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L'unica cosa reale nell'esercizio erano le armi che utilizzavano, motivo per cui sia Zero che Reidigger indossavano giubbotti antiproiettile e la struttura di addestramento era aperta solo agli agenti delle Operazioni Speciali, di cui Zero si era ritrovato a far parte ancora una volta.
Dopo il fiasco in Belgio, in cui i due avevano affrontato il presidente russo Aleksandr Kozlovsky e scoperto il patto segreto che aveva siglato con il presidente degli Stati Uniti Harris, Zero e Reidigger si erano trovati in una situazione spinosa. Erano diventati fuggitivi internazionali, ricercati in quattro paesi per aver infranto più di una dozzina di leggi. Ma avevano avuto ragione riguardo alla cospirazione, e non sembrava giusto che passassero il resto della loro vita in prigione.
Così Maria fece tutto ciò che poté per i suoi amici ed ex compagni di squadra. Fu a dir poco un miracolo, ma in qualche modo era riuscita a far passare tutte le loro azioni come un'operazione top-secret sotto la sua supervisione.
Il compromesso, ovviamente, fu che avrebbero dovuto tornare a lavorare per la CIA.
Sebbene Zero non lo ammettesse ad alta voce, per lui era come tornare a casa. Aveva lavorato duramente il mese scorso, era tornato in palestra, si era esercitato ogni giorno nel tiro a segno, nel pugilato e nel combattimento a corpo libero con avversari che avevano quasi la metà dei suoi anni. Aveva nuovamente perso tutto il peso che aveva guadagnato durante il suo anno e mezzo di fermo. Stava migliorando nella mira con la mano destra infortunata. Maria aveva ragione; sembrava quasi lo Zero di una volta.
Alan Reidigger, invece, non era così entusiasta. Aveva trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita facendo credere all'agenzia di essere morto, vivendo sotto lo pseudonimo di un meccanico di nome Mitch. Tornare alla CIA era l'ultima cosa che desiderava, ma per evitare di finire in una buca a H-6, aveva accettato con riluttanza le condizioni di Maria, ma aveva chiesto di essere considerato una risorsa piuttosto che un agente sul campo. Il coinvolgimento di Alan sarebbe avvenuto solo in caso di necessità; avrebbe fornito un supporto quando possibile e avrebbe aiutato a formare gli agenti più giovani.
Ma ciò significava che entrambi avrebbero dovuto ritornare in forma per il combattimento.
Reidigger cercò di togliere la vernice verde dai suoi pantaloni, ma non fece altro che spargerla ulteriormente. “Lascia che mi ripulisca, poi ricominciamo”, disse a Maria.
Lei scosse la testa. “Non ho intenzione di passare la mia giornata chiusa in questo posto a guardarti mentre ti fai colpire. Riprenderemo dopo le vacanze”.
Alan borbottò qualcosa, ma annuì in ogni caso. Ai suoi tempi era stato un eccellente agente, e anche adesso si era ancora dimostrato abile sul campo. Era veloce nonostante i chili in eccesso. Ma era sempre stato una specie di magnete per i proiettili. Zero non riusciva a ricordare quante volte Reidigger fosse stato colpito nella sua carriera, ma era certamente un numero a due cifre, soprattutto da quando era stato colpito sulla spalla durante le loro avventure in Belgio.
Un giovane tecnico avanzò portando un carrello di attrezzi, mentre una squadra di altre tre persone riorganizzava il corso di addestramento. Zero ripose la Ruger nel carrello. Quindi strappò le cinghie di velcro del giubbotto antiproiettile e se lo tolse, sentendosi improvvisamente più leggero di parecchi chili.
“Quindi, per caso ci hai ripensato?” chiese ad Alan. “In merito alla festa del Ringraziamento. Alle ragazze farebbe piacere vederti”.
“Anche a me piacerebbe rivederle”, rispose, “ma declino l'invito. Le ragazze potranno passare un po' di tempo con te”.
Alan non ci aveva pensato, non ne aveva avuto bisogno. La relazione di Zero con Maya e Sara era stata molto tesa nel corso dell'ultimo anno e mezzo. Ma ora Sara era stata con lui per diverse settimane, da quando l'aveva trovata sulla spiaggia in Florida. Lui e Maya avevano parlato sempre più spesso al telefono: stava per precipitarsi a casa quando aveva sentito cos’era successo a sua sorella minore, ma Zero l'aveva calmata e l'aveva convinta a rimanere a scuola fino alle vacanze. Quella settimana sarebbe stata la prima volta dopo tanto tempo in cui tutti e tre sarebbero stati sotto lo stesso tetto. E Alan aveva ragione; c'era ancora molto lavoro da fare per riparare il danno che li aveva separati per così tanto tempo.
“Inoltre”, disse Alan con un sorriso, “abbiamo tutti le nostre tradizioni. Io andrò a mangiare un intero pollo arrosto e ricostruirò il motore di una Camaro del '72”. Diede un'occhiata a Maria. “Che mi dici di te? Passerai un po' di tempo con il tuo vecchio papà?”
Il padre di Maria, David Barren, era il direttore dei servizi segreti nazionali, essenzialmente l'unico uomo, ad eccezione del presidente, a cui il direttore della CIA Shaw doveva rispondere.
Maria scosse la testa. “Mio padre sarà in Svizzera, in realtà. Fa parte di un gruppo di diplomatici portavoce del presidente”.
Alan si accigliò. “Quindi sarai da sola al Ringraziamento?”
Maria si strinse nelle spalle. “Non è un male. Sono molto indietro con le scartoffie da quando passo tutto questo tempo con voi due idioti. Mi metterò un paio di pantaloni della tuta, mi farò un po' di tè e mi chiuderò…”
“No”, la interruppe Zero con fermezza. “Non se ne parla proprio. Vieni a cena con me e le ragazze”. Lo disse senza pensarci fino in fondo, ma non se ne pentì. Piuttosto, sentiva qualche senso di colpa, poiché l'unica ragione per cui era sola il giorno del Ringraziamento era a causa sua.
Maria sorrise riconoscente, ma i suoi occhi erano titubanti. “Non credo che sia una buona idea”.
Aveva ragione; la loro relazione era finita poco più di un mese prima. Per più di un anno avevano vissuto insieme come… beh, non sapeva come chiamare la loro relazione. Una frequentazione? Non ricordava di essersi mai riferito a lei come la sua ragazza. Sembrava troppo strano. Ma in fondo non aveva importanza, perché Maria aveva ammesso che voleva una famiglia.
Se Zero avesse voluto ricominciare, non avrebbe voluto farlo con nessun’altra se non con Maria. Ma dopo averci pensato per un po', si era reso conto che non era quello che voleva. Aveva del lavoro da fare su sé stesso, doveva riprendere i rapporti con le sue figlie ed esorcizzare i fantasmi del suo passato. E poi quell'interprete, Karina, era entrata nella sua vita, una storia d'amore troppo breve, vertiginosa, pericolosa, meravigliosa e tragica. Il suo cuore era ancora pieno di dolore per la sua morte.
Tuttavia, lui e Maria avevano una relazione storica, non solo romantica ma anche professionale e platonica. Avevano accettato di rimanere amici; nessuno dei due avrebbe mai voluto altrimenti. Eppure, ora era di nuovo un agente, mentre Maria era stata promossa vicedirettore delle operazioni speciali, il che significava che era il suo capo.
Era, per non dire altro, complicato.
Zero scosse la testa. Non doveva essere complicato. Due persone potevano essere amiche, indipendentemente dalla loro storia passata o dal loro rapporto di lavoro.
“È un'ottima idea”, le disse. “Non puoi dirmi di no. Vieni a cena da noi”.
“Beh…” Lo sguardo di Maria passò da Zero a Reidigger e poi di nuovo a Zero. “Va bene allora”, cedette. “Grazie per l'invito. Ora devo proprio andare a lavorare a quei documenti”.
“Ti scrivo”, promise Zero mentre lei lasciava il magazzino, con i tacchi che risuonavano sul pavimento di cemento.
Alan si tolse il giubbotto con un lungo grugnito, quindi rimise il cappello da furgoneista macchiato di sudore sui capelli arruffati prima di chiedere con noncuranza: “È un piano?”
“Un piano?” Zero rise, incredulo. “Per cosa, per far tornare Maria? Sai che non ci penso”.
“No. Intendo un piano per avere Maria come cuscinetto tra te e loro”. Dopo aver trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita sotto mentite spoglie, Alan aveva sviluppato un brutale candore che talvolta rasentava l'offesa.
“Certo che no”, disse Zero con fermezza. “Sai che non voglio altro che le cose ritornino come prima. Maria è un'amica. Non un cuscinetto”.
“Sicuro”, disse Alan, anche se sembrava dubbioso. “Forse 'cuscinetto' non era il termine giusto. Forse più un…” Abbassò lo sguardo sul giubbotto antiproiettile che giaceva sul carrello d'acciaio davanti a loro e lo indicò. “Beh, non riesco a pensare a una metafora più adatta”.
“Ti sbagli”, insistette Zero, cercando di mantenere la calma. Non era arrabbiato per il candore di Alan, ma era irritato dalla sua ipotesi. “Maria non merita di essere sola al Ringraziamento, e il rapporto con le ragazze migliora giorno dopo giorno. Va tutto alla grande”.
Alan alzò entrambe le mani in segno di resa. “Va bene, ti credo. Sto solo cercando di capirti, tutto qui”.
“Si. Lo so”. Zero guardò l'orologio. “Devo scappare. Maya arriva oggi. Andiamo in palestra venerdì?”
“Certo. Dì alle ragazze che le saluto”.
“Ma certo. Goditi il tuo pollo e i tuoi motori”. Zero lo salutò e si diresse verso la porta, ma ora la sua testa era piena di dubbi. Alan aveva ragione? Aveva invitato Maria perché aveva paura di stare da solo con le ragazze? E se ritrovarsi tutti insieme avesse ricordato loro perché se ne erano andate? O peggio, se avessero pensato la stessa cosa di Alan, che Maria era lì come una sorta di barriera protettiva tra lui e loro? E se avessero pensato che non stesse provando con tutte le sue forze a riconquistare la loro fiducia?
Va tutto alla grande.
Rendersene conto non lo tranquillizzava, ma la sua capacità di mentire in modo convincente era più acuta che mai.
CAPITOLO DUE
Maya salì le scale fino a raggiungere l'appartamento al secondo piano in cui suo padre viveva in affitto. Si trovava in un edificio di recente costruzione fuori dal centro di Bethesda, in un quartiere residenziale costituito esclusivamente da appartamenti, villette a schiera e centri commerciali. Il tipo di posto in cui mai si sarebbe aspettata che suo padre avrebbe vissuto, ma immaginò che avesse avuto fretta di trovare qualcosa di disponibile quando aveva interrotto la relazione con Maria.
Probabilmente aveva voluto trasferirsi prima di cambiare idea, pensò.
Per un attimo rimpianse la loro casa ad Alessandria, la casa che lei, Sara e suo padre avevano condiviso prima che si scatenasse l'inferno nella loro famiglia. Rimpianse i tempi in cui credevano fosse un professore associato di storia, prima di scoprire che in realtà era un agente della CIA. Prima che venissero rapite da un assassino psicopatico che le aveva vendute a dei trafficanti di esseri umani. Rimpianse i tempi in cui credevano che la madre fosse morta per un infarto improvviso mentre raggiungeva la sua auto dopo un giorno di lavoro, prima di scoprire che era stata assassinata per mano di un uomo che aveva salvato loro la vita in più di un'occasione.
Maya scosse la testa e si scostò la frangia dalla fronte come se stesse cercando di allontanare i pensieri. Era tempo di ricominciare da capo. O almeno di provarci per davvero.
Trovò la porta dell'appartamento di suo padre, ma si rese conto che non aveva una chiave e che probabilmente avrebbe dovuto chiamare prima per assicurarsi che fosse a casa. Ciò nonostante bussò, il catenaccio si fece da parte e la porta si aprì, e Maya si ritrovò a fissare sbalordita per diversi secondi quella che per poco non le sembrò un'estranea.
Non vedeva Sara da più di quanto desiderasse ammettere, ed era evidente dal viso di sua sorella. Sara stava rapidamente diventando una giovane donna, i suoi lineamenti si stavano definendo, o meglio, si stavano avvicinando sempre di più ai lineamenti di Katherine Lawson, loro madre.
Sarà più difficile di quanto pensassi. Mentre Maya assomigliava molto di più a loro padre, Sara da sempre ricordava la mamma in tutto, non solo nell'aspetto, ma anche nella personalità e negli interessi. La carnagione di sua sorella era più pallida di quanto Maya ricordasse, forse per effetto della disintossicazione, pensò. I suoi occhi sembravano in qualche modo più opachi e aveva evidenti occhiaie scure che Sara aveva tentato di nascondere con il trucco. Si era tinta i capelli di rosso, almeno due mesi prima, e dalla ricrescita iniziava a far capolino il suo biondo naturale. Li aveva anche tagliati di recente all'altezza del mento, e quel taglio le incorniciava il viso in modo grazioso ma la faceva sembrare più grande di un paio d'anni. In effetti, lei e Maya sembravano avere la stessa età ora.
“Ehi”, disse Sara semplicemente.
“Ciao”. Maya si riprese dalla sorpresa nel vedere sua sorella così diversa e sorrise. Lasciò cadere il borsone verde e fece un passo in avanti per abbracciarla; Sara la abbracciò a sua volta con gratitudine, quasi come se stesse aspettando di vedere come sarebbe stata accolta da sua sorella. “Mi sei mancata. Volevo tornare a casa subito quando papà mi ha raccontato quello che è successo…”
“Sono contenta che tu non l'abbia fatto”, disse candidamente Sara. “Mi sarei sentita orribile se avessi lasciato la scuola per me. Inoltre, non volevo che mi vedessi… così”.
Sara scivolò fuori dalle braccia di sua sorella e afferrò il borsone prima che Maya potesse protestare. “Entra”, le disse con un cenno. “Benvenuta a casa”.
Benvenuta a casa. Maya la seguì nell’appartamento. Era un posto abbastanza carino, moderno, con molta luce naturale ma piuttosto austero. Se non fosse stato per alcuni piatti nel lavandino e il ronzio della televisione nel soggiorno a basso volume, Maya non avrebbe creduto che qualcuno vivesse in quella casa. Non c'erano quadri alle pareti, nessun tipo di decorazione che desse personalità alla casa.
Sembrava una tela bianca. Tra sé e sé, riconobbe che quello era lo scenario più appropriato per la loro situazione.
“È tutto qui”, disse Sara, come se stesse leggendo la mente di Maya. “Almeno per ora. Ci sono solo due camere da letto, quindi dovremo condividere la stanza…”
“Posso dormire sul divano”, propose Maya.
Sara sorrise appena. “Mi fa piacere condividere la stanza. Un po' come quando eravamo piccole. Sarebbe… bello. Averti vicina”. Si schiarì la voce. Nonostante la frequenza con cui avevano parlato al telefono, era dolorosamente evidente quanto fosse strano ritrovarsi nella stessa camera.
“Dov'è papà?” Chiese Maya all'improvviso, cercando di allentare la tensione.
“Dovrebbe tornare a casa a momenti. Ha dovuto fermarsi dopo il lavoro a prendere alcune cose per domani”.
Dopo il lavoro. Sara lo disse con una tale noncuranza che sembrava che stesse tornando da un ufficio e non dal quartier generale della CIA a Langley.
Sara si appollaiò su uno sgabello vicino al bancone che separava la cucina dalla piccola sala da pranzo. “Come va la scuola?”
Maya si appoggiò al tavolo con entrambi i gomiti. “La scuola è…” Esitò. Sebbene avesse solo diciotto anni, era al suo secondo anno a West Point a New York. Aveva sostenuto in anticipo l'esame per il diploma di liceo ed era stata accettata dall'accademia militare grazie a una lettera di raccomandazione dell'ex presidente Eli Pierson, il cui tentativo di assassinio era stato contrastato proprio dall'agente Zero. Ora era la migliore della sua classe, forse tra i migliori dell'intera accademia. Ma un recente litigio con il suo ex fidanzato Greg Calloway si era evoluto in diversi episodi di bullismo. Maya si era rifiutata di arrendersi, ma doveva ammettere che quegli episodi le avevano reso la vita piuttosto difficile. Greg aveva molti amici, tutti ragazzi più grandi dell'Accademia che Maya aveva già dovuto affrontare più di una volta.
“La scuola è fantastica”, disse infine, forzando un sorriso. Sara aveva già molti problemi, non voleva darle altri pensieri. “Ma un po' noiosa. Dimmi piuttosto come stai tu”.
Sara quasi sbuffò, e poi indicò l'appartamento. “Lo vedi. Sono qui tutto il giorno, tutti i giorni. Guardo la TV. Non vado da nessuna parte. Non ho soldi. Papà mi ha procurato un telefono al lavoro in modo che possa tenere d'occhio le mie chiamate e i miei messaggi”. Poi alzò le spalle, e aggiunse “È come una di quelle prigioni per colletti bianchi in cui mandano politici e celebrità”.
Maya sorrise tristemente alla battuta, e poi con cautela chiese: “Ma tu sei…pulita?”
Sara annuì. “Per quanto possibile”.
Maya si accigliò. Sapeva molto di molte cose, ma non conosceva nulla in merito alle droghe. “Che significa?”
Sara fissò il bancone di granito, tracciando un piccolo cerchio sulla superficie liscia con un dito. “Significa che è difficile”, ammise lei piano. “Pensavo che sarebbe stato più facile dopo i primi giorni, dopo che tutto quello schifo fosse uscito dal mio corpo. Ma non lo è stato. È come… è come se il mio cervello si ricordasse di quella sensazione e la desiderasse ancora. La noia non mi aiuta. Papà non vuole che io abbia ancora un lavoro, perché non vuole che io abbia altri soldi a disposizione finché non starò meglio. Poi sorrise, e aggiunse: “Vuole che studi per prendere il diploma”.
E ha ragione, stava per dire Maya, ma si trattenne. Sara aveva abbandonato la scuola superiore dopo aver raggiunto l’età dell’obbligo, ma l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era un rimprovero, specialmente in quel momento in cui si stava aprendo con lei.
Ma una cosa era chiara: il problema di Sara era peggiore di quanto Maya pensasse. Pensava che sua sorella minore avesse solamente provato qualche droga e che l'overdose fosse stata un incidente. Tuttavia, era proprio il contrario. Sara era dipendente. E non c'era niente che Maya potesse fare per aiutarla. Non sapeva nulla della dipendenza.
O forse sì?
Improvvisamente ricordò una notte, circa due settimane prima, quando aveva svegliato il suo compagno di dormitorio ritornando dalla palestra all'una del mattino. Il cadetto, irritato e mezzo addormentato aveva borbottato qualcosa riguardo al fatto che fosse “drogata di allenamenti”. E poi Maya era rimasta sveglia per un'altra ora a studiare, per poi svegliarsi il giorno dopo alle sei per andare a correre.
Più ci pensava, più si rendeva conto di sapere tutto sulla dipendenza. Non era dipendente dal dimostrare di essere la migliore? Non era sempre impegnata a inseguire il successo?
E suo padre, anche dopo tutto il tumulto degli ultimi due anni, era comunque tornato al lavoro. Sara bramava ancora la droga come Maya bramava la realizzazione personale e il suo papà bramava il brivido dell'inseguimento, perché forse non erano altro che una famiglia di tossicodipendenti.
Ma Sara era l'unica a riconoscerlo. Forse è la più intelligente di tutti noi.
“Ehi”. Maya allungò la mano prese quella di Sara. “Puoi farcela. Sei più forte di quanto pensi. Ho fiducia in te”.
Sara fece un mezzo sorriso. “Sono contenta che qualcuno abbia fiducia in me”.
“Parlerò con papà”, disse Maya. “Magari si rilasserà un po', ti darà un po' più di libertà…”
“No”, la interruppe Sara. “Il problema non è papà. Lui è fantastico con me; probabilmente meglio di quanto mi meriti”. Il suo sguardo cercò il pavimento. “Il problema sono io. Perché so benissimo che se avessi un centinaio di dollari in tasca e potessi andare dove voglio, dovrebbe venire a cercarmi di nuovo. E la prossima volta potrebbe non arrivare abbastanza velocemente”.
Il cuore di Maya si spezzò per l'ovvio tormento riflesso negli occhi di sua sorella, e poi di nuovo alla consapevolezza che non c'era nulla che potesse fare per aiutarla. Tutto ciò che aveva erano parole vuote di incoraggiamento, che non l'avrebbero aiutata a risolvere i suoi problemi.
All'improvviso si sentì incredibilmente fuori posto in quella cucina. Avevano vissuto così tante situazioni insieme. Crescendo. Avevano pianto la morte di loro madre. Avevano scoperto il lavoro di loro padre. Avevano fatto delle vacanze in famiglia ed erano fuggite da aspiranti assassini. Tutto ciò che si pensasse potesse avvicinare due persone e creare un legame indissolubile, aveva invece creato un vuoto silenzio tra di loro.
Sarebbe stato sempre così d'ora in avanti? La ragazza davanti a lei avrebbe continuato a diventare sempre più irriconoscibile fino a quando non si sarebbero trovate ad essere semplici estranee con un legame di parentela?
Maya voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa, per rompere quel silenzio. Far rivivere qualche ricordo felice. O chiamala topolina, quel nomignolo della loro infanzia che non usava da chissà quanto tempo.
Prima che potesse dire qualcosa, la porta si aprì alle loro spalle. Maya si girò di scatto, stringendo istintivamente i pugni. I suoi nervi saltavano quando si verificavano intrusioni inaspettate.
Ma questa volta non era un intruso. Era suo padre, che trasportava due sacchetti della spesa e avanzava cautamente verso la cucina alla vista di lei.
“Ciao”.
“Ciao, papà”.
Posò le borse della spesa sul pavimento e fece un passo verso di lei, aprendo le braccia, ma poi esitò. “Posso…?”
Lei annuì e lui l'abbracciò. All'inizio fu un abbraccio esitante, ma poi Maya notò, stupita, che aveva lo stesso odore di sempre. Era un profumo straordinariamente nostalgico, un profumo della sua infanzia, un profumo che le ricordava mille altri abbracci. Forse lei era più grande, forse Sara sembrava diversa; forse non era ancora del tutto sicura di chi fosse suo padre e forse si trovavano in un posto nuovo che avrebbero dovuto imparare a chiamare casa, ma in quel momento nulla di tutto ciò sembrava avere importanza. In quel momento si sentì a casa e si abbandonò a lui, stringendolo forte.
*Maya aprì la porta scorrevole in vetro sul retro dell’appartamento, indossò una felpa con cappuccio e sfidò l'aria fredda della notte. La casa non aveva un cortile, ma aveva un piccolo patio con un tavolo tozzo e due sedie.
Suo padre era seduto lì, sorseggiava da un bicchiere una bevanda di colore ambrato. Maya si sedette con lui, notando quanto fosse chiara la notte.
“Sara dorme?” chiese.
Maya annuì. “Sonnecchia sul divano”.
“Lo fa spesso recentemente”, disse, con espressione preoccupata. “Dorme molto”.
Lei forzò una leggera risata. “Ha sempre dormito molto. Non mi preoccuperei per questo”. Poi indicò il bicchiere con un cenno. “Birra?”
“Tè freddo”. Sorrise lui imbarazzato. “Da quando sono tornato al lavoro non bevo”.
“E come va?”
“Non male”, ammise. “Ultimamente non ho svolto nessun incarico sul campo, mi prendo cura di Sara e mi rimetto in forma”.
“Stavo per dirlo, si vede che hai perso peso. Stai molto meglio di… “
Dell'ultima volta in cui ti ho visto, stava per dire Maya, ma si interruppe, perché non voleva rievocare il ricordo di quella visita, quando aveva portato Greg a casa, si era arrabbiata, aveva perso il controllo, aveva abbandonato Greg lì e aveva detto a suo padre che non avrebbe mai più voluto vederlo.
“Grazie”, disse lui in fretta, chiaramente pensando lo stesso. “E la scuola sta andando bene?”
Gliel'aveva già detto così prima, a cena, ma sembrava che non le credesse del tutto, e Maya ricordò a sé stessa che parte del suo lavoro era la capacità di capire le persone. Era inutile mentirgli, ma ciò non significava che lei dovesse dirgli tutto.
“Preferisco non parlare della scuola”, gli disse chiaramente. Non voleva parlare di come talvolta sparissero degli oggetti dal suo armadietto. O del fatto che i ragazzi le gridassero parole poco gentili. O della sensazione che fosse soltanto l'inizio del tormento, e che più cercava di ignorarli, più i ragazzi di West Point sarebbero stati aggressivi.
“Giusto”. Suo padre si schiarì la gola. “Uhm, c'è qualcosa di cui vorrei parlare però. Avrei dovuto chiedertelo prima. Maria non ha un posto in cui andare domani, e non mi sembrava giusto…”
“Non preoccuparti, papà”. Maya sorrise al suo imbarazzante tentativo di chiederle il permesso. “Certo che non mi dispiace, e non devi chiedermi il permesso”.
Lui fece spallucce. “Si, hai ragione. È solo che sei così grande ora. Entrambe siete cresciute così tanto. Mi sono perso alcune parti importanti della vostra vita”.
Maya annuì leggermente, sebbene non sentisse il bisogno di aggiungere altro. Poi cambiò argomento. “È bello ciò che stai facendo per Sara. La stai aiutando. Sembra che ne abbia davvero bisogno”.
Questa volta fu suo padre ad annuire leggermente, fissando il vuoto. “Farei tutto il possibile per lei”, disse malinconicamente. “Ma temo che potrebbe non essere abbastanza”.
“Che intendi dire?”
Zero bevve un sorso di tè freddo prima di spiegare. “La scorsa settimana siamo andati a cena, solo noi due, in un ristorante in centro. È stato bello. Abbiamo parlato. Sembrava tutto a posto. Quando è arrivato il conto, ho pagato con una banconota da cento dollari. E lì qualcosa è scattato; come un'ombra le ha attraversato gli occhi. L'ho vista guardare i soldi, poi la porta e …”




