- -
- 100%
- +
E tutto in un solo giorno di lavoro.
Però nella scena c’era qualcosa che lo disturbava. I suoi non stavano facendo attenzione all’ambiente – erano distratti da tutti quei soldi. Avevano abbassato la guardia, di brutto. E anche lui. In un’operazione diversa, la cosa si sarebbe potuto ritorcere contro di loro. Non tutti erano degni di fiducia come Jamal.
Si voltò per guardare di nuovo gli arabi.
Jamal era lì, vicino al camion, con in mano uno degli Uzi. Due dei suoi erano con lui. Erano in piedi in fila, a puntare le armi su Brown e i suoi uomini.
Jamal sorrise.
“Clean!” urlò Brown.
Jamal sparò, e i suoi uomini fecero lo stesso. Giunse il brutto chiasso di un mitragliatore. A Brown parve che gli stessero quasi sparando con una manichetta per l’acqua. Sentì i proiettili forarlo, farsi strada dentro di lui come api che pungono. Il suo corpo fece una danza involontaria alla quale lui cercò di ribellarsi, invano. Era quasi come se i proiettili lo tenessero su, fissandolo come con uno spillo in posizione eretta, facendolo tremolare e ballare.
Per un attimo perse conoscenza. Tutto si fece nero. Poi era disteso sulla schiena, sul pavimento di cemento del magazzino. Riusciva a sentire il sangue versarsi fuori dal corpo. Riusciva a sentire che il pavimento era bagnato, dove si trovava disteso. Attorno gli si stava allargando una pozzanghera. Provava molto dolore.
Guardò il signor Clean e il signor Jones. Erano entrambi morti, i corpi crivellati, le teste scomparse per metà. Solo Brown era ancora vivo.
Gli venne in mente che era sempre stato un sopravvissuto. Cavolo, era sempre stato un vincitore. Era assurdo che dopo più di due decenni di combattimenti, folli avventure e anguste fughe morisse adesso, così. Era impossibile. Era troppo bravo nel suo lavoro. Avevano tentato di ucciderlo così tanti uomini prima di quel momento, e avevano fallito. La sua vita non sarebbe finita così. Non poteva.
Cercò di mettere la mano in tasca per la pistola, ma il braccio sembrava non funzionare bene. Poi si accorse di un’altra cosa. Nonostante tutto il dolore, non riusciva a sentirsi le gambe.
Riusciva a sentire il bruciore nella pancia, dove gli avevano sparato. Riusciva a sentire il dolore fischiante alla testa, dove era andato a sbattere sul pavimento in pietra quando era caduto. Deglutì, poi sollevò la testa e si fissò i piedi. C’era ancora tutto laggiù, e tutto attaccato – ma non riusciva a sentire niente.
I proiettili mi hanno reciso la spina dorsale.
Nessun altro pensiero gli aveva mai causato tanto orrore. Trascorsero svariati secondi in cui vide il suo futuro – avanzare sulle ruote di una sedia a rotelle, cercare di arrampicarsi dalla sedia al sedile del conducente dell’auto accessibile ai disabili, svuotare la sacca della colostomia che gli risucchiava via la merda dal suo inutile sistema digestivo.
No. Scosse la testa. Non c’era un tempo per quello. C’era un tempo solo per l’azione. La pistola di Clean era sopra alla sua testa e dietro di lui. Si allungò – faceva male anche solo alzare le braccia così – ma non riuscì a trovarla. Cominciò a strisciare all’indietro, trascinandosi dietro le gambe.
Qualcosa colse la sua attenzione. Alzò lo sguardo ed ecco che arrivava Jamal, avanzando da spaccone verso di lui. Il bastardo sorrideva.
Avvicinandosi, sollevò l’arma. La puntò su Brown. Adesso Brown notò che con Jamal c’erano i suoi due uomini.
“Non cercare di fare niente, Brown. Stattene steso fermo.”
Gli uomini di Jamal presero la pesante borsa con i soldi, e il piccolo portamonete con i diamanti. Poi si voltarono e tornarono ai camion. Salirono nella cabina del camion di testa. Si accesero i fanali. Il motore ruttò e scoreggiò, del fumo nero si riversò sul lato del conducente.
“Tu mi piaci,” disse Jamal. “Ma gli affari sono affari, no? Per questo affare non lasciamo niente di incompiuto. Mi dispiace. Sul serio.”
Brown cercò di dire qualcosa, ma sembrava non avere voce. Tutto ciò che riuscì a fare in risposta fu farfugliare.
Jamal sollevò di nuovo la pistola.
“Vuoi un momento per pregare?”
Brown quasi rise. Scosse la testa. “La sai una cosa, Jamal? Mi fai venire i nervi. Tu e la tua religione sono sciocchezze. Se voglio pregare? Pregare cosa? Non c’è nessun Dio, e lo scoprirai non appena…”
Brown vide il fuoco lambire la fine della canna della pistola. Poi era piatto sulla schiena, a fissare il soffitto del magazzino alto sopra la sua testa.
CAPITOLO CINQUE
21:45 ora legale delle Montagne Rocciose (23:45 ora legale orientale)
Penitenziario federale ADX Florence (Supermax) – Florence, Colorado
“Eccoci,” disse la guardia. “Casa dolce casa.”
Luke percorreva i bianchi corridoi in calcestruzzo della prigione più sicura degli Stati Uniti. Le due alte e massicce guardie in uniforme marrone lo fiancheggiavano. Erano quasi identiche, quelle guardie, con un taglio a spazzola militare da recluta, grosse spalle e braccia, e un torso ancora più grosso. Avanzavano, i corpi tesi e il baricentro alto, come degli aggressivi attaccanti di una squadra di football fuori dallo sport da un po’ di tempo.
Non erano in forma nel senso tradizionale del termine, ma Luke riteneva che avessero la stazza e la figura perfette per il loro lavoro. A stretto contatto, potevano mettere un bel peso addosso a un prigioniero che faceva resistenza.
I passi riecheggiavano sul pavimento in pietra mentre i tre uomini superavano le porte d’acciaio chiuse e senza finestre di dozzine di celle. Ciascuna porta aveva una stretta apertura vicino al fondo, come una fessura per la posta, attraverso la quale le guardie potevano far passare i pranzi e le cene ai prigionieri. Ciascuna aveva anche due finestrelle con vetro rinforzato in acciaio che davano sul passaggio. Luke non guardò in nessuna delle finestre che superarono.
Da qualche parte in quel corridoio, un uomo urlava. Sembrava in agonia. Urlava e urlava, senza dar segno di finire. Era notte, presto le luci sarebbero state spente, e un uomo gridava. Luke pensava quasi di riuscire a rappresentarsi le parole incorporate in quel rumore.
Guardò una delle guardie.
“Sta bene,” disse la guardia. “Davvero. Non sta soffrendo. Ulula e basta.”
L’altra guardia parlò. “La solitudine ne fa uscire pazzi alcuni.”
“La solitudine?” disse Luke “Volete dire l’isolamento?”
La guardia si strinse nelle spalle. “Sì.” Per lui era una questione semantica. Alla fine del turno andava a casa sua. Mangiava da Denny’s, a vederlo, e attaccava bottone con qualcuno. Portava la fede all’anulare della spessa mano sinistra. Aveva una moglie, probabilmente dei figli. Quell’uomo aveva una vita fuori da quelle mura. E i prigionieri? Non tanto.
Aveva alloggiato lì un gotha di furfanti e cattivi, Luke lo sapeva. L’Unabomber Ted Kaczynski era un residente attuale, così come Dzhokhar Tsarnaev, il fratello sopravvissuto dei due attentatori della maratona di Boston. Il capo mafioso John Gotti aveva vissuto lì per anni, così come il suo violento sgherro, Sammy “The Bull” Gravano.
Era una violazione delle regole del complesso a permettere a Luke di superare la stanza delle visite, ma quelle non erano esattamente le ore di visita, e si trattava di un caso speciale. Un prigioniero aveva delle informazioni da offrire, ma aveva insistito nel vedere Luke personalmente – non a un telefono con uno spesso vetro divisorio tra di loro, ma faccia a faccia, e uomo a uomo, nella cella. La presidente degli Stati Uniti stessa aveva chiesto a Luke di accettare l’incontro.
Si fermarono di fronte a una porta bianca, una delle tante. Luke sentì il cuore perdere un colpo. Era nervoso, solo un pochino. Non cercò di sbirciare l’uomo attraverso le finestre minuscole. Non voleva vederlo così, come un topo che viveva in una scatola da scarpe. Voleva che l’uomo fosse leggendario, immenso.
“È mio compito informarla,” cominciò una delle guardie, “che i prigionieri che si trovano qui vengono considerati tra i più violenti e pericolosi attualmente presenti nel sistema correzionale federale degli Stati Uniti. Se sceglie di entrare in questa cella e declina…”
Luke sollevò una mano. “Non serve. Conosco i rischi.”
La guardia fece di nuovo spallucce. “Si accomodi pure.”
“Per la cronaca, non voglio che la conversazione venga registrata,” disse Luke.
“Tutte le celle vengono riprese dalle telecamere di sorveglianza ventiquattr’ore al giorno,” disse adesso la guardia. “Ma non c’è audio.”
Luke annuì. Non credette a una parola. “Bene. Urlerò, se mi serve aiuto.”
La guardia sorrise. “Non sentiremo.”
“Allora agiterò le mani.”
Entrambe le guardie risero. “Sarò in fondo al corridoio,” disse uno dei due. “Picchi forte sulla porta quando vuole uscire.”
La porta fece un fragoroso suono metallico quando venne aperta la serratura, poi si aprì, mansueta. Da qualche parte, qualcuno li osservava davvero.
Aprendosi, la porta mostrò una minuscola e tetra cella. La prima cosa che Luke notò fu la toilette di metallo. Sopra aveva un rubinetto per l’acqua, in una strana combinazione, ma che aveva un senso logico, presumeva lui. Tutto il resto era fatto di pietra, e fissato sul luogo. Una stretta scrivania di pietra si estendeva dal muro di calcestruzzo, con un rotondo sgabello di pietra come un piccolo piolo che ne usciva dal pavimento di fronte.
La scrivania era piena di carte, qualche libro e quattro o cinque tozze matite come quelle che usano i giocatori di golf per tenere il punteggio. Come la scrivania, il letto era stretto e fatto di pietra. Lo copriva un sottile materasso, e c’era una coperta verde che sembrava fatta di serge di lana, o di un materiale ugualmente irritante. C’era una stretta finestra sulla parete in fondo, con una cornice verde alta forse sessanta centimetri e larga quindici. Fuori dalla finestra era buio, tranne che per una malaticcia luce gialla che si diffondeva nella cella da una vicina lampada ad arco al sodio montata sul muro esterno. Non c’era modo di coprire la finestra.
Il prigioniero era in piedi, in una tuta arancione, l’ampia schiena che dava loro le spalle.
“Morris,” disse la guardia. “C’è il tuo visitatore. Fammi il favore di non ucciderlo.”
Don Morris, ex colonnello dell’esercito degli Stati Uniti e comandante della Delta Force, fondatore ed ex direttore dello Special Response Team dell’FBI, si voltò lentamente. Il suo viso sembrava più rugoso di prima e i capelli sale e pepe erano diventati totalmente bianchi. Ma gli occhi erano profondi, acuti e attenti, e il petto, le braccia, le gambe e le spalle sembravano più forti che mai.
La sua bocca fece una specie di sorriso, che però non raggiunse gli occhi.
“Luke,” disse. “Grazie di essere venuto. Benvenuto a casa mia. Ventisei metri quadrati, approssimativamente due e venti per tre e sessanta.”
“Ciao, Don,” disse Luke. “Mi piace proprio come hai sistemato questo posto.”
“Ultima occasione di cambiare idea,” disse una delle guardie alle sue spalle.
Luke scosse la testa. “Penso che starò bene.”
Gli occhi di Don caddero sulle guardie. “Lo sapete chi è quest’uomo, vero?”
“Lo sappiamo. Sì.”
“Allora presumo,” disse Don, “che possiate immaginare quanto poco pericolo io rappresenti per lui.”
La porta si chiuse sferragliando. Luke provò qualcosa, mentre si fissavano attraverso la cella – avrebbe potuto chiamarla nostalgia. Don era stato il suo comandante e il suo mentore alla Delta. Quando Don aveva avviato lo Special Response Team, aveva assunto Luke come primo agente. In molti modi, e per più di dieci anni, Don era stato come un padre per lui.
Ma ormai non più. Don era stato uno dei cospiratori del complotto per uccidere il presidente degli Stati Uniti e rovesciare il governo. Era stato connivente nel rapimento della moglie e del figlio di Luke. Aveva saputo in anticipo della bomba che aveva ucciso più di trecento persone a Mount Weather. Davanti a Don si stagliava la pena di morte, e Luke non riusciva a pensare a una persona che più meritasse quel destino.
I due si strinsero la mano, e Don mise una mano sulla spalla di Luke, solo per un secondo. Era il gesto imbarazzante di un uomo ormai non più abituato al contatto umano. Luke sapeva che i prigionieri del Supermax raramente toccavano altri esseri umani.
“Grazie di tutte le visite che hai fatto e delle lettere che hai mandato,” disse Don. “È stato di conforto sapere che il mio benessere è una tale priorità per te.”
Luke scosse la testa. Quasi sorrise. “Don, fino a ieri pomeriggio non sapevo neanche dove ti tenessero. E non me ne importava niente. Poteva anche essere un buco per terra. Poteva essere sul fondo di Mount Weather.”
Don annuì. “Quando perdi, con te possono farci tutto quello che vogliono.”
“Ampliamente meritato, in questo caso.”
Don fece un cenno al piolo di pietra che spuntava come un fungo dal pavimento. “Perché non ti accomodi?”
“Resto in piedi. Grazie.”
Don fissò Luke, la testa gli si inclinò interrogativamente di lato. “Non ho da offrire molta ospitalità, Luke. È tutto qua.”
“Perché dovrei accettare la tua ospitalità, Don?”
Gli occhi di Don non si voltarono da un’altra parte. “Scherzi? Per i vecchi tempi. Come gesto di ringraziamento per averti fatto da mentore nella Delta e per averti dato il tuo lavoro attuale. Pensa a una ragione, figliolo.”
“Esattamente quello che dico io, Don. Quando penso a te, penso a mio figlio, e a mia moglie, che tu hai rapito.”
Don sollevò le mani. “Io non c’entravo niente. Te lo giuro. Se fosse stato per me, non avrei mai permesso che venisse fatto del male a Gunner o Becca. Sono come il mio sangue, come la mia famiglia. Ti avevo avvertito perché volevo proteggerli, Luke. L’ho scoperto dopo che era già accaduto. Mi dispiace che sia successo. Non c’è nulla nella mia lunga carriera che rimpianga di più.”
Luke scrutò gli occhi di Don, il suo linguaggio del corpo, in cerca di… qualcosa. Stava mentendo? Stava dicendo la verità? Che cosa credeva, poi, Don? Chi era quell’uomo, a cui Luke un tempo pensava di voler bene?
Luke sospirò. Avrebbe accettato l’esigua ospitalità dell’uomo. Quello gliel’avrebbe dato, e quella notte se ne sarebbe rimasto sveglio a letto a chiedersi perché mai l’avesse fatto.
Si accovacciò sulla bassa pietra.
Don sedette sul letto. Tra loro si allungò una pausa. Non c’era nulla di bello.
“Come va l’SRT?” disse alla fine Don. “Immagino che abbiano fatto direttore te, no?”
“Me l’hanno chiesto, ma io ho rifiutato. L’SRT è finito, disperso al vento. La maggior parte degli agenti è stata riassorbita dal Bureau vero e proprio. Ed Newsam è alla squadra di recupero ostaggi. Mark Swann è andato all’NSA. Io mi tengo parecchio in contatto con loro – li prendo in prestito per un’operazione di tanto in tanto.”
Luke vide un flash di qualcosa negli occhi di Don, che scomparve quasi prima di palesarsi. Il suo bambino, lo Special Response Team dell’FBI, il culmine del lavoro di una vita, era stato smantellato. Non l’aveva saputo? Luke presumeva di no.
“Trudy Wellington è scomparsa,” disse Luke.
Negli occhi di Don apparve qualcos’altro, che stavolta rimase lì. Se indugiava, voleva dire che Don voleva che lui lo vedesse. Luke non capiva se si trattasse di un’emozione, di un ricordo o di un’informazione. Era bravo a leggere la gente, ma Don era una vecchia spia. La sua mente e il suo cuore erano libri chiusi.
“Tu non ne sai niente, vero, Don?”
Don si strinse nelle spalle, offrì un mezzo sorriso. “La Trudy che conoscevo era molto intelligente. Teneva le antenne belle alte. Se devo tirare a indovinare, dico che ha sentito un brontolio distante che l’ha infastidita, e che è scappata prima che si avvicinasse.”
“Le hai parlato?”
Don non rispose.
“Don, non ha senso pensare di ostacolarmi. Posso fare una telefonata e scoprire con chi hai parlato, chi ti ha scritto e che cosa c’era nella lettera. Non hai privacy. Hai parlato con Trudy o no?”
“Sì, ci ho parlato.”
“E cosa le hai detto?” disse Luke.
“Le ho detto che la sua vita era in pericolo.”
“Sulla base di cosa?”
Don guardò il soffitto per un momento. “Luke, tu sai quel che sai, e va bene così. E poi non sai quello che non sai. Se hai dei limiti, sicuramente questo è uno. Quello che non sai in questo caso, perché non ti interessi di politica, è che c’è una guerra silenziosa in corso dietro le quinte da sei mesi. L’attentato a Mount Weather? Quella notte sono morte molte persone di alto profilo. E molte persone di basso profilo sono morte da allora. Direi almeno tante quante ne sono morte nell’attentato originale. Trudy non era coinvolta nel complotto contro Thomas Hayes, ma non tutti ci credono. C’è gente là fuori che va a caccia della retribuzione.”
“Quindi è scappata col tuo benestare?”
“Sì, penso di sì.”
“Lo sai dov’è?”
Don fece spallucce. “Non te lo direi, se lo sapessi. Un giorno, se vuole che tu sappia dove si trova, sono sicuro che sarà la prima a dirtelo.”
Luke ebbe l’impulso di chiedere se stesse bene, ma si controllò. Non avrebbe dato a Don quel tipo di potere – sarebbe stato proprio quello che il vecchio voleva. Invece, tra loro si allungò un’altra pausa. I due uomini se ne stavano seduti nello spazio minuscolo, a fissarsi negli occhi. Alla fine Don ruppe il silenzio.
“Allora per chi stai lavorando, se non per l’SRT? Ho problemi a immaginarmi Luke Stone in vacanza per molto tempo.”
Luke si strinse nelle spalle. “Immagino che tu diresti che sono un freelancer, ma ho un solo cliente. Lavoro direttamente per la presidente, nelle rare occasioni in cui mi chiama. Come ha fatto oggi, per chiedermi di venire qui a vederti.”
Don sollevò un sopracciglio. “Un freelancer? Ti pagano ancora il tuo stipendio e i benefit?”
“Mi hanno dato un aumento,” disse Luke. “Anzi, penso che mi abbiano dato il tuo vecchio stipendio.”
“Sprechi del governo,” disse Don assumendo il suo personaggio da amministratore dell’agenzia e scuotendo la testa. “Però ti si adatta bene. Non sei mai stato il tipo dal lunedì al venerdì.”
Luke non rispose. Dal suo punto di vista, riusciva a vedere ciò che offriva la finestra. Nulla – il muro di calcestruzzo di un’altra ala dell’edificio, con un frammento di cielo scuro visibile sopra.
Era un progetto insidioso. Il complesso si trovava sulle Montagne Rocciose – quando Luke quella notte era arrivato, oltre le torri di guardia e il cemento e il filo spinato, era rimasto sconvolto dalla vista degli alti picchi che circondavano il posto. L’aria era fredda e le montagne erano leggermente spruzzate della prima neve. Persino di notte si poteva dire che quel luogo era bellissimo.
I prigionieri non lo vedevano mai. Luke ci avrebbe scommesso cinque dollari che ogni cella di quella prigione aveva la stessa vista di qualunque altra – un muro vuoto.
“Allora, che cosa vuoi, Don? Susan mi ha detto che hai un’informazione che non vedi l’ora di condividere, ma solo con me. In questo momento ho molte cose di cui occuparmi nella mia vita, ma sono venuto qui perché è mio dovere. Non sono sicuro di come hai ottenuto quest’informazione, date le tue circostanze attuali…”
Don sorrise. I suoi occhi erano completamente separati da qualunque emozione la sua bocca cercasse di trasmettere. Sembravano gli occhi di un alieno, simili a quelli di una lucertola, privi di empatia, di preoccupazione, persino di interesse. Gli occhi di una cosa che potrebbe mangiarti o sfuggirti, ma senza sentire nulla nel farlo.
“Ci sono degli uomini molto intelligenti qui,” disse. “Non crederesti mai a quanto sia intricato il sistema di comunicazione tra i prigionieri. Mi piacerebbe descrivertelo – penso che ne saresti affascinato – ma non voglio neanche mettere a rischio il sistema o me stesso. Ti farò un esempio di ciò che sto dicendo, però. Hai sentito l’uomo che prima urlava?”
“Sì,” disse Luke. “Non ho capito di cosa si trattasse. Le guardie mi hanno detto che è impazzito…” La voce gli si spense.
Ma certo. L’uomo aveva detto qualcosa, se si avevano orecchie per intendere.
“Esatto,” disse Don. “Il banditore. È così che lo chiamo. Non è l’unico, e quello non è l’unico metodo. Proprio per niente.”
“Allora, che cos’hai?” disse Luke.
“C’è una trama,” disse Don, la voce che si era trasformata a poco più di un sussurro. “Come sai, molti degli uomini di qui sono affiliati alle reti terroristiche. Hanno i loro modi di comunicare. Quello che ho sentito io è che in Belgio c’è un gruppo che sta prendendo di mira le vecchie testate nucleari della Guerra fredda immagazzinate lì. Le testate sono poco seguite su una base NATO belga. La sicurezza è una sciocchezza. I terroristi, non so per certo chi, cercheranno di rubare una testata, o forse un missile, o più di uno.”
Luke ci pensò per un attimo. “A cosa servirebbe? Senza i codici nucleari le testate non sono neanche operative. Devono saperlo. È come rischiare la vita per rubare un fermacarte gigante.”
“Io presumerei che i codici li abbiano,” disse Don. “O hanno accesso ai codici stessi, o hanno scoperto un modo di generarli.”
Luke lo fissò. “Non hanno modo di lanciare una testata. Senza un sistema di consegna, non genereranno mai l’energia per l’esplosione. Qui non siamo mica su Bugs Bunny. Non si può mica prendere a martellate quelle cose.”
Don fece spallucce. “Credi quello che vuoi credere, Luke. Tutto ciò che ti sto dicendo è quello che ho sentito.”
“È tutto?” disse Luke.
“Sì.”
“Allora perché hai scelto di dirlo? Se qualcuno scopre che stai passando i segreti che senti qui… be’, immagino che comunicare non sia l’unica cosa che questi qui sanno fare.”
Adesso per il viso di Don passò la rabbia, come una breve burrasca estiva in alto mare. Tutto si fece oscuro per un momento, la tempesta apparve, poi passò. Fece un respiro profondo, apparentemente per calmarsi.
“Perché non dovrei condividere l’informazione che ho? Temo che tu mi abbia capito male, Luke. Io sono un patriota, tanto quanto te, se non di più. Rischiavo la vita per gli Stati Uniti prima ancora che tu nascessi. Ho fatto quello che ho fatto perché amo il mio paese, e non per altre ragioni. Non tutti sono d’accordo sul fatto che fosse la cosa giusta da fare, ed è per questo che sono qui dentro. Però ti prego di non mettere in questione la mia fedeltà, né il mio coraggio. Non c’è uomo in questo complesso che mi intimidisca, te incluso.”
Luke era ancora scettico. “E non vuoi niente in cambio?”
Don non disse nulla per un lungo momento. Fece un cenno alla scrivania disordinata. Poi sorrise. Non c’era allegria in quel sorriso.
“Sì che voglio qualcosa. Non è molto da chiedere.” Fece una pausa, e guardò la minuscola cella. “Non mi dispiace stare qui, Luke. Alcuni uomini impazziscono davvero – la gente illetterata. Non hanno accesso alla vita della mente. Ma io sì. A te pare che io sia chiuso a chiave dietro a muri di calcestruzzo, ma per me è quasi come essere in anno sabbatico. Correvo da quarant’anni filati, senza la possibilità di prendermi una pausa. Queste mura non mi imprigionano. Ho vissuto una vita che basta a una dozzina di uomini, ed è tutta quanta ancora quassù.”
Si fece tamburellare le dita sulla fronte.
“Sto pensando ai vecchi tempi, alle vecchie missioni. Ho cominciato a lavorare alle mie memorie. Penso che un giorno saranno una lettura affascinante.”
Si fermò. Uno sguardo distante gli entrò negli occhi. Fissò il muro, ma stava guardando qualcos’altro. “Ricordi i tempi alla Delta, quando ci hanno mandato nel Congo dopo che il signore della guerra si è incoronato principe Joseph? Quello con i soldati bambini? L’esercito del paradiso.”
Luke annuì. “Me lo ricordo. I pezzi grossi del JSOC non volevano che tu ci andassi. Pensavano…”
“Che fossi troppo vecchio. È vero. Ma sono andato lo stesso. E stiamo scesi lì di notte, io, te, chi altro? Simpson…”
“Montgomery,” disse Luke. “Un paio di altri.”
Gli occhi di Don erano molto vivi. “Giusto. Il pilota ha combinato un macello e ci ha buttati nel fiume, in uno degli affluenti. Siamo tutti precipitati in acqua con addosso diciotto chili di zaino.”






