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“Eccellente, signor Smith,” disse Brown nel Motorola.
Uno dei poliziotti aveva attraversato metà della strada prima di essere colpito. Ora strisciava verso il marciapiede vicino, magari sperando di raggiungere il cespuglio di arbusti che si trovava davanti alla casa. Indossava un giubbotto antiproiettile. Probabilmente era stato colpito proprio tra le fessure, ma poteva ancora essere una minaccia.
“Ne hai uno a terra che si avvicina ancora! Lo voglio fuori dai giochi.”
Quasi immediatamente una grandinata di proiettili colpì l’uomo, facendolo contorcere e sussultare. Brown vide l’uccisione al rallentatore. Venne colpito nella fessura sul retro del collo, tra la parte alta del giubbotto e quella finale dell’elmetto. Una spruzzata di sangue riempì l’aria e l’uomo si immobilizzò completamente.
“Bel colpo, signor Smith. Bellissimo colpo. Adesso teniamoli tutti inchiodati a terra.”
Brown tornò scivolando nella sala di comando. Il peschereccio stava arrivando. Prima ancora che raggiungesse il molo, una squadra di uomini con casco e giacca nera ne saltò giù.
“Mascherine di sotto!” disse Brown. “Arrivano da quella porta scorrevole. Preparatevi a rispondere al fuoco.”
“Affermativo,” disse qualcuno.
Gli invasori presero posizione sul molo. Portavano pesanti scudi balistici, dietro i quali si abbassavano. Un uomo saltò su e spianò un candelotto lacrimogeno. Brown prese la mascherina e osservò il proiettile volare oltre la casa. Colpì la porta a vetri e atterrò nella stanza principale.
Un altro uomo saltò su e lanciò un altro barattolo. Poi un terzo ne lanciò un altro. Tutti i candelotti penetrarono in casa dal vetro. La porta a vetri era andata. Sullo schermo di Brown la zona vicino all’atrio cominciò a riempirsi di fumo.
“Stato di sotto?” disse Brown. Passò qualche secondo.
“Stato!”
“Tranquillo, compare,” disse Australiano. “Un po’ di fumo, e quindi? Abbiamo messo le mascherine.”
“Sparate quando siete pronti,” disse Brown.
Osservò gli uomini alla porta scorrevole aprire il fuoco verso il molo. Gli invasori vennero bloccati lì. Non riuscivano a esporsi dagli scudi balistici. E gli uomini di Brown avevano tonnellate di munizioni pronte.
“Bravi, ragazzi,” disse nel walkie-talkie. “Assicuratevi di affondargli la barca, visto che ci siete.”
Brown sogghignò tra sé e sé. Potevano resistere per giorni.
*Era un disastro. C’erano uomini a terra ovunque.
Luke andò verso la casa, scrutando in giro. Gli spari peggiori venivano da un uomo che si trovava a una finestra del piano di sopra. Stava facendo dei poliziotti formaggio svizzero. Luke era vicino al fianco della casa. Da lì non aveva angolo di tiro, ma l’uomo probabilmente non riusciva a vederlo.
Mentre osservava, il cattivo finì un poliziotto abbattuto con un colpo dietro al collo.
“Ed, com’è la tua visuale sul tiratore del piano di sopra?”
“Posso ficcargliene una dritta in gola. Sono piuttosto sicuro che da lì non mi veda.”
Luke annuì. “Prima occupiamoci di questo. Qua fuori sta diventando un casino.”
“Sei sicuro di volerlo?” disse Ed.
Luke studiò il piano superiore. La stanza senza finestre era nel punto della casa più lontano dal covo del cecchino.
“Sono ancora incline a pensare che si trovino nella stanza senza finestre,” disse.
Ti prego.
“Basta che me lo dici,” disse Ed.
“Vai.”
Luke udì il distintivo rimbombo vuoto del lanciagranate.
Doonk!
Un missile volò da dietro la fila di auto attraverso la strada. Non fece un arco – percorse una traiettoria piana che sfrecciò in alto in diagonale. Colpì giusto la finestra. Passò un secondo, poi:
BANG.
Il lato della casa esplose verso l’esterno, con pezzi di legno, vetro, acciaio e vetroresina. L’arma alla finestra tacque.
“Bene, Ed. Davvero bene. Adesso fammi quel buco nel muro.”
“Come dici?” disse Ed.
“Per favore.”
Luke corse a nascondersi dietro a una macchina.
Doonk!
Sfrecciò ancora in linea retta, a poco più di un metro da terra. Colpì il fianco della casa come un incidente d’auto, e aprì una ferita nel muro. Dentro eruttò una palla di fuoco, sputando fumo e detriti.
Luke balzò quasi in piedi.
“Tieniti forte,” disse Ed. “Ce n’è un altro in arrivo.”
Ed sparò ancora, e questo entrò nella casa. Il rosso e l’arancione divamparono attraverso il buco. La terra tremò. Okay. Era ora di andare.
Luke si mise in piedi e cominciò a correre.
*La prima esplosione fu sopra alla sua testa. L’intera casa ne fu scossa. Brown guardò il corridoio del piano di sopra sullo schermo.
Il fondo del corridoio era andato. Il punto dove prima si trovava Smith non esisteva più. C’era solo un buco a brandelli dove prima c’erano la finestra e il signor Smith.
“Signor Smith?” disse Brown. “Signor Smith, ci sei?”
Nessuna risposta.
“Qualcuno vede da dove è venuto?”
“Sei tu gli occhi, yankee,” disse una voce.
Avevano dei problemi.
Pochi secondi dopo un razzo colpì la parte anteriore della casa. L’onda d’urto fece cadere Brown. I muri stavano collassando. Il soffitto della cucina improvvisamente crollò. Brown era disteso sul pavimento tra pezzi di casa che precipitavano. Stava succedendo tutto il contrario di quel che si era aspettato. I poliziotti buttavano giù le porte con gli arieti – non sparavano razzi attraverso i muri.
Arrivò un altro razzo, questo fin dentro la casa. Brown si coprì la testa. Tutto tremò. L’intera casa poteva venire giù.
Passò un momento. Adesso c’era qualcuno che gridava. Per il resto, era tutto silenzio. Brown saltò in piedi e corse su per le scale. Per strada raccolse la sua pistola e una granata.
Attraversò la stanza principale. Era una carneficina, un mattatoio. La stanza andava a fuoco. Uno dei Barba era morto. Più che morto – era esploso in pezzi che si erano sparpagliati dappertutto. Australiano si era fatto prendere dal panico e si era tolto la maschera. Aveva la faccia coperta di sangue scuro, ma Brown non capiva dove fosse stato colpito.
“Non ci vedo!” urlava. “Non ci vedo!”
Aveva gli occhi apertissimi.
Un uomo con un giubbotto antiproiettile e un elmetto passeggiava tranquillamente sul muro a pezzi. Zittì Australiano col brutto chiasso di un’arma automatica. La testa di Australiano scoppiò come un pomodoro. Rimase in piedi per un secondo o due senza la testa, e poi si afflosciò sul pavimento.
Barba 2 era disteso a terra accanto alla porta sul retro, quella doppiamente rinforzata in acciaio di cui Brown era stato tanto contento appena pochi momenti prima. I poliziotti non riuscivano mai a superare quella porta. Barba 2 era rimasto massacrato nell’esplosione, ma combatteva ancora. Si trascinò al muro, si tirò su e prese l’arma che aveva assicurata alla spalla.
L’invasore sparò a Barba 2 in viso a bruciapelo. Sangue e ossa e materia grigia si spiaccicarono contro il muro.
Brown si voltò e si precipitò su per le scale.
*L’aria era densa di fumo, ma Luke vide l’uomo scattare in direzione delle scale. Si guardò intorno nella stanza. Tutti gli altri erano morti.
Soddisfatto, prese di corsa le scale. Il suo stesso respiro gli rimbombava nelle orecchie.
Lì era vulnerabile. Le scale erano così strette che sarebbe stata l’occasione perfetta perché qualcuno gli aprisse il fuoco addosso. Non lo fece nessuno.
In cima l’aria era più pulita che di sotto. Alla sua sinistra c’erano la finestra e la parete andate in frantumi dove era stato appostato il cecchino. Le sue gambe erano sul pavimento. Gli stivali comodi marrone chiaro puntavano in direzioni opposte. Il resto del suo corpo era sparito.
Luke andò a destra. Istintivamente corse alla stanza che si trovava alla fine del corridoio. Lasciò cadere l’Uzi nel corridoio. Prese il fucile a pompa dalla spalla e lasciò cadere anche quello. Estrasse la Glock dalla fondina.
Girò a sinistra ed entrò nella stanza.
Becca e Gunner erano seduti, legati a due sedie pieghevoli. Avevano le braccia bloccate dietro la schiena. Avevano i capelli spettinati, come se un simpaticone glieli avessi arruffati con la mano. E c’era un uomo dietro di loro. Gettò i due cappucci neri a terra e mise la bocca della pistola contro la nuca di Becca. Si abbassò tantissimo, portando Becca davanti a sé per usarla come scudo umano.
Becca aveva gli occhi sgranati. Gunner teneva i suoi chiusi con forza. Piangeva senza controllo. Aveva tutto il corpo scosso da singhiozzi silenziosi. Aveva bagnato i pantaloni.
Ne valeva la pena?
A vederli così, indifesi, terrorizzati – ne era valsa la pena? Luke la sera prima aveva contribuito a fermare un colpo di Stato. Aveva salvato la nuova presidente da morte praticamente certa – ma ne era valsa la pena?
“Luke?” disse Becca, come se non lo riconoscesse.
Ovvio che non lo riconosceva. Si tolse l’elmetto.
“Luke,” disse. Trasalì, magari di sollievo. Luke non lo sapeva. Le persone emettevano suoni nei momenti estremi. Suoni che non avevano sempre un significato specifico.
Luke sollevò la pistola, puntandola direttamente tra la testa di Becca e quella di Gunner. Quell’uomo era bravo. Non gli concedeva nulla da colpire. Ma Luke continuò lo stesso a puntare lì la pistola. Osservò con pazienza. L’uomo non sarebbe stato sempre bravo. Nessuno poteva essere bravo per sempre.
Luke ora non sentiva nulla, niente di niente tranne… una calma… di morte.
Non sentiva il sollievo percorrergli il sistema nervoso. Non era ancora finita.
“Luke Stone?” disse l’uomo. Grugnì. “Fantastico. Da un paio di giorni sei dappertutto. Sei davvero tu?”
Luke riuscì a immaginarsi il viso dell’uomo ripensando al momento prima che si nascondesse dietro a Becca. Aveva una grossa cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra. Aveva un taglio di capelli a spazzola. Aveva i lineamenti taglienti di chi aveva trascorso la vita nell’esercito.
“Chi lo vuole sapere?” disse Luke.
“Mi chiamano Brown.”
Luke annuì. Un nome che non era un nome. Il nome di un fantasma. “Be’, Brown, come vuoi che la risolviamo?”
Sotto di loro, Luke udì la polizia entrare in casa.
“Che opzioni vedi?” disse Brown.
Luke rimase immobile, con la pistola in attesa di avere campo libero. “Io vedo due opzioni. Puoi morire in questo istante oppure, se sei fortunato, in prigione, tra moltissimo tempo.”
“Oppure posso farti esplodere il cervello della tua adorabile moglie addosso.”
Luke non rispose. Puntava la pistola e basta. Non aveva il braccio stanco. Non si sarebbe mai stancato. Ma la polizia sarebbe salita tra un attimo, e così l’equazione sarebbe cambiata.
“E tu un secondo dopo sarai morto.”
“Vero,” disse Brown. “Oppure potrei fare così.”
Con la mano libera lanciò una granata nel grembo di Becca.
Mentre Brown scappava, Luke mollò la pistola e si buttò sulla granata. In una serie di movimenti raccolse la granata, la lanciò verso il muro opposto della stanza, fece cadere le due sedie e spinse a terra sia Becca che Gunner.
Becca urlò.
Luke se li tenne lì, in modo brusco, non c’era tempo per le delicatezze. Li spinse sempre più vicini, salì loro sopra, li coprì col suo corpo e con il suo giubbotto. Cercò di farli sparire.
Per un secondo, non accadde nulla. Forse era solo un trucco. La granata era finta, e adesso l’uomo chiamato Brown avrebbe avuto la meglio su di lui. Li avrebbe uccisi tutti.
BUUUUUM!
Ecco l’esplosione, assordante nella stanza chiusa. Luke li tenne più vicini. Il pavimento tremò. Frammenti di metallo lo colpirono. Abbassò la testa. Gli venne lacerata la carne esposta del collo. Li coprì e li tenne fermi.
Passò un momento. La sua famigliola tremava sotto di lui, sconvolta dallo shock e dalla paura, ma viva.
Adesso era ora di uccidere quel bastardo. La Glock di Luke era sul pavimento accanto a lui. La afferrò e balzò in piedi. Si girò.
C’era un enorme buco frastagliato nel muro. Attraverso di esso, Luke vedeva la luce del giorno e il cielo azzurro. Vedeva l’acqua verde scuro della baia. E vedeva che l’uomo chiamato Brown se n’era andato.
Luke si avvicinò alla voragine da un angolo, usando i resti della parete per farsi scudo. I bordi erano un mix frastagliato di legno, cartongesso e isolamento in vetroresina a pezzi. Si aspettava di vedere un corpo a terra, possibilmente in molti pezzi sanguinolenti. No. Non c’era nessun corpo.
Per un secondo Luke pensò di vedere uno schizzo. Forse un uomo si era tuffato nella baia ed era sparito. Luke batté le palpebre per schiarirsi la vista, poi tornò a guardare. Non ne era sicuro.
Comunque, l’uomo chiamato Brown era sparito.
CAPITOLO TRE
21:03
Bethesda Navy Medical Center – Bethesda, Maryland
La luce del laptop sfarfallò nella semioscurità della stanza privata dell’ospedale. Luke era tutto curvo su una scomoda poltrona, a fissare lo schermo, con un paio di auricolari bianchi che lo collegavano al computer.
Era quasi senza fiato dalla gratitudine e dal sollievo. Gli faceva male il petto per aver rantolato in cerca d’aria per le ultime quattro o cinque ore. A volte aveva pensato di piangere, ma ancora non l’aveva fatto. Magari più tardi.
C’erano due letti nella stanza. Luke si era mosso dietro le quinte, e adesso Becca e Gunner erano distesi a letto, a dormire profondamente. Erano sotto sedativi, ma non aveva importanza. Nessuno dei due aveva dormito un secondo tra il momento in cui erano stati rapiti e quello in cui Luke era penetrato nel rifugio.
Avevano vissuto diciotto ore di assoluto terrore. Adesso erano incoscienti. E sarebbero rimasti incoscienti per un bel po’.
Nessuno dei due era rimasto ferito. È vero, si sarebbero portati dietro delle cicatrici emotive, ma fisicamente stavano bene. I cattivi non danneggiavano la merce. Forse c’era stata la mano di Don Morris, lì da qualche parte a proteggerli.
Pensò un attimo a Don. Adesso che gli eventi erano terminati, sembrava giusto farlo. Don era stato il più importante mentore di Luke. Da quando a ventisette anni Luke era entrato a far parte della Delta Force fino a quella mattina presto, dodici anni dopo, Don era stata una presenza costante nella vita di Luke. Quando Don aveva creato lo Special Response Team in seno all’FBI, aveva creato un posto per Luke. No, di più – lo aveva reclutato, lo aveva curato e coccolato, e lo aveva sottratto alla Delta.
Però a un certo punto Don era cambiato, e Luke mai se lo sarebbe aspettato. Don era stato tra i cospiratori che avevano cercato di rovesciare il governo. Un giorno Luke avrebbe potuto capire le motivazioni di Don, ma non oggi.
Sullo schermo di fronte a lui veniva trasmessa una sequenza live dalla sala multimediale piena zeppa di quella che chiamavano “la Nuova Casa Bianca.” La stanza aveva almeno cento posti a sedere. Aveva una pendenza graduale che scendeva dal fondo, come a rispecchiare una sala cinematografica. Tutti i posti erano occupati. Tutti i posti lungo la parete posteriore erano occupati. Dense folle di persone erano in piedi a entrambi i lati del palco.
Sullo schermo apparvero brevemente le immagini della dimora presidenziale. Era bellissima, una villa timpanata e con le torrette, nello stile di metà Ottocento della regina Anna, sulla proprietà dell’osservatorio navale di Washington, DC. Ed era davvero bianca, per la maggior parte.
Luke ne sapeva qualcosa. Per decenni era stata la residenza ufficiale della vicepresidente degli Stati Uniti. Adesso, e per il prossimo futuro, era la casa e l’ufficio della presidente.
Lo schermo tornò alla sala multimediale. Mentre Luke guardava salì sul podio la presidente stessa: Susan Hopkins, l’ex vicepresidente, che aveva prestato giuramento proprio quella mattina. Era la prima volta che si rivolgeva al popolo americano come presidente. Indossava un completo blu scuro e aveva i capelli biondi acconciati in un caschetto. Il completo sembrava ingombrante, il che significava che sotto indossava anche un giubbotto antiproiettile.
Aveva gli occhi allo stesso tempo severi e dolci – gli addetti stampa probabilmente le avevano detto di apparire arrabbiata, coraggiosa e speranzosa contemporaneamente. Un eccellente truccatore aveva coperto le bruciature che aveva in faccia. A meno che non si sapesse dove guardare, non si vedevano. Susan, come sempre era stata per tutta la sua vita, era la donna più bella della stanza.
Il suo curriculum era impressionante. Includeva supermodella teenager, giovane moglie di un miliardario della tecnologia, madre, senatrice degli Stati Uniti in California, vicepresidente e adesso, improvvisamente, presidente. Thomas Hayes, l’ex presidente, era morto in un ardente inferno sotterraneo da cui Susan stessa era stata fortunata a sopravvivere.
Luke il giorno prima le aveva salvato la vita – due volte.
Tolse il muto dal computer.
Era circondata da pannelli di vetro antiproiettile. Dieci agenti dei servizi segreti erano sul palco con lei. La folla di reporter nella stanza le stava facendo una standing ovation. Gli annunciatori televisivi parlavano sottovoce. La telecamera fece una panoramica, trovando così il marito di Susan, Pierre, e le loro due figlie.
Di nuovo sulla presidente: teneva le mani alzate, chiedendo il silenzio. Nonostante la sua stessa volontà, sorrise luminosa. La folla eruttò di nuovo. Quella era la Susan Hopkins che conoscevano loro: l’entusiasta reginetta eccessivamente zelante dei talk show giornalieri, delle cerimonie durante le quali si tagliavano nastri e dei raduni politici. Adesso le sue piccole mani si strinsero a pugno e le alzò sopra la testa, quasi come un arbitro che indica un touchdown. Il pubblico era rumoroso, e si fece ancora più rumoroso.
La telecamera fece una panoramica. La recidiva Washington, DC e i giornalisti nazionali, uno dei più stanchi gruppi di persone che l’uomo conosca, in piedi con gli occhi umidi. Alcuni piangevano apertamente. Luke scorse per un attimo Ed Newsam in un gessato scuro, appoggiato alle stampelle. Era stato invitato anche Luke, ma aveva preferito rimanere in quella stanza d’ospedale. Non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di andare da qualsiasi altra parte.
Susan andò al microfono. Il pubblico si quietò abbastanza da sentirla. Mise le mani sul podio, come per recuperare l’equilibrio.
“Siamo ancora qui,” disse con la voce che tremava.
Ora la folla esplose.
“E la sapete una cosa? Non ce ne andremo da nessuna parte!”
Dagli auricolari uscì un rumore assordante. Luke abbassò il volume.
“Voglio…” disse Susan, e poi si fermò di nuovo. Aspettò. L’esultanza andò ancora avanti. Aspettò ancora. Si allontanò dal microfono, sorrise, e disse qualcosa all’altissimo agente dei servizi segreti che le stava accanto. Luke lo conosceva un po’. Si chiamava Charles Berg. Anche lui le aveva salvato la vita, ieri. Nel giro di diciotto ore, la vita di Susan era stata a rischio quasi senza soluzione di continuità.
Quando il rumore della folla si fu un po’ calmato, Susan tornò sul podio.
“Prima di parlare, voglio che facciate qualcosa con me,” disse. “Va bene? Voglio cantare ‘God Bless America.’ È sempre stata una delle mie canzoni preferite.” Le si spezzò la voce. “E voglio cantarla stasera. Volete cantare con me?”
La folla ruggì il suo assenso.
E poi lei cantò. Da sola, con vocina inesperta, cantò. Non c’era una famosa pop star con lei. Non c’erano musicisti di fama mondiale ad accompagnarla. Cantava, solo lei, davanti a una stanza piena di gente e con centinaia di milioni di persone che la guardavano in tutto il mondo.
“‘God bless America,’” cominciò. Sembrava una ragazzina. “‘Land that I love.’”
Era come osservare qualcuno camminare su un filo sospeso a grande altezza tra due edifici. Era un atto di fede. A Luke si strinse la gola.
La folla non la lasciò lì da sola. Istantaneamente prese a cantare. Delle voci migliori, più forti, si unirono alla sua. E lei le conduceva.
Fuori dalla sala buia, da qualche parte nel corridoio di un ospedale chiuso, la gente al lavoro prese a cantare.
Nel letto accanto a Luke, Becca si mosse. Aprì gli occhi e trasalì. Girò rapida la testa a sinistra e a destra. Sembrava sul punto di saltare giù dal letto. Vide Luke, ma i suoi occhi non mostrarono segno di averlo riconosciuto.
Luke si tolse gli auricolari. “Becca,” disse.
“Luke?”
“Sì.”
“Mi stringi?”
“Sì.”
Chiuse il laptop. Scivolò nel letto accanto a lei. Il suo corpo era caldo. Le fissò il viso, bello come quello di una top model. Lei si schiacciò contro di lui. Lui la tenne tra le sue forti braccia. La tenne vicina – quasi come se volesse diventare lei.
Questo era meglio che guardare la presidente.
In fondo al corridoio, e ovunque nel Paese, nei bar, nei ristoranti, nelle case e nelle automobili, il popolo cantava.
CAPITOLO QUATTRO
7 giugno
20:51
Galveston National Laboratory, campus dell’Università del Texas, Medicina – Galveston, Texas
“Lavori di nuovo fino a tardi, Aabha?” disse una voce dal Paradiso.
L’esotica donna dai capelli neri risultava quasi eterea nella sua bellezza. In effetti il suo nome era una parola hindi che significava bella.
Sussultò per la voce, e sobbalzò involontariamente. Si alzò in piedi, con addosso una bianca tuta ermetica di isolamento, nei recessi dell’edificio con livello 4 di biosicurezza del Galveston National Laboratory. La tuta che la proteggeva la rendeva anche simile a un’astronauta sulla luna. Odiava sempre indossarla. Vi si sentiva intrappolata. Ma era ciò che il suo lavoro richiedeva.
La tuta era attaccata a un tubo giallo che scendeva dal soffitto. Il tubo pompava continuamente aria pulita dall’esterno dell’edificio nella tuta di isolamento. Persino in caso di rottura della tuta la pressione positiva esercitata dalla pompa assicurava che l’aria del laboratorio non potesse entrarvi.
I BSL-4 erano i laboratori con la maggior sicurezza al mondo. Lì dentro gli scienziati studiavano organismi mortali e altamente infettivi che costituivano una seria minaccia alla sicurezza e alla salute pubbliche. Proprio in quel momento, nella sua mano guantata di azzurro, Aabha teneva nel palmo una fiala sigillata del virus più pericoloso noto all’uomo.
“Mi conosci,” disse. La tuta era provvista di un microfono che trasportava la sua voce all’addetto alla sicurezza che la osservava dal televisore a circuito chiuso. “Sono un animale notturno.”
“Lo so. Ti ho vista spesso qui in giro a ore molto più tarde di questa.”
Lei si immaginò l’uomo che la stava osservando. Si chiamava Tom. Era sovrappeso, di mezz’età, divorziato, credeva lei. Solo loro due, soli dentro a quel grande edificio vuoto di notte, e lui aveva molto poco da fare oltre che guardarla. Le dava i brividi pensarci su troppo.
Aveva appena preso la fiala dal freezer. Muovendosi con cautela si avvicinò alla cappa di sicurezza biologica, dove in circostanze normali avrebbe aperto la fiala per studiarne il contenuto.
Quella sera le circostanze non erano normali. Quella sera era il culmine di anni di preparazione. Quella sera era quella che gli americani chiamavano Caccia Grossa.
I suoi colleghi del laboratorio, incluso Tom il guardiano, pensavano che la giovane e bellissima donna si chiamasse Aabha Rushdie.
Non era così.
Pensavano che fosse nata in una famiglia benestante nella grande città di Delhi, nell’India del nord, e che la sua famiglia si fosse trasferita a Londra quando era una ragazzina. Era ridicolo. Non le era mai accaduto nulla del genere.
Pensavano che avesse preso il Ph.D. in microbiologia e che si fosse addestrata esaurientemente per i BSL-4 al King’s College di Londra. Non era vero neanche questo, ma avrebbe anche potuto esserlo. Ne sapeva abbastanza su come maneggiare batteri e virus quanto un qualsiasi candidato per il Ph.D. – se non di più.
La fiala che teneva in mano conteneva un campione liofilizzato del virus Ebola, che negli ultimi anni aveva portato tanto scompiglio in Africa. Se si fosse trattato semplicemente di un virus Ebola preso da una scimmia, da un pipistrello, o persino da una vittima umana… già così sarebbe stato molto, molto pericoloso da maneggiare. Ma c’era tanto altro da aggiungere a quella storia.
Aabha guardò l’orologio digitale sul muro. Le 20:54. Mancava un minuto. Le serviva solo un altro po’ di tempo.
“Tom?” disse.
“Sì?” disse la voce.
“Hai visto la presidente in tv ieri sera?”
“Sì.”
Aabha sorrise. “Che ne pensi?”
“Che ne penso? Be’, penso che abbiamo dei problemi.”