo compito: trovare dei vestiti. Stava per ripartire alla ricerca di un negozio d’abbigliamento, quando la sua attenzione venne richiamata dalla vetrina del negozio accanto alla cassetta della posta. Mostrava una scena della spiaggia di Wilfordshire con il molo che si allungava nel mare, ma l’intera figura era stata realizzata con macarons color pastello.
Lacey si pentì subito della brioche e degli assaggi di fudge che aveva già mangiato, perché la vista di quella delizia le fece venire l’aquilina in bocca. Fece una foto per il gruppo delle Doyle Girls.
“Posso esserle di aiuto?” chiese una voce accanto a lei.
Lacey si mise sull’attenti. Sulla porta del negozio c’era il proprietario, un uomo di bell’aspetto sulla quarantina, con i capelli folti e scuri e una mandibola ben disegnata. Aveva gli occhi verdi e brillanti, con piccole rughe di espressione ai lati che facevano subito capire quanto fosse uno che si godeva la vita, il tutto confermato da una bella abbronzatura, segno di frequenti viaggi in paesi dai climi più caldi.
“Sto solo facendo un giro per vetrine,” disse Lacey, la voce che le usciva come se qualcuno le stesse strizzando le corde vocali. “Questa mi piace molto.”
L’uomo sorrise. “L’ho fatta io. Perché non entri e provi qualche dolcetto?”
“Mi piacerebbe, ma ho già mangiato,” spiegò Lacey. La brioche, il caffè e i fudge sembravano agitarsi nel suo stomaco, dandole quasi una sensazione di nausea. Lacey si rese conto all’improvviso di quello che stava succedendo: era quella sensazione di attrazione fisica, perduta da tempo, che le faceva sentire le farfalle che volavano nello stomaco. Le sue guance subito si imporporarono.
L’uomo ridacchiò. “Dall’accento mi pare di capire che sei americana. Quindi forse non sai che qui in Inghilterra abbiamo questa cosa che si chiama la pausa delle undici. Viene dopo la colazione e prima del pranzo.”
“Non ti credo,” rispose Lacey, facendo una piccola smorfia con le labbra. “La pausa delle undici?”
L’uomo si premette la mano sul petto. “Te lo giuro, non è un trucchetto di marketing! È l’ora perfetta per tè e dolcetto, o tè e tramezzino, o tè e biscotti.” Fece un gesto d’invito attraverso la porta aperta, indicando la vetrinetta interna, piena di dolciumi realizzati con creatività e dall’aspetto irresistibile. “Oppure tutte quante.”
“Basta accompagnarle con il tè?” disse Lacey con tono sarcastico.
“Esatto,” rispose lui, gli occhi verdi che si illuminavano in un guizzo di ironia. “Puoi anche provare prima di comprare.”
Lacey non poteva più resistere. Che fosse una sorta di dipendenza causatale dagli zuccheri che aveva in corpo o, più probabilmente, l’attrazione magnetica di questo meraviglioso esemplare di uomo, alla fine entrò.
Guardò deliziata, l’acquolina in bocca, mentre l’uomo prendeva dalla vetrinetta un panetto dolce pieno di burro, marmellata e crema, e lo tagliava con precisione in quattro parti. Eseguì l’intera operazione in maniera piuttosto teatrale, come se fosse una routine di danza. Posizionò i pezzetti su un piattino in ceramica e lo porse a Lacey, sostenendolo da sotto con le punte delle dita, completando la sua accurata e disinvolta performance con un allegro: “Et voilà.”
Lacey sentì il calore irrorarle le guance. L’esecuzione era stata piuttosto accattivante e provocatoria. O era solo una sua interessata impressione?
Allungò la mano e prese uno dei pezzetti dal piattino. L’uomo fece lo stesso, invitandola subito dopo a una sorta di brindisi con i pezzi di dolce.
“Alla salute,” disse.
“Alla salute,” rispose lei.
Si infilò il dolcetto in bocca. Fu un’esperienza di gusto. Crema densa e dolce. Marmellata di fragole così fresca da solleticarle le papille gustative. E l’impasto! Soffice e burroso, a metà tra dolce e saporito, e così gustoso!
I sapori improvvisamente le accesero un altro ricordo in mente. Lei e suo padre, Naomi e la mamma, tutti seduti attorno a un tavolino in metallo bianco in un baretto luminoso, intenti a rimpinzarsi di pastine ripiene di crema e marmellata. Subito fu pervasa da una sferzata di confortante nostalgia.
“Sono già stata qui!” esclamò prima di aver finito di masticare.
“Eh?” chiese l’uomo divertito.
Lacey annuì entusiasta. “Sono venuta a Wilfordshire da bambina. Questo è uno scone, vero?”
Le sopracciglia dell’uomo si inarcarono in sincera curiosità. “Sì, mio padre gestiva la pasticceria prima di me. Uso ancora la sua ricetta speciale per fare gli scone.”
Lacey guardò verso la finestra. Anche se ora lì c’era un seggiolino per bambini in legno con un cuscino blu sopra e un tavolo rustico abbinato, poteva ancora figurarsi con precisione come stavano le cose trent’anni prima. Improvvisamente si sentì trasportata in quel momento. Poteva quasi ricordare il venticello dietro al collo, e la sensazione appiccicosa della marmellata sulle dita, il sudore nei solchi dietro alle ginocchia… poteva addirittura ricordare il suono delle risate, delle risate dei suoi genitori, e i sorrisi spensierati sui loro volti. Erano stati così felici, o no? Era certa che dovevano essere state espressioni sincere. Allora perché tutto era andato a rotoli?
“Stai bene?” le chiese l’uomo.
Lacey ritornò al presente. “Sì. Scusa. Ero persa nei ricordi. Il sapore di questo dolcetto mi ha riportato a trent’anni fa.”
“Beh, ora dovrai fare la pausa delle undici,” disse l’uomo ridacchiando. “Posso tentarti?”
I brividi che si sentì scorrere sul corpo le diedero la distinta impressione che avrebbe potuto accettare qualsiasi cosa quest’uomo le avesse proposto con il suo accento gentile e quegli occhi cortesi e penetranti. Quindi annuì, trovando che la gola era diventata improvvisamente troppo secca per poter formulare effettivamente delle parole.
Lui batté le mani tra loro. “Eccellente! Lascia che ti faccia provare l’esperienza completa!” Fece per voltarsi e poi si fermò guardandosi alle spalle. “Comunque mi chiamo Tom.”
“Lacey,” rispose lei, sentendosi frastornata come una ragazzina con una cotta.
Mentre Tom era indaffarato in cucina, Lacey si sedette al tavolino vicino alla finestra. Cercò di evocare altri ricordi della volta che era stata lì prima, ma purtroppo non c’era altro da ricordare. Solo il sapore degli scone e la risata della sua famiglia.
Un momento dopo il bel Tom apparve con un vassoio da dolci pieno di tramezzini, scone e una selezione di dolcetti multicolore. Posò poi una teiera sul tavolo accanto.
“Non posso mangiare tutta quella roba!” gridò Lacey.
“È per due,” rispose Tom. “Offre la casa. Non è educato far pagare una donna al primo appuntamento.”
Prese poi posto proprio accanto a lei.
La sua schiettezza la colse di sorpresa. Sentì il battito cardiaco che iniziava ad accelerare. Era da così tanto tempo che non parlava con un altro uomo in modo così civettuolo. Si sentì ancora una volta come una ragazzina intontita. Impacciata. Ma magari era solo una cosa britannica. Magari tutti gli uomini inglesi si comportavano così.
“Primo appuntamento?” chiese.
Prima che Tom potesse rispondere, il campanello della porta tintinnò e un gruppo di circa dieci turisti giapponesi si riversò nel negozio. Tom scattò in piedi.
“Oh-oh, clienti.” Guardò Lacey. “Prenderemo un biglietto sostitutivo per quell’appuntamento, ok?”
Con la sua solita sicurezza disinvolta, Tom andò verso il bancone, lasciando Lacey con le parole incastrate in gola.
Con il negozio ora pieno zeppo di turisti, l’ambiente era diventato chiassoso e trafficato. Lacey tentò di tenere d’occhio Tom mentre si gustava la sua pausa delle undici, ma l’uomo era occupato con le ordinazioni per il gruppetto di clienti.
Quando ebbe finito, Lacey tentò di fargli un gesto di saluto, ma lui si era ritirato in cucina e non la vide.
Sentendosi un po’ delusa, e con la pancia estremamente piena, uscì allora dalla pasticceria e tornò in strada.
Poi si fermò, incuriosita da un negozio vuoto di fronte alla pasticceria, dall’altra parte della strada. Le suscitò una tale emozione dentro, che quasi le levò il fiato. Il negozio era stato qualcosa un tempo, qualcosa che i più profondi recessi della sua memoria infantile volevano assolutamente riportare alla mente. Qualcosa che le imponeva di guardare più da vicino.
CAPITOLO QUATTRO
Lacey sbirciò attraverso la vetrina del negozio vuoto, scandagliando la propria mente alla ricerca dei ricordi che le si erano risvegliati dentro, ma non vi trovò niente di concreto. Era più una sensazione che era stata risvegliata, qualcosa di più profondo di un sentimento di nostalgia, più vicino all’innamoramento.
Guardando dalla vetrina, Lacey poteva vedere che l’interno del locale era vuoto e privo di illuminazione. Il pavimento era ricoperto da tavole di legno chiaro. C’erano un sacco di scaffali nelle varie nicchie e un grosso tavolo di legno addossato a una parete. Il lampadario che pendeva dal soffitto era antico e in ottone. Costoso, pensò Lacey. Di sicuro devono averlo lasciato lì per sbaglio.
La porta del negozio, notò poi, non era chiusa a chiave. Lacey non poté trattenersi. Entrò.
Subito le arrivò al naso un odore metallico mescolato a polvere e muffa, e in pronta risposta Lacey sentì un’altra scossa di nostalgia. L’odore era lo stesso che aleggiava nel negozio di antiquariato di suo padre.
Lei aveva adorato quel posto. Da bambina aveva passato parecchio tempo in quel labirinto di tesori, giocando con le spaventose bambole di ceramica, leggendo ogni genere di fumetto da collezione per ragazzi, da Bunty a The Beano, a originali eccezionalmente rari e di valore dell’Orso Rupert. Ma la cosa che le piaceva di più fare era guardare i ciondoli e immaginare le vite e le personalità della gente a cui un tempo erano appartenuti. C’era una scorta infinita di piccole cianfrusaglie, oggettini e aggeggi vari, e ogni articolo aveva lo stesso strano odore di metallo-polvere-muffa che stava annusando adesso.
Proprio come la vista del Crag Cottage accanto all’oceano le aveva risvegliato quel vecchio sogno d’infanzia di vivere vicino al mare, anche adesso ritrovò il sopito desiderio che aveva nutrito da bambina di gestire un suo negozio.
Anche la disposizione dello spazio le ricordava il vecchio negozio di suo padre. Mentre si guardava attorno, immagini che provenivano dai più profondi recessi della sua memoria si sovrapposero a ciò che vedeva con i propri occhi, come un foglio di carta da lucido posato sopra a un disegno. Improvvisamente poté vedere gli scaffali pieni di bellissimi oggetti antichi – per lo più articoli da cucina in stile vittoriano, l’interesse principale di suo padre – e lì, sul bancone, l’ingombrante registro di cassa in ottone con i tasti rigidi che suo padre aveva insistito di voler usare, dato che “mantiene alta la concentrazione” e “affina le abilità nei calcoli a mente.” Sorrise sognante tra sé e sé mentre le parole di suo padre le risuonavano nelle orecchie e le immagini e i ricordi si dispiegavano davanti ai suoi occhi.
Lacey era talmente persa nel suo sogno a occhi aperti, che non sentì i passi che avanzavano verso di lei dalla stanza sul retro. E non notò neppure l’uomo a cui quei passi appartenevano e che appariva ora alla porta – il volto accigliato – avanzando di gran marcia verso di lei. Fu solo quando sentì un colpetto sulla spalla che si rese conto di non essere sola.
Il cuore le balzò in gola. Lanciò un gridolino di sorpresa e quasi schizzò fuori dalla propria pelle, ruotando su se stessa e fissando in faccia lo sconosciuto. Anziano, i capelli radi e bianchi, borse gonfie e violacee sotto agli occhi azzurri.
“Posso aiutarla?” le chiese l’uomo con tono scontroso e poco amichevole.
Lacey si portò una mano al petto. Le ci volle qualche secondo per rendersi conto che il fantasma di suo padre non si era appena materializzato davanti a lei picchiettandole la spalla, e che lei non era più effettivamente la bambina che se ne stava nel suo vecchio negozio, ma una donna adulta in vacanza in Inghilterra. Una donna adulta che attualmente era entrata abusivamente in una proprietà privata.
“Oh, mio Dio, mi spiace tantissimo!” esclamò frettolosamente. “Non mi ero resa conto che qui ci fosse qualcuno. La porta era aperta.”
L’uomo le lanciò un’occhiataccia pregna di scetticismo. “Non ha potuto notare che il negozio è vuoto? Qua dentro non c’è niente da comprare.”
“Lo so,” continuò Lacey con esagerata animosità, disperatamente desiderosa di scagionarsi da ogni colpa e cancellare quel cipiglio di sospetto dal volto dell’uomo. “Ma non ho potuto trattenermi. Questo negozio mi ricordava un sacco quello di mio padre.” Con sua enorme sorpresa, si trovò improvvisamente con gli occhi traboccanti di lacrime. “Non lo vedo da quando ero bambina.”
L’atteggiamento dell’uomo mutò in un istante. Passò dal cipiglio e dalla difensiva a modi più gentili e morbidi.
“Su, su, su,” disse con cortesia, scuotendo la testa mentre Lacey si asciugava velocemente una lacrima. “Va tutto bene, mia cara. Tuo padre aveva un negozio come questo?”
Lacey si sentì improvvisamente imbarazzata per aver liberato le proprie emozioni di fronte a quest’uomo, per non parlare del senso di colpa vedendo che invece di chiamare la polizia per farla cacciare dalla sua proprietà privata, ora stava invece reagendo come un abile terapeuta, con una sorta di compassione priva di giudizio, incoraggiamento e interesse. Ma Lacey non poté trattenersi. Si aprì totalmente e riversò tutti i propri sentimenti.
“Vendeva articoli d’antiquariato,” spiegò, il sorriso che nuovamente le incurvava le labbra al pensiero di quei ricordi, anche se le lacrime le scendevano dagli angoli degli occhi. “L’odore qua dentro mi ha fatto provare una tale nostalgia, e tutto mi è tornato in mente. Il suo negozio aveva addirittura la stessa disposizione.” Indicò la stanza sul retro da cui l’uomo aveva fatto la sua comparsa. “Quella stanza veniva usata come magazzino, ma lui aveva sempre voluto trasformarla in una sala d’aste. Era molto lunga e si affacciava su un giardino.”
L’uomo si mise a ridacchiare. “Vieni a vedere. Anche questa stanza è lunga e dà su un giardino.”
Toccata dalla sua compassione, Lacey seguì l’uomo attraverso la porta entrando nella stanza. Era lunga e stretta, simile alla carrozza di un treno, e quasi identica alla sala dove suo padre aveva sognato di organizzare delle aste. Attraversando la stanza per lungo, Lacey arrivò a un giardino da fiaba. Era anch’esso stretto e lungo, e si dispiegava per circa venti metri. C’erano piante variopinte ovunque, e alberi piantati in posizioni strategiche, con grovigli di vegetazione che fornivano la giusta quantità di ombra. Una piccola siepe che arrivava all’altezza del ginocchio era tutto ciò che lo separava dal giardino del negozio adiacente, che diversamente dallo spazio immacolato nel quale ora si trovava, sembrava essere utilizzato solo come magazzino, con diversi orribili casotti di plastica grigia e una fila di bidoni dell’immondizia posizionati nel mezzo.
Lacey riportò la propria attenzione al bel giardino dell’antiquario.
“È incredibile!” disse sorpresa.
“Sì, è un posto bellissimo,” rispose l’uomo raddrizzando il vaso rovesciato di una pianta. “La gente che gestiva questo posto prima lo usava come negozio di articoli per casa e giardino.”
Lacey notò subito l’aria malinconica nella sua voce. Si rese allora conto che la grande serra di vetro che stava davanti a lei aveva le porte spalancate, e all’interno si vedevano vasi di piante sparpagliati qua e là in terra, i gambi spezzati, il terriccio riversato sul pavimento. Subito si sentì incuriosita. La vista di quelle piante abbandonate in un giardino così ben tenuto le parve strana. La sua mente passò immediatamente dai pensieri di suo padre al momento presente.






