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“Il SUV bianco sparito,” azzardò Reid.
“Esatto,” confermò Watson. “Abbandonata nel parcheggio di un postaccio chiamato Starlight Motel.”
Nel New Jersey? La sua speranza svanì. Rais aveva portato le ragazze ancora più a nord. Il suo viaggio di due ore era appena diventato di tre ore e mezza se voleva aver qualche speranza di raggiungerlo. Forse le vuole portare a New York. Una grande area metropolitana, dove è facile nascondersi. Reid doveva avvicinarglisi prima che ciò succedesse.
“L’agenzia non sa ancora queste informazioni,” continuò l’altro agente. “Non hanno motivo di collegare la Caddy rubata alle tue figlie. Cartwright mi ha appena detto che stanno seguendo gli indizi che hanno trovato e stanno mandando Strickland a nord del Maryland. Ma è solo una questione di tempo. Se arrivi prima tu avrai un vantaggio su di lui.”
Reid rifletté per un istante. Non si fidava di Riker, quello era ovvio. In effetti era ancora indeciso anche sul suo capo, il vice direttore Cartwright. Ma… “Watson, che cosa sai di questo agente Strickland?”
“L’ho incontrato solo una o due volte. È giovane, ansioso di compiacere, ma sembra un brav’uomo. Magari persino degno di fiducia. Perché, che cosa hai in mente?”
“Penso che…” Reid non riusciva a credere che cosa stava per suggerire, ma era per le sue figlie. La loro sicurezza era della massima importanza, a prescindere dal costo percepito. “Penso che non dovremmo essere gli unici a sapere queste informazioni. Ci serve tutto l’aiuto possibile, e anche se non mi fido che Riker faccia la cosa giusta, magari Strickland sarà dalla nostra parte. Potresti fargli avere questi dati in via anonima?”
“Credo di sì, certo. Dovrei farli filtrare attraverso uno dei miei collegamenti, ma è fattibile.”
“Bene. Deve sapere quello che sappiamo noi, ma solo dopo che io sarò stato lì a controllare la situazioni con i miei occhi. Non lo voglio in vantaggio rispetto a me. Deve solo essere aggiornato.” Più nello specifico, voleva che qualcuno oltre a Cartwright sapesse quello che avevano scoperto. Perché ho bisogno che qualcuno riesca, nel caso io dovessi fallire.
“Se lo dici tu, certo.” Watson rimase in silenzio per un momento. “Kent, c’è anche un’altra cosa. All’area di sosta, Strickland ha trovato qualcosa…”
“Cosa? Che cosa ha trovato?”
“Capelli,” rispose lui. “Capelli castani, con i follicoli ancora attaccati. Strappati alla radice.”
A Reid si seccò la gola. Non credeva che Rais volesse uccidere le sue figlie, non poteva permettersi di pensarlo. All’assassino servivano vive se voleva che Kent Steele lo trovasse.
Ma quella certezza gli offriva ben poca consolazione mentre la sua mente veniva invasa da immagini sgradite, scene del mostro che afferrava le sue bambine per i capelli, costringendole ad andare dove voleva. Facendo loro del male. Se le avesse ferite in qualche modo, Reid gliel’avrebbe fatta pagare.
“Strickland non li ha ritenuti importanti,” continuò Watson, “ma la polizia ne ha trovati altri nel sedile posteriore dell’auto della donna morta. Come se qualcuno li avesse lasciati lì di proposito. Come un…”
“Come un indizio,” mormorò Reid. Era stata Maya. Lo sapeva. Era intelligente, tanto da aver lasciato appositamente indietro qualcosa di sé. Sua figlia sapeva che la scena sarebbe stata controllata con cura e che i suoi capelli sarebbero stati ritrovati. Era viva… o almeno lo era stata quando avevano attraversato l’area di sosta e quell’auto. Era orgoglioso della furbizia di Maya e allo stesso tempo addolorato che fosse stata costretta a inventarsi a un trucco del genere.
Oddio. Si rese subito conto di qualcos’altro: se Maya aveva lasciato di proposito i capelli nel bagno della stazione di servizio, allora era stata lì quando era avvenuto l’omicidio. Aveva guardato quel mostro che uccideva una donna innocente. E se la figlia maggiore era stata lì… doveva esserci stata anche Sara. Erano rimaste entrambe segnate, a livello mentale ed emotivo, dagli eventi di febbraio sul pontile; non voleva nemmeno immaginare al trauma che dovevano aver subito ora.
“Watson, devo arrivare in New Jersey in fretta.”
“Ci sto lavorando,” rispose l’agente. “Rimani lì tranquillo, arriverà tra un minuto.”
“Che cosa arriverà?”
Watson rispose, ma le sue parole furono soffocate dall’improvviso strillo di una sirena alle sue spalle. Si voltò, mentre un’auto della polizia si fermava nel parcheggio dietro di lui.
Non ho tempo per questo. Chiuse di scatto il telefono e se l’infilò in tasca. Il finestrino del lato passeggero era abbassato e dentro poteva vedere due agenti. Arrivarono a ridosso della sua macchina e poi aprirono le portiere.
“Signore, metta la borsa a terra e alzi le mani sopra la testa.” L’agente che parlò era giovane, con un taglio in stile militare e occhiali da aviatore calati sugli occhi. Reid notò che aveva messo una mano sulla fondina dell’arma di servizio, e aveva già aperto il bottone.
Anche l’autista era uscito. Era più anziano, intorno all’età di Reid, con il cranio rasato. Era rimasto vicino alla porta e anche lui aveva le mani basse sulla cintura.
Esitò, incerto di cosa fare. La polizia locale deve aver sentito l’allerta degli agenti in autostrada. Non doveva essere stato difficile trovare la Trans Am dalla targa finta parcheggiata in bella vista accanto al campo da baseball. Si riprese mentalmente per essere stato tanto imprudente.
“Signore, lasci la borsa a terra e alzi le mani sopra la testa!” gridò di nuovo e con più enfasi l’agente più giovane.
Lui non aveva niente con cui minacciarli; tutte le sue armi erano nella borsa, e anche se ne avesse avuta una in mano non voleva sparargli. Per quel che ne sapevano i due uomini, stavano facendo solo il loro lavoro, apprendendo un fuggitivo dopo un inseguimento ad alta velocità che aveva danneggiato tre auto, e con ogni probabilità aveva costretto a chiudere le corsie in direzione nord della I-95.
“Non è come credete.” Mentre lo diceva, abbassò lentamente la borsa a terra. “Sto solo cercando di trovare le mie figlie.” Alzò entrambe le braccia, portando le dita dietro le orecchie.
“Si volti,” gli ordinò il giovane agente. Reid obbedì. Udì il tintinnio familiare delle manette quando l’uomo ne estrasse un paio dalla cintura. Aspettò di sentire il tocco gelido del metallo sui polsi.
“Ha il diritto di rimanere in silenzio…”
Non appena percepì l’acciaio sulla pelle, Reid entrò in azione. Si voltò, afferrò il polso destro dell’agente e lo piegò violentemente. L’uomo gridò per il dolore e la sorpresa, nonostante lui fosse stato attento a non strattonarlo tanto da romperlo. Non voleva ferire i poliziotti se poteva evitarlo.
Continuando il gesto, afferrò la manetta aperta con la mano sinistra per richiuderla sull’agente. Intanto l’altro aveva già estratto la pistola e gli stava urlando furioso.
“Indietreggi! Si metta subito a terra, ora!”
Lui invece spintonò il giovane agente per farlo ricadere contro la portiera aperta. Quella si richiuse, o almeno tentò, intrappolando nella cerniera il secondo poliziotto. Reid fece una capriola e si ritrovò in ginocchio accanto all’uomo più anziano. Gli strappò di mano la Glock e se la gettò alle spalle.
L’agente giovane si raddrizzò e cercò di estrarre la propria arma. Reid afferrò la manetta vuota che gli pendeva dal polso e la tirò, facendogli di nuovo perdere l’equilibrio. Avvolse la catena al finestrino aperto, attirando il poliziotto contro la porta, e poi richiuse la seconda manetta attorno al braccio dell’agente più anziano.
Mentre i due lottavano per liberarsi e allontanarsi dalla porta dell’auto, lui gli rubò la pistola e la puntò su entrambi. Si immobilizzarono all’istante.
“Non vi sparerò,” disse ai due uomini mentre riprendeva la borsa. “Voglio solo che rimaniate in silenzio e non vi muoviate per un po’.” Prese di mira l’agente anziano. “Alzi la mano, per favore.”
L’uomo lasciò andare la radio che aveva montata sulla spalla.
“Lasci la pistola,” insistette l’agente giovane, facendo un gesto tranquillizzante con il braccio libero. “Stanno arrivando i rinforzi. Le spareranno a vista. È meglio che non succeda.”
Sta bluffando? No, si sentivano le sirene in lontananza. Saranno qui tra un minuto. Novanta secondi al massimo. Qualsiasi cosa avessero pianificato Mitch e Watson, doveva succedere subito.
I ragazzini nel campo da baseball avevano abbandonato la loro partita e si erano affollati dietro gli spalti di pietra per sbirciare meravigliati la scena che stava avvenendo a pochi metri da loro. Reid notò con la coda dell’occhio che uno aveva tirato fuori il cellulare, e probabilmente stava segnalando l’incidente.
Almeno non mi stanno riprendendo, pensò cupo, senza allontanare la canna della pistola dai due agenti. Andiamo, Mitch…
Poi… l’agente più giovane lanciò uno strano sguardo al suo partner. Si fissarono a vicenda per poi alzare gli occhi al cielo, quando un nuovo suono si unì alle sirene ancora lontane. Era un ronzio acuto, come una specie di motore.
Che cos’è? Di certo non è un’auto. Non è abbastanza rumoroso da essere un elicottero o un aereo…
Anche lui alzò gli occhi, ma non riusciva a capire da che direzione provenisse quel suono. Non rimase a lungo nel dubbio. Dalla sua sinistra stava arrivando un oggetto piuttosto piccolo, che attraversava l’aria come un’ape. Aveva una forma indistinguibile; sembrava bianco ma era difficile guardarlo direttamente.
La parte inferiore è verniciata con un rivestimento riflettente, lo informò la sua mente. Impedisce agli occhi di fissarlo a lungo.
L’oggetto calò dall’alto come se stesse cadendo dal cielo. Non appena ebbe oltrepassato il monte di lancio del campetto da baseball, qualcos’altro si staccò dalla sua forma: un cavo d’acciaio con una stretta barra attaccata in fondo, con un singolo gradino di una scala. Una corda da arrampicata.
“Ecco il mio passaggio,” mormorò. Mentre gli agenti fissavano stupiti l’UFO in volo sopra di loro, Reid lasciò cadere la pistola a terra. Tenne stretta la borsa e quando la barra oscillò verso di lui, si tese e l’afferrò.
Trattenne il fiato e fu subito trascinato in cielo, facendo sei metri in pochi secondi, poi nove e poi dodici. I ragazzi nel campo da baseball gridarono e indicarono l’oggetto volante sopra la sua testa che ritraeva in fretta la corda, guadagnando quota allo stesso tempo.
Abbassò lo sguardo e vide altre due auto della polizia entrare nel parcheggio con uno stridio di freni, i loro autisti uscire dai veicoli e guardare verso l’alto. Era a una trentina di metri da terra quando finalmente entrò nell’abitacolo e piombò a sedere nell’unico sedile che c’era.
Reid scosse la testa sbalordito. Il veicolo che lo aveva salvato era poco di più di una capsula a forma di uovo con quattro braccia parallele a forma di X, su ognuna delle quali c’era un rotore. Sapeva che cosa era: un quadricottero, un drone pilotato da una persona sola, completamente automatizzato e altamente sperimentale.
Un ricordo gli lampeggiò nella mente: Un tetto a Kandahar. Due cecchini ti bloccano nella tua posizione. Non hai idea di dove ti trovi. Se fai una mossa morirai. Poi un suono, un ronzio acuto, poco più di un brusio. Ti ricorda il decespugliatore che hai a casa. Una sagoma oscura il cielo. È difficile guardarla. Quasi non riesci a vederla, ma capisci che sono arrivati i rinforzi…
La CIA aveva fatto esperimenti con macchine di quel tipo per tirar fuori i suoi agenti dalle zone calde. Lui stesso aveva preso parte a uno di quegli esperimenti.
Davanti a sé non c’erano comandi, ma solo uno schermo LED su cui campeggiava la sua velocità di trecento quaranta chilometri orari e il tempo stimato d’arrivo di cinquantaquattro minuti. Accanto era appesa una cuffia. La prese e se l’infilò sulle orecchie.
“Zero.”
“Watson. Gesù. Come hai avuto questa roba?”
“Non è merito mio.”
“Quindi è stato Mitch,” disse Reid, confermando i propri sospetti. “Non è solo una ‘risorsa’, vero?”
“È tutto quello che vuoi che sia, purché ti fidi di lui e accetti il suo aiuto.”
La velocità del quadricottero aumentò sempre di più, raggiungendo quasi i cinquecento chilometri orari. Il tempo stimato d’arrivo calò di diversi minuti.
“E l’agenzia?” volle sapere. “Possono…?”
“Rintracciarlo? No. Troppo piccolo e vola ad altitudini troppo basse. Oltretutto è stato decommissionato. Hanno ritenuto che il motore fosse troppo rumoroso perché potesse essere utile come velivolo clandestino.”
Tirò un breve sospiro di sollievo. Ora aveva un obiettivo, quello Starlight Motel nel New Jersey, e almeno non l’aveva trovato grazie a una provocazione di Rais. Se fossero stati ancora lì, avrebbe potuto mettere fine a quella situazione… o almeno avrebbe potuto provarci. Sapeva che l’unico modo per chiuderla era un confronto con l’assassino, durante il quale avrebbe anche dovuto proteggere le sue ragazze dal fuoco incrociato.
“Voglio che aspetti quarantacinque minuti. Poi manda la soffiata del motel a Strickland e alla polizia locale,” disse a Watson. “Se lui è lì, voglio più rinforzi possibile.”
Quando la CIA e la polizia fossero arrivati, o le sue figlie sarebbero state al sicuro, o Reid Lawson sarebbe morto.
CAPITOLO OTTO
Maya stringeva forte a sé la sorella. La catena delle manette tintinnava tra i loro polsi; Sara aveva le mani alzate al petto e la stava abbracciando a sua volta. Le due ragazze erano sedute insieme sui sedili posteriori dell’auto.
L’assassino era alla guida della macchina e si era avviato lungo Port Jersey. Il porto era molto grande, Maya credeva che proseguisse per diverse centinaia di metri. Ai loro lati si alzavano pile di container. Formavano un percorso stretto. Tra le loro mura metalliche e i finestrini della macchina c’era solo qualche decina di centimetri.
Viaggiavano con i fari spenti ed era pericolosamente buio, ma la cosa non sembrava turbare Rais. Di tanto in tanto, attraverso una fessura tra i container, Maya riusciva a vedere delle luci in lontananza, vicine all’acqua. Sentiva persino il ronzio di macchinari. C’era gente al lavoro, tutt’intorno a loro. E tuttavia non ne era rassicurata. Fino a quel momento Rais aveva dimostrato una grande attitudine alla pianificazione, e dubitava che avrebbe lasciato vedere le sue prigioniere da sguardi indiscreti.
Stava a lei evitare che le mandasse fuori dal paese.
L’orologio al centro del cruscotto dell’auto segnava le quattro del mattino. Era passata meno di un’ora da quando aveva lasciato il biglietto nel serbatoio del gabinetto nel motel. Poco dopo Rais si era alzato all’improvviso e aveva annunciato che era il momento di mettersi in viaggio. Senza spiegare nulla le aveva guidate fuori dalla camera, ma non erano andati verso la station wagon bianca su cui erano arrivati. Invece le aveva condotte a un modello d’auto più vecchio, a qualche metro dalla loro stanza. Con estrema facilità aveva scassinato la porta e le aveva fatte salire sui sedili posteriori. Poi aveva strappato la piastrina sul blocchetto d’accensione e in pochi secondi aveva collegato i cavi per avviare la macchina.
Con il favore delle tenebre erano arrivati al porto, e ora si stavano avvicinando all’estremità settentrionale della terra ferma, dove finiva il cemento e iniziava la Newark Bay. Rais rallentò e parcheggiò la macchina.
Maya sbirciò al di là del parabrezza. Erano di fronte a una nave, un’imbarcazione piuttosto piccola per gli standard commerciali. Non doveva essere lunga più di venti metri da un’estremità all’altra, ed era carica di container metallici cubici grandi un metro e mezzo per un metro e mezzo. In quella zona del pontile, oltre alla luna e alle stelle, l’unica luce veniva da due fioche lampadine giallastre sulla nave, una a poppa e l’altra a prua.
Rais spense il motore e rimase seduto in silenzio per un lungo momento. Poi face lampeggiare i fari, una volta sola. Due uomini uscirono dalla cabina della nave. Lo scrutarono e scesero lungo la stretta rampa allungata tra l’imbarcazione e il pontile.
L’assassino si voltò sul sedile per fissare Maya negli occhi. Disse una sola parola, pronunciandola lentamente. “Ferma.” Poi uscì e richiuse la porta, fermandosi dopo pochi passi ad aspettare l’arrivo dei due uomini.
La ragazza serrò la mascella e cercò di rallentare i rapidi battiti del suo cuore. Se fossero salite su quella nave e avessero lasciato la terra ferma, sarebbe stato molto più difficile ritrovarle. Non riusciva a sentire cosa si dicevano gli uomini, udiva solo mormorii profondi mentre Rais parlava con loro.
“Sara,” sussurrò. “Ti ricordi cosa ho detto?”
“Non posso.” La voce della sorella si spezzò. “Non…”
“Devi.” Erano ancora ammanettate insieme, ma la rampa per salire sulla nave era stretta, ampia solo mezzo metro. Con ogni probabilità avrebbero dovuto liberarle. E una volta che l’avessero fatto… “Non appena mi muovo, scappa. Devi trovare altre persone. Nasconditi se necessario. Devi…”
Non riuscì a finire la frase. La porta posteriore si aprì di scatto e Rais le scrutò. “Uscite.”
Maya si sentiva le ginocchia deboli mentre scivolava giù dal sedile, seguita da Sara. Si costrinse a guardare i due uomini che erano scesi dalla barca. Avevano entrambi la pelle chiara e gli occhi e i capelli scuri. Uno dei due portava una barbetta sottile e i capelli corti, e sulle braccia incrociate sul petto aveva una giacca di pelle nera. L’altro indossava un cappotto marrone. I suoi capelli erano più lunghi, gli arrivavano alle orecchie. La grossa pancia gli sporgeva oltre la cintura e sulle sue labbra aleggiava un ghigno.
Il secondo uomo, quello più in carne, prese a muoversi attorno alle due ragazze, camminando lentamente. Disse qualcosa in una lingua straniera, la stessa che Rais aveva parlato a telefono nella stanza del motel.
Poi pronunciò una singola parola in inglese.
“Carine.” Scoppiò a ridere. Il suo compagno vestito di pelle sogghignò. Rais rimase impassibile.
Con quell’unica parola, una nuova consapevolezza della situazione si fece strada nella mente di Maya, paralizzandola come dita di ghiaccio attorno alla gola. Stava succedendo qualcosa di molto peggio di un semplice rapimento. Non voleva neanche pensarci, né tantomeno soffermarsi a riflettere sui dettagli. Non poteva essere vero. Non quello. Non a loro.
Spostò lo sguardo sul mento di Rais. Non sopportava di guardare nei suoi occhi verdi.
“Tu.” Parò con voce bassa e tremante, facendo fatica a pronunciare quelle parole. “Sei un mostro.”
L’uomo sospirò gentile. “Forse. È solo una questione di prospettiva. Io ho bisogno di un passaggio dall’altra parte dell’oceano e voi siete la mia merce di scambio. Il mio biglietto, se preferite.”
Maya aveva la bocca secca. Non pianse e non tremò. Sentì solo un gran freddo.
Rais le stava vendendo.
“Ah-ehm.” Qualcuno si schiarì la gola. Cinque paia d’occhi si voltarono di scatto mentre un nuovo personaggio si avvicinava alla luce fioca della nave.
La ragazza ci sperò. Era un uomo di mezza età, sulla cinquantina, con un paio di pantaloni cachi e una camicia bianca ben stirata. Sembrava un funzionario di qualche tipo. Sotto un braccio teneva un rigido casco di protezione bianco.
Rais estrasse la Glock e la puntò sullo sconosciuto in un batter d’occhio. Ma non sparò. Lo sentirebbero anche altre persone, capì Maya.
“Ehi!” L’uomo lasciò cadere il casco e alzò entrambe le mani in aria.
“Aspetta.” Lo straniero con la giacca di pelle nera si intromise, frapponendosi tra la pistola e il nuovo arrivato. “Ehi, va bene,” disse in un inglese pesantemente accentato. “Va bene.”
Maya rimase a bocca aperta per la confusione. Bene?
Mentre Rais abbassava con cautela l’arma, lo straniero si infilò una mano dentro la giacca di pelle e ne estrasse una busta sgualcita, piegata in tre parti e chiusa con il nastro adesivo. All’interno c’era qualcosa di grosso e rettangolare, come un mattone.
La tese all’uomo dall’aspetto ufficiale, che stava riprendendo il casco da terra.
Mio Dio. Sapeva cosa c’era nella busta. Quell’uomo stava accettando denaro per tenere lontani gli operai del porto e lasciare libera quella zona del molo.
Rabbia e impotenza l’avvolsero in egual misura. Avrebbe voluto urlargli contro—la prego, aspetti, ci aiuti—ma per un istante incontrò il suo sguardo, e capì che sarebbe stato inutile.
Non c’era rimorso in quegli occhi. Nessuna gentilezza. Nessuna empatia. Le parole le rimasero chiuse in gola.
Velocemente come era apparso, l’uomo svanì di nuovo tra le ombre. “È un piacere fare affari con voi,” mormorò mentre si allontanava.
Non sta succedendo davvero. Si sentiva intorpidita. In tutta la sua vita non aveva mai incontrato nessuno che sarebbe rimasto immobile a guardare mentre dei bambini erano in pericolo, né che avrebbe accettato soldi per non fare niente.
L’uomo in carne ordinò qualcosa nella sua lingua straniera e indicò vagamente le mani delle ragazze. Rais disse qualcosa in risposta. Sembrò un secco rifiuto, ma l’altro uomo insistette.
L’assassino apparve irritato mentre si infilava le dita nelle tasche per estrarre una piccola chiave argentata. Afferrò la catena delle loro manette, costringendo entrambe ad alzare i polsi per aria. “Ora ve le tolgo,” disse loro. “Poi salirete sulla nave. Se volete arrivare vive sulla terraferma, rimarrete in silenzio e farete quello che vi verrà detto.” Spinse la chiave nella cerchietto metallico al polso di Maya e l’aprì. “E non pensate nemmeno a saltare in acqua. Nessuno di noi verrà a riprendervi. Vi guarderemo morire di freddo o annegare. Ci vorranno solo un paio di minuti.” Aprì anche il lato di Sara, che istintivamente si strofinò il polso dolente e arrossato.
Ora. Fallo ora. Devi fare subito qualcosa. Il cervello di Maya gridava, ma la ragazza non riusciva a muoversi.
Lo straniero con la giacca nera avanzò per stringerle bruscamente un braccio. L’improvviso contatto fisico spezzò la sua paralisi, spingendola ad agire. Non dovette nemmeno pensarci.
Alzò il piede con tutte le forze che riuscì a radunare, e lo sbatté sull’inguine di Rais.
Non appena lo fece, un ricordo le lampeggiò nella mente. Durò solo un istante, anche se le sembrò molto più lungo, come se il mondo intero avesse rallentato solo per lei.
Un giorno, poco tempo dopo che i terroristi di Amun avevano cercato rapirla nel New Jersey, suo padre l’aveva presa da parte. Non aveva potuto dirle la verità e si era attenuto alla storia di copertura—erano state catturate da membri di una gang come parte di un rituale di iniziazione—ma le aveva ugualmente detto: Non sarò sempre nei paraggi. Non ci sarà sempre qualcuno vicino ad aiutarti.
Maya aveva giocato a calcio per anni. Aveva un calcio potente e preciso. Rais si piegò su se stesso con un sibilo, portando istintivamente le mani all’inguine.
Se qualcuno ti attacca, in particolare un uomo, è perché è più grosso. Più forte. È più pesante di te. E per questo crede di poter fare qualsiasi cosa voglia. Che non hai scampo.
Strattonò il braccio verso il basso, in un gesto rapido e violento, e si liberò dall’uomo dalla giacca di pelle. Poi si gettò in avanti, contro di lui, e gli fece perdere l’equilibrio.
Devi giocare sporco. Fai tutto quello che devi. Colpiscilo all’inguine. Al naso. Agli occhi. Mordilo, agitati, urla. Lui non lotta lealmente e non devi farlo neanche tu.
Maya roteò su se stessa, muovendo le braccia sottili in un arco. Rais era ancora chino, il suo volto all’altezza giusta. Il pugno della ragazza gli atterrò su un lato del naso.
Il dolore le attraversò subito la mano, partendo dalle nocche per irradiarsi su per tutto l’avambraccio, fino al gomito. Gridò e la strinse al corpo. Nonostante ciò, l’assassino aveva subito un duro colpo, ed era quasi caduto giù dal pontile.
Qualcuno l’afferrò intorno alla vita e la tirò all’indietro. Si ritrovò con i piedi per aria, a colpire il nulla, e mulinò entrambe le braccia. Non si era neanche resa conto che stava gridando, quando una grossa mano le si chiuse sul naso e la bocca, impedendole di urlare e respirare.
Ma poi la vide: una figurina che diventava sempre più piccola. Sara era scappata, tornava nella direzione da dove erano venuti, e stava svanendo tra le ombre sotto le pile di container.