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L’unico motivo che gli veniva in mente per la presenza di Watson era che l’agenzia lo avesse mandato con lo scopo di prenderlo sotto custodia e tenerlo d’occhio.
Scosse la testa. “Non andrò a Langley.”
“Nemmeno io,” rispose l’altro uomo. “Sono qui per aiutarti. Sali in auto.” Si accomodò nel sedile del guidatore.
Reid esitò per un breve istante. Doveva mettersi in strada, ma non aveva nessuna destinazione. Gli serviva una traccia. E non aveva motivo di credere che Watson gli stesse mentendo. Era uno degli agenti più onesti e leali che avesse mai incontrato.
Salì nel sedile del passeggero accanto a lui. Con il braccio nella fasciatura, l’altro agente dovette piegare tutto il corpo per inserire la prima e girare il volante con una mano. Si misero subito in moto, superando il limite di velocità ma non abbastanza da attirare l’attenzione.
L’uomo lanciò uno sguardo alla borsa nera in grembo a Reid. “Dove avevi intenzione di andare?”
“Devo trovarle, John.” Gli si annebbiò la vista al pensiero delle sue due figlie là fuori, sole, nelle mani di un folle assassino.
“Senza supporto? Disarmato e con un cellulare civile?” L’agente Watson scosse la testa. “Sai che non è una buona idea.”
“Ho già parlato con Cartwright,” disse amareggiato Reid.
Watson sbuffò. “Pensi che il vice direttore fosse da solo mentre parlava con te? Credi che fosse su una linea sicura, in un ufficio a Langley?”
Lui si accigliò. “Non sono sicuro di capire. Mi stai suggerendo che Cartwright in realtà vuole che io faccia esattamente quello che mi ha detto di non fare?”
L’altro fece spallucce, senza togliere lo sguardo dalla strada. “Più che altro sa che lo faresti in ogni caso, che lui lo voglia oppure no. Ti conosce meglio di molti altri. Per come la vede Cartwright, è meglio evitare un altro problema accertandosi che tu abbia il supporto che ti serve.”
“E ha mandato te,” mormorò Reid. L’agente non lo confermò né lo negò, ma non era necessario. Il vice direttore sapeva che Zero avrebbe cercato le figlie; la loro conversazione era stata a uso e consumo delle altre orecchie a Langley. Tuttavia, sapendo quanto Watson fosse fissato con il protocollo, non capiva perché lo volesse aiutare. “E tu? Perché lo stai facendo?”
L’altro uomo scrollò le spalle. “Ci sono un paio di bambine là fuori. Spaventate, sole e in mani cattive. Non mi piace molto.”
Non era una vera risposta, e forse non era neanche tutta la verità, ma Reid sapeva che dallo stoico agente non avrebbe cavato altro.
Non poteva evitare di pensare che in parte Cartwright avesse deciso di aiutarlo perché si sentiva in colpa. Lui gli aveva già chiesto due volte di mettere le figlie in una casa sicura, e invece il vice direttore aveva addotto scuse sulla mancanza di agenti e di risorse… e ora erano svanite.
Avrebbe potuto evitarlo. Avrebbe potuto aiutarlo. Reid si sentì di nuovo accendere dalla rabbia e ancora una volta la soffocò. Non era il momento per quello. Adesso doveva trovare le sue figlie. Nient’altro aveva importanza.
Le troverò. Le riprenderò. E ucciderò Rais.
Reid fece un profondo respiro. Inalò dal naso ed espirò dalla bocca. “Quindi per ora che cosa sappiamo?”
Watson scosse la testa. “Non molto. L’abbiamo appena scoperto, grazie alla tua telefonata alla polizia. Ma l’agenzia è già al lavoro. Dovremmo avere una pista in poco tempo.”
“Chi ci sta lavorando? Qualcuno che conosco?”
“Il direttore Mullen ha affidato l’indagine alle Operazioni Speciali, quindi se ne sta occupando Riker…”
Reid si ritrovò a sbuffare di nuovo. Meno di quarantotto ore prima gli era tornato alla mente un ricordo, uno della sua vita passata come Kent Steele. Era ancora nebuloso e frammentario, ma c’entrava una cospirazione, un qualche segreto del governo. Una guerra in arrivo. Due anni prima aveva saputo di cosa si trattava—o almeno ne aveva saputo una parte—ed era stato alla ricerca di altri indizi. Nonostante la mancanza di chiarezza, era stato certo che fossero coinvolti diversi agenti della CIA.
In cima alla lista c’era l’appena nominata vice direttrice Ashleigh Riker, capo del gruppo Operazioni Speciali. E a prescindere dalla sua mancanza di fiducia nei confronti della donna, non credeva affatto che lei si sarebbe impegnata per ritrovare le sue figlie.
“Ha assegnato il caso a un ragazzo nuovo, giovane ma in gamba,” continuò Watson. “Si chiama Strickland. È un ex Ranger dell’esercito, un eccellente cacciatore. Se qualcuno può trovare il colpevole è lui. A parte te, ovviamente.”
“Io so già chi è stato, John.” Scosse amareggiato il capo. Pensò subito a Maria; la donna era un’agente come loro, un’amica, e forse qualcosa di più. Era anche una delle poche persone di cui Reid si fidava. L’ultima volta che aveva avuto sue notizie, Maria Johansson era stata in Russia a inseguire Rais. “Devo contattare Johansson. È giusto che sappia che cosa è successo.” Sapeva che la CIA non l’avrebbe richiamata fino a quando lui non avesse trovato le prove che dimostravano la colpevolezza dell’assassino di Amun.
“Non puoi farlo, non mentre è sul campo,” rispose Watson. “Ma posso cercare di entrare in contatto con lei in qualche altra maniera. Le dirò di chiamarti non appena riuscirà a trovare una linea sicura.”
Reid annuì. Non gli piaceva il pensiero che Maria fosse irraggiungibile, ma non poteva farci niente. Durante le operazioni non si potevano usare i cellulari personali, e la CIA monitorava le sue comunicazioni.
“Hai intenzione di dirmi dove stiamo andando?” domandò. Stava iniziando a innervosirsi.
“Da qualcuno che può aiutarci. Ecco.” Gli gettò un piccolo telefono a conchiglia argentato, uno usa e getta, che la CIA non avrebbe potuto tracciare a meno che non avesse saputo della sua esistenza e a che numero rispondeva. “Lì dentro ci sono alcuni contatti. Uno è per la mia linea sicura. Un altro è quello di Mitch.”
Reid batté le palpebre. Non conosceva nessun Mitch. “Chi diavolo sarebbe?”
Invece di rispondere, Watson guidò il SUV fuori strada e nel vialetto di un’officina chiamata Third Street Garage. Parcheggiò il veicolo dentro il garage aperto. Non appena spense il motore, il portellone del negozio si chiuse dietro di loro.
Entrambi uscirono dalla macchina e Reid cercò di abituare i propri occhi all’oscurità. Poi le luci si accesero, brillanti lampadine fluorescenti che gli riempirono la vista di puntini luminosi.
Accanto al SUV, in un secondo spazio nel garage, c’era un’auto nera, un modello Trans Am degli anni ’80. Non era una macchina nuova ma la vernice era lucida e sembrava data da poco.
Insieme a loro c’era anche un uomo. Indossava una tuta di un colore blu scuro che nascondeva a malapena le macchie di grasso. I suoi lineamenti erano oscurati da un’arruffata barba castana e da un cappellino rosso da baseball con i bordi scoloriti dal sudore, che portava basso sulla fronte. Il meccanico si ripulì lentamente le mani su uno straccio lurido e macchiato d’olio, fissando Reid.
“Lui è Mitch,” disse Watson. “È un amico.” Gettò un mazzo di chiavi al collega e indicò la Trans Am. “È un modello vecchio, quindi è senza GPS. È affidabile. Sono anni che Mitch la sistema, quindi vedi di non distruggerla.”
“Grazie.” Aveva sperato in qualcosa di meno appariscente, ma avrebbe accettato tutto l’aiuto che gli avrebbero fornito. “Che posto è questo?”
“Questo? È un garage, Kent. Qui aggiustano le auto.”
Reid roteò gli occhi. “Sai che cosa voglio dire.”
“L’agenzia sta già cercando di tenerti d’occhio,” spiegò Watson. “Proveranno a rintracciarti in ogni modo possibile. A volte nel nostro mestiere sono utili degli… amici esterni, per così dire.” Indicò il corpulento meccanico. “Mitch è una risorsa della CIA. L’ho reclutato quando ero alla National Resources Division. È esperto nel, ehm, ‘recupero veicoli’. Se devi andare da qualche parte, ti basta chiamare lui.”
L’agente annuì. Non sapeva che il collega si fosse occupato di reclutare risorse prima di iniziare a lavorare sul campo. In realtà doveva ammettere che non sapeva neanche se John Watson era il suo vero nome.
“Andiamo, ho delle cose per te.” L’uomo aprì il bagagliaio e gli mostrò il contenuto di una sacca nera.
Reid fece un passo indietro per lo stupore: all’interno c’era ogni genere di dispositivo utile, inclusi registratori, GPS, uno scanner di frequenze e due pistole, una Glock 22 e la sua arma di scorta preferita, una Ruger LC9.
Scosse sbalordito la testa. “Come hai trovato questa roba?”
Watson scrollò le spalle. “Un amico comune mi ha dato una mano.”
Non dovette chiedergli di chi stesse parlando. Bixby. L’eccentrico ingegnere della CIA che passava la maggior parte delle sue ore in un laboratorio di ricerca e sviluppo sotterraneo sotto Langley.
“Tu e lui vi conoscete da molto, anche se non te lo ricordi,” gli spiegò l’altro uomo. “Ma ha detto che avrei dovuto ricordarti di qualche test?”
Reid annuì. Bixby era uno degli inventori del soppressore sperimentale di memoria che gli avevano istallato nella testa, e l’ingegnere gli aveva chiesto di fare qualche test su di lui.
Può aprirmi il cranio se significa riavere indietro le mie figlie. Un’altra ondata travolgente di emozione lo assalì, al pensiero di tutte quelle persone disposte a violare leggi e a rischiare la vita, anche se lui non riusciva a ricordarsi affatto di loro. Batté le palpebre per scacciare le lacrime che gli erano salite agli occhi.
“Grazie, John. Davvero.”
“Non ringraziami ancora. Abbiamo appena iniziato.” Il telefono di Watson gli vibrò nella tasca. “Deve essere Cartwright. Dammi un minuto.” Si ritirò in un angolo per rispondere alla chiamata a bassa voce.
Reid richiuse la borsa e il bagagliaio. Allo stesso tempo il meccanico grugnì, emettendo un suono tra un borbottio e un colpo di tosse.
“Ha… ha detto qualcosa?”
“Ho detto che mi spiace. Per le sue figlie.” L’espressione di Mitch era ben nascosta dalla barba folta e dal cappello, ma il tono della sua voce sembrava sincero.
“Sa già… di loro?”
L’uomo annuì. “Sono già apparse al telegiornale. Le loro foto e una linea verde da chiamare in caso qualcuno le avvisti.”
Reid si morse il labbro. Non aveva pensato alla stampa e alla pubblicità… e all’invariabile collegamento a lui. Subito pensò a Linda, la zia delle ragazze che viveva a New York. Quel genere di notizie si spargevano in fretta, e se fosse arrivata fino a lei sarebbe morta di spavento. Avrebbe cominciato a tempestarlo di telefonate per ricevere notizie, ma inutilmente.
“Abbiamo qualcosa,” annunciò Watson all’improvviso. “Il pick-up di Thompson è stato ritrovato in un’area di sosta a un centinaio di chilometri da qui sulla I-95. C’era il cadavere di una donna sulla scena. Le hanno tagliato la gola e rubato l’auto e la carta d’identità.”
“Quindi non sappiamo chi fosse?”
“Non ancora ma ci stiamo lavorando. Ho un tecnico che sta ascoltando le onde radio della polizia e tenendo d’occhio i satelliti. Non appena qualcuno saprà qualcosa, ci informeranno.”
Reid grugnì. Senza un documento d’identità non sarebbero riusciti a trovare il suo mezzo. Non era una gran pista, ma almeno era qualcosa e lui non vedeva l’ora di mettersi in strada. Aprì la porta della Trans Am e chiese: “Quale uscita?”
Watson scosse la testa. “Non andare là, Kent. Sarà pieno di poliziotti e sono sicuro che anche l’agente Strickland sia diretto sulla scena.”
“Farò attenzione.” Non si fidava della polizia e di quell’agente novellino. Avrebbe trovato più indizi di loro. Oltretutto se Rais voleva giocarsela come credeva, avrebbe potuto esserci un’altra traccia sotto forma di provocazione, un insulto inteso solo per lui.
Ripensò alla foto delle sue figlie, quella che Rais gli aveva mandato dal telefono di Maya, e gli tornò in mente una cosa. “Ecco, tieni questo per me.” Gli affidò il suo cellulare privato. “Rais ha il numero di Sara, e io ho dirottato le sue chiamate sul mio. Se dovessi ricevere qualsiasi cosa, voglio esserne informato.”
“Certo. La scena del crimine è all’uscita sessantatré. Ti serve altro?”
“Non dimenticarti di dire a Maria di chiamarmi.” Si accomodò dietro il volante dell’auto sportiva e gli fece un cenno di saluto. “Grazie per tutto l’aiuto.”
“Non lo sto facendo per te,” gli ricordò l’altro impassibile. “Lo faccio per quelle ragazzine. E Zero? Se mi scoprono, se la mia copertura venisse compromessa, o se capiscono che cosa sto facendo con te, mi tiro fuori. Hai capito? Non mi posso permettere di finire sulla lista nera dell’agenzia.”
La reazione istintiva di Reid fu uno scatto d’ira—qui si tratta delle mie bambine e lui ha paura di finire sulla lista nera?—ma lo soffocò in fretta. Watson era un alleato inaspettato in quella situazione, e stava rischiando grosso per aiutarlo. O meglio, non per aiutare lui ma due bambine che aveva incontrato solo brevemente.
Annuì serio. “Lo capisco.” Rivolto al meccanico solenne e di poche parole aggiunse: “Grazie, Mitch. Apprezzo il suo aiuto.”
L’uomo barbuto grugnì in risposta e premette un pulsante per aprire il portello del garage mentre Reid metteva in moto la Trans Am. Gli interni dell’auto erano in pelle nera, puliti e dall’odore gradevole. Il motore faceva le fusa sotto il cofano. Un modello del 1987, lo informò il suo cervello. Un motore V8 da 5.0 litri. Almeno duecentocinquanta cavalli.
Uscì dal Third Street Garage e si diresse verso l’autostrada, con le mani strette attorno al volante. Una ferrea determinazione aveva preso il posto degli orrori che gli avevano riempito la mente fino a poco prima. La polizia aveva creato un numero verde e stava indagando. La CIA era al lavoro per identificare il rapitore. Adesso lui stesso si era messo in moto per ritrovare le ragazze.
Sto arrivando. Papà sta venendo a prendervi.
E a occuparsi di lui.
CAPITOLO CINQUE
“Dovreste mangiare.” L’assassino indicò il cartone di cibo cinese d’asporto sul comodino accanto al letto.
Maya scosse la testa. Ormai il cibo si era raffreddato, e comunque non aveva fame. Era seduta sul materasso con le ginocchia sollevate, la sorella appoggiata a lei con la testa sul suo grembo. Le due ragazzine erano ammanettate insieme, il polso sinistro di Maya a quello destro di Sara. Lei non aveva idea da dove l’assassino avesse preso le manette, ma le aveva avvertite diverse volte che se una di loro avesse tentato di scappare o di far rumore, l’altra ne avrebbe subito le conseguenze.
Rais era seduto su una poltrona accanto alla porta. Erano in una squallida stanza di motel dai tappeti arancioni e le mura gialle. C’era odore di muffa e il bagno puzzava di candeggina. Erano lì da ore; il vecchio orologio appoggiato vicino al letto diceva in numeri rossi a LED che erano le due e mezza del mattino. La televisione era accesa, sintonizzata su un notiziario con il volume basso.
Una station wagon bianca era parcheggiata direttamente davanti alla porta, a un metro di distanza; l’assassino l’aveva rubata nella notte da un rivenditore di macchine usate. Era stata la terza volta che cambiavano auto quel giorno. Prima il pick-up di Thompson poi la berlina blu e ora a quel SUV bianco. Ogni volta che lo facevano, Rais cambiava direzione, prima andando a sud, poi tornando a nord, e infine girando a nord-est verso la costa.
Maya aveva capito che cosa stava facendo: era il gioco del gatto con il topo. Lasciava i veicoli rubati in posti diversi in modo che le autorità non avessero idea di dove stessero andando. La loro stanza di motel era a meno di quindici chilometri da Bayonne, poco distante dal confine con New Jersey e New York. Il motel stesso era un edificio lungo e basso talmente malconcio e disgustoso che passandoci davanti si aveva l’impressione che fosse chiuso da anni.
Nessuna delle due ragazze aveva dormito molto. Sara aveva schiacciato qualche pisolino tra le braccia di Maya, perdendo i sensi per venti o trenta minuti alla volta prima di svegliarsi di colpo con un singhiozzo, sfuggendo ai propri sogni per ricordarsi dove fosse in realtà.
Maya aveva lottato contro la stanchezza, cercando di rimanere vigile il più a lungo possibile. Sapeva che a un certo punto anche Rais avrebbe dovuto dormire, e ciò gli avrebbe lasciato qualche minuto prezioso per provare a scappare. Ma il motel era nel bel mezzo di una zona industriale. Quando si erano fermati si era accorta che non c’erano case vicine e a quell’ora di notte nessun negozio era aperto. Non era neanche sicura di aver visto qualcuno nell’ufficio dell’albergo. Non sarebbero potute andare da nessuna parte. Si sarebbero perse nella notte, rallentate dalle manette.
Alla fine aveva ceduto alla fatica e a malincuore si era addormentata. Dopo meno di un’ora si era svegliata di soprassalto, e poi aveva sobbalzato di nuovo quando aveva visto Rais seduto in poltrona a mezzo metro da lei.
La stava fissando con concentrazione, i suoi occhi sgranati. La fissava e basta.
Le fece accapponare la pelle… fino a quando non passò un intero minuto, e poi un altro. Maya lo fissò a sua volta, lo spavento mescolato alla curiosità. Poi capì.
Dorme con gli occhi aperti.
Non sapeva se trovava più inquietante quello o svegliarsi sotto il suo sguardo attento.
Ma poi Rais batté le palpebre e lei dovette trattenere un ennesimo sussulto, con il cuore che le batteva forte nel petto.
“Nervi facciali danneggiati,” spiegò l’uomo a bassa voce, quasi in un bisbiglio. “Ho sentito che può essere piuttosto destabilizzante.” Indicò il cartone dell’asporto cinese che aveva ordinato in camera ore prima e ripeté. “Dovresti mangiare.”
Lei scosse la testa, stringendosi Sara in grembo.
Alla televisione a basso volume stavano ripetendo le principali notizie della giornata. Un’organizzazione terroristica era stata ritenuta responsabile del rilascio di un ceppo letale del virus del vaiolo in Spagna e altre parti d’Europa. Il loro leader, insieme al virus e vari membri dell’organizzazione, era stato preso e ora era in custodia. Quel pomeriggio gli Stati Uniti avevano rimosso ufficialmente il divieto di viaggio internazionale verso tutti i paesi, a eccezione del Portogallo, la Spagna e la Francia, dove si continuavano a trovare casi isolati del vaiolo mutato. Ma tutti sembravano certi che la World Health Organization avesse la situazione sotto controllo.
Maya aveva sospettato che il padre fosse stato mandato ad aiutare in quel caso. Si chiese se fosse stato lui a catturare il capo dell’organizzazione, e se fosse già tornato nel paese.
Si domandò anche se avesse già trovato il corpo del signor Thompson e se si fosse accorto che erano state rapite. O se chiunque si fosse accorto della loro sparizione.
Rais non si muoveva dalla sua poltrona gialla. Aveva un cellulare appoggiato su un bracciolo. Era un modello vecchio, praticamente preistorico per gli standard attuali, che serviva solo a chiamare e a mandare messaggi. Un cellulare usa e getta, così Maya li aveva sentiti chiamare nelle serie televisive. Non aveva un collegamento a internet né un GPS. Le sue serie le avevano insegnato che ciò significava che poteva essere rintracciato solo con il numero, che quindi bisognava avere.
A quanto pareva l’assassino stava aspettando qualcosa. Una chiamata o un messaggio. Maya voleva disperatamente sapere dove stavano andando, o anche solo se avevano una destinazione. Stava cominciando a pensare che Rais volesse che suo padre li trovasse, li rintracciasse, ma in ogni caso quell’uomo non pareva avere fretta di fare la sua mossa. Qual era il suo gioco? Avrebbe continuato a rubare auto e a cambiare direzione, eludendo le autorità nella speranza che suo padre li trovasse per primi? Avrebbero continuato a muoversi da un posto all’altro fino allo scontro finale?
All’improvviso uno squillo monotono si alzò dal cellulare usa e getta accanto a lui. Sara sobbalzò leggermente tra le sue braccia al suono acuto.
“Pronto.” Rais rispose con tono piatto. “Ano.” Si alzò dalla poltrona per la prima volta in tre ore, passando dall’inglese a una lingua sconosciuta. Maya conosceva solo l’inglese e il francese, e sapeva riconoscere qualche altra lingua sentendo parole e accenti, ma quella le mancava. Era gutturale, ma non del tutto sgradevole.
Russo? pensò. No. Polacco, forse. Non aveva senso tirare a indovinare. Non poteva esserne sicura, e saperlo non l’avrebbe aiutata a capire quello che stava dicendo.
Lo stesso origliò, notando l’uso frequente di suoni “z” e “-ski”, cercando di captare parole simili all’inglese, anche se non sembravano essercene.
Riuscì a identificare solo un nome, che le fece gelare il sangue nelle vene.
“Dubrovnik,” disse l’assassino, in tono d’assenso.
Dubrovnik? La geografia era una delle sue materie preferite; Dubrovnik era una città nel sud-ovest della Croazia, un porto famoso e una popolare destinazione turistica. Ma la cosa più importante era ciò che quella parola implicava.
Voleva dire che Rais aveva intenzione di portarle fuori dal paese.
“Ano,” ripeté (che sembrava una conferma; Maya intuì che fosse un “sì”). E poi: “Port Jersey.”
Durante tutta la conversazione udì solo quelle due parole inglesi, oltre a “pronto”, e le riconobbe facilmente. Il loro motel era già vicino a Bayonne, a un tiro di schioppo dal porto industriale chiamato Port Jersey. Lo aveva visto diverse volte, mentre attraversava il ponte per andare verso il Jersey da New York o viceversa. Era un vasto spazio pieno di container colorati per il trasporto merci, impilati uno sopra l’altro. Li aveva osservati svanire nella stiva buia delle grandi navi che li avrebbero trasportati dall’altra parte dell’oceano.
Il cuore le batté all’impazzata contro le costole. Le voleva portare fuori dagli Stati Uniti, caricandole a Port Jersey per un viaggio fino alla Croazia. E da lì… non aveva idea, e non l’avrebbe avuta nessun altro. Non avrebbero più potuto ritrovarle.
Non poteva permettere che accadesse. La sua determinazione a lottare si rafforzò; la decisione di ostacolare quella situazione tornò alla vita con un ruggito.
Il trauma causato dall’immagine di Rais che tagliava la gola alla donna nel bagno dell’area di sosta persisteva; lo rivedeva accadere ogni volta che chiudeva gli occhi. Lo sguardo morto e vuoto. La pozza di sangue che le arrivava quasi ai piedi. Ma poi toccò i capelli della sorella e capì che avrebbe accettato lo stesso destino se significava allontanare Sara da quell’uomo.
Rais continuò la sua conversazione nella lingua straniera, pronunciando frasi brevi e secche. Si voltò per scostare leggermente le pesanti tende, solo di un centimetro o due, per sbirciare fuori verso il parcheggio.
Le stava dando la schiena, forse per la prima volta da quando erano arrivati allo squallido motel.
Maya allungò una mano ed estrasse con molta attenzione il cassetto del comodino. Era l’unica cosa che riusciva a raggiungere, ammanettata alla sorella e senza alzarsi dal letto. Spostò nervosamente lo sguardo dalla schiena del suo rapitore al cassetto.
Dentro c’era una Bibbia, un volume vecchio con il dorso spaccato e quasi staccato. E vicino c’era una semplice biro blu.
La prese e chiuse subito il cassetto. Quasi nello stesso momento Rais si rigirò. Maya si paralizzò, stringendo la penna nel pugno chiuso.
Ma l’uomo non le stava prestando attenzione. Sembrava annoiato dalla telefonata, e ansioso di chiuderla. Qualcosa alla televisione attirò il suo sguardo per qualche secondo e la ragazza si nascose la biro nell’elastico in vita dei suoi pantaloni in flanella.
L’assassino grugnì un saluto poco entusiasta e spense il cellulare, buttandolo sul cuscino della poltrona. Si voltò verso di loro, studiandole una per una. Maya fissò dritta davanti a sé, con occhi più vacui possibile, fingendo di guardare il notiziario. Apparentemente soddisfatto, lui riprese posto in poltrona.
La ragazza accarezzò i capelli della sorella con la mano libera, mentre Sara fissava la televisione, o forse il vuoto, con gli occhi socchiusi. Dopo l’incidente nel bagno della stazione di servizio le erano servite ore per smettere di piangere, ma ormai giaceva immobile, con sguardo sperso e appannato. Sembrava svuotata.