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BAIKAL
Quella mattina si svegliò particolarmente turbato e stanco, aveva fatto uno strano sogno, lungo, interminabile, o così gli era sembrato; in effetti era un po’ di tempo che faceva quegli strani sogni o forse incubi, che poi lo perseguitavano per tutto il giorno. Aprì gli occhi e vide la sua solita, ordinata e banale camera con grandi armadi bianchi, simmetrici quadri alle pareti, il letto mai disfatto pur avendoci dormito una intera notte, la televisione ancora accesa che trasmetta canzoni rap, insulse, canzoni da cacasenno che, con la loro filosofia spicciola e retorica, cercano di insegnarci a vivere. Con il solito movimento meccanico andò in cucina, si fece il caffè e, pur avendo voglia di una calda brioche alla crema, si mangiò i suoi soliti biscotti del Mulino bianco, si accese la prima delle sue quaranta sigarette giornaliere e andò in bagno.
Mentre si radeva, gli vennero in mente spezzoni confusi del sogno: cercò di ricomporre quel puzzle, cercando di dare una logica e una cronologia a quel caos di pensieri ed eventi, di persone che pensi di conoscere, ma che nella realtà sono del tutto diverse. Più pensava di ricordare, più le nebbie si infittivano, più tutto usciva da quello schema logico della vita reale.
Quand’ebbe finito di radersi, si guardò con attenzione allo specchio e non si piacque. Si rese conto che era tanto tempo che si specchiava, ma che non si vedeva. Troppo tempo! Quello che vide quel giorno non era quello che si aspettava, era quello che non avrebbe mai voluto vedere. Come era accaduto? Dov’era finito quel brillante e affascinante uomo che era? Dove erano finiti i suoi sogni e le sue ambizioni? Cosa era successo?
Continuò a pensarci anche mentre si vestiva, anche mentre metteva in atto quell’abitudinario rituale mattutino, concepito per meglio apparire, per dare di sé un aspetto ordinato e pulito. Gli eventi disordinati del sogno continuavano a girargli per la mente e, pezzo dopo pezzo, ricordava quanto nel sogno lui fosse diverso dalla realtà, quanto fosse più libero, meno convenzionale e sfacciatamente diretto. Come se le convenzioni del vivere civile fossero state travolte e inghiottite dal caos. Un mondo parallelo, tanto credibile, a modo suo, da far dubitare quale dei due fosse il mondo reale.
Massimo, quel giorno, compiva 50 anni. Un metro e ottantacinque di altezza su un fisico asciutto e atletico, cortissimi capelli brizzolati, occhi verdi, sorriso infantile e accattivante, sempre abbronzato. Ex pilota di auto e moto, pittore per vocazione, commerciante per passione e per necessità. Molte storie d’amore e avventure, due matrimoni finiti, una vita movimentata, brillante e dispendiosa. Il suo capolavoro: una figlia di 15 anni!
Mentre stava per uscire gli squillò il telefono, guardò chi lo stesse chiamando e gli tornò il sorriso. “Tanti auguri papà. Volevo chiamarti subito dopo mezzanotte, ma mi sono addormentata.” Era Federica, sua figlia. “Grazie amore, sei comunque la prima a farmi gli auguri. Come stai?” Lei, rispose: “Tutto bene, tutto bene! Ho una interrogazione di inglese, ma credo che non andrà molto bene. Non ti arrabbiare se troverai un cinque sul registro elettronico.” Massimo, cercando di impostare un tono di voce da genitore, disse: “Come al solito ti dai sempre per perdente prima ancora di iniziare e questo è un atteggiamento psicologico che non ti favorisce, inoltre se passassi meno tempo sul cellulare e un po’ più sui libri forse riusciresti anche a prendere un sei. Comunque, grazie di avermi dato la prima notizia brutta della giornata.” Federica, col suo solito tono irritato e aggressivo, disse: “Oh, ma adesso devi famme sentì in colpa. C’ho un sacco da studià! Non ce la faccio. Poi se prendo un cinque mica more nessuno.” Massimo, infastidito dal tono, disse: “Non gridare e parla italiano, non come una coatta e qualche volta, almeno quando sei in torto, prova a scusarti.” Lei, sempre più innervosita, disse: “Era meglio che non ti chiamavo. Vabbè, tanti auguri.” Chiuse la telefonata. Massimo sapeva che era una battaglia persa in partenza, che quel suo carattere aggressivo era la conseguenza di una profonda insicurezza e dell’adolescenziale tempesta ormonale che la stava attraversando. Avrebbe voluto un dialogo più sereno e costruttivo, senza toni di voce alti e senza invalicabili muri a separarli, ma, forse, era solo una questione di tempo, forse tra qualche anno sarebbe cambiata.
Lo sperava davvero tanto, non per lui, ma per il bene di sua figlia. L’amava così tanto che vederla infelice, arrabbiata con sé stessa e col mondo, lo rendeva molto triste. Si chiedeva sempre dove avesse sbagliato, se avrebbe potuto fare di più e meglio, ma questa, credo, sia la domanda che si pone ogni genitore.
Uscì di casa in compagnia dei suoi pensieri e passò al bar a prendere un altro caffè, di quello buono. “Ciao dottò, ti faccio il solito leggermente lungo?” Gianni, il barista, lo conosceva da molti anni e per lui Massimo era un vero idolo, un esempio da seguire. Nonostante fosse un ragazzone di trentacinque anni, semplice, esuberante e un po’ coatto, era intelligente e sensibile. Ogni volta, facendoglieli notare, coglieva piccoli particolari del suo abbigliamento e con tono basso, cospiratorio, diceva: “Non c’è niente da fa, c’hai un’altra classe, una marcia in più. Se rinascessi vorrei esse come te.” Poi, rivolgendosi agli altri clienti al banco, diceva: “Questo è uno forte, mica un poveraccio come voi.” Massimo ogni volta gli sorrideva imbarazzato, ma grato delle sue attenzioni e del suo disinteressato affetto.
Era la classica mattinata di fine settembre, soleggiata, con qualche leggera pennellata di bianco su quell’immensa tela azzurra e un’aria ancora fresca.
Salì sulla sua Porsche e guizzò via dal parcheggio. Di solito non prendeva mai la macchina, in città la odiava, traffico, parcheggi, ecc. Moto o scooter erano l’ideale. Ma quella mattina sarebbe dovuto andare da un suo cliente a Frosinone per vedere una macchina.
Alle 9:30 arrivò al suo salone di Viale Parioli. Erano sei vetrine di giocattoli per adulti. All’interno facevano bella mostra di sé Ferrari, Maserati, Lamborghini, Porsche, Aston Martin, Jaguar, Mercedes e addirittura una Zonda. Per non parlare delle moto. Nella parte sottostante al salone, raggiungibile con un passo carrabile, c’era la grande officina, tutta bianca, pareti, pavimenti e camici dei meccanici. Sembrava una sala operatoria. C’era un operaio che aveva il solo incarico di tenere sempre tutto ordinato e pulito. Non lo vedevi mai fermo. Musica classica di sottofondo che si fondeva con la musica dei motori. Gli 8 e i 12 cilindri non fanno rumore, cantano!
Massimo era ingegnere meccanico per passione. Le auto lo avevano sempre affascinato, fin da bambino. Aveva lavorato per diverse case automobilistiche e appena venticinquenne era sbarcato anche in Ferrari. Il sogno di ogni ingegnere! L’esperienza era durata poco. Era ancora vivo il grande vecchio, che con l’età non era di certo migliorato. Per il suo carattere, l’ambiente era troppo stressante e non si poteva muovere un bullone che il Drake non volesse. Troppa referenzialità e troppa paura di toccare la suscettibilità sua e di sua moglie. In quegli anni, le defezioni di grandi nomi lo confermavano. Massimo, il giorno che aveva dato le dimissioni, salutando i colleghi con un ampio gesto della mano, aveva detto: “Capisco e invidio Ferruccio Lamborghini, se ne avessi i mezzi farei altrettanto. Vi saluto schiavi!”
Quando nacque sua figlia Federica, per stare a Roma e avere più tempo per seguirla, aprì il salone di auto e moto sportive. In fondo era il suo mondo e, guadagnandoci, aveva sempre a disposizione un infinito parco macchine per divertirsi e per dare sfogo alla sua passione.
La sua segretaria e i suoi quattro venditori erano vestiti come i commessi di Bulgari, impeccabili, dalla camicia bianca alla cravatta, alle scarpe di qualità, lucide come le carrozzerie delle auto che vendevano.
Alessandra, appena lo vide, gli si fece incontro, dicendo: “Buongiorno Ingegnere, il cliente di Frosinone ha spostato l’appuntamento dalle 12:00 alle 13:00, dicendo che per farsi perdonare la inviterà a pranzo.” Rimase contrariato da quella notizia e, con aria seccata, disse: “Del pranzo mi interessa poco e per quell’ora di ritardo dovrò far slittare altri appuntamenti. Già non mi va di andare a Frosinone. In Italia, è veramente difficile trovare una città brutta, ecco, Frosinone è l’eccezione che conferma la regola, inoltre questo tizio mi puzza un po’, vabbè…non è giornata.” Diede disposizioni varie ad Alessandra, salutò i ragazzi schierati come soldati e scese in officina.
Antonio, il capo officina, lo salutò da lontano e gli andò incontro. Era uno dei pochi che poteva permettersi di dargli del tu, si conoscevano da molti anni, dai tempi dell’attività agonistica di Massimo. Disse: “Ciao! Ti vedo nero. Che è successo?” Massimo, quasi volesse evitare di rispondere, disse: “Niente di particolare e tutto in generale. Oggi abbiamo consegne?” Antonio, con tono professionale, disse: “Oggi, abbiamo in consegna la Ferrari GTB e, sperando di farcela, per fine settimana la Porsche Carrera. Comunque, ho problemi con la Miura, il cambio fa uno strano rumore e oltre i 4.000 giri salta la terza. Dovremo tirarlo giù e aprirlo.” Altra buona notizia della giornata.
Massimo, dandogli affettuosamente una pacca sulla spalla, ironicamente, disse: “Risolto! Dì al proprietario di non superare i 3.500 giri, così consuma meno e evita che gli ritirino la patente per eccesso di velocità.” “Sì, è proprio il cliente giusto! C’ha settant’anni, ma sgomma anche quando parcheggia. Ahhh, ahhhh, ahhhh!” Rispose, Antonio, ridendo.
Gironzolò un po’ nell’officina, poi si fermò davanti alla sua Norton Commando, in fase di restauro. L’aveva comprata quando aveva vent’anni, dopo averla desiderata da quando ne aveva sei. Rivolgendosi a Vicenzo, il meccanico che se ne occupava, disse: “Mi raccomando, trattamela bene, è la mia bambina capricciosa.” Vincenzo, con un sorriso rispettoso, disse: “Stia tranquillo ingegnere, sarà più bella ed efficiente di quando è uscita dalla fabbrica.”
Massimo arrivò in piazza Benedetto Cairoli, parcheggiò, si guardò intorno per vedere se c’era il venditore dell’auto, si sedette sul bordo della fontana e si accese una sigaretta. Il rumore dell’acqua lo rilassava, inoltre gli procurava un po’ di frescura dall’insopportabile afa, caratteristica di quella città.
Dopo qualche minuto arrivò una Mercedes nera, dalla quale prima scese una specie di puffo, più largo che alto, poi il suo robusto autista. Il puffo si guardava intorno, Massimo capì che lui era il suo appuntamento e gli andò incontro. Anche il puffo capì e mentre accelerava il passo verso di lui, la stoffa dei pantaloni si attorcigliò intorno alle cosce che sfregavano, accorciandoglieli e scoprendo un paio di orrendi e corti calzini bianchi.
Con un ampio sorriso e porgendo la tozza mano, disse: “Immagino che lei sia l’Ingegner De Labi?!?” Lui, annuendo e stringendo quella mano sudata e quasi senza dita, disse: “Sì, certo! E lei è l’avvocato Salvatori. Piacere.” Il “picciotto”, alle spalle dell’avvocato, si limitò a fare un cenno col capo.
L’avvocato, nonostante l’espressione cordiale del viso, aveva un che di sinistro, di subdolo, di inquietante. Sicuramente non era il bonaccione che voleva apparire. Gesticolando con ampi gesti delle impacciate braccia, mettendo in crisi i, già provati, bottoni della sua camicia bianca, disse: “Vista l’ora, penso che sia meglio andare a mangiare qualcosa, poi rilassati e con la pancia piena, andiamo a vedere quel capolavoro su ruote. Che ne dice Ingegnè?” Massimo, rispose: “Come preferisce, l’importante è che sia a Roma per le cinque.”
Forse, Massimo era prevenuto, ma quel personaggio non lo convinceva. Avvocato?!? Di cosa? E quello strano autista con l’aria da picciotto!?! Difficilmente si sbagliava. La sua mente matematica, analitica, e le sue esperienze di vita riuscivano quasi sempre ad elaborare il profilo perfetto dei suoi interlocutori. Era un vantaggio, ma anche un limite, perché spesso applicava gli stessi sistemi di calcolo anche alle donne che conosceva. Ma era una cosa che gli veniva inconsciamente e, invece, tante volte avrebbe voluto lasciarsi andare. Rischiare di sbagliare, di farsi male e poi leccarsi le ferite. Quando correva era così, pochi calcoli e tanto istinto, quasi fosse immortale. Per fare un paragone, era più Villeneuve, che non Lauda.
L’avvocato fu accolto al ristorante con grande rispetto reverenziale, troppo per un semplice buon cliente. Durante tutto il pranzo non parlò mai della macchina, ma, con la bocca perennemente piena, non smise mai di parlare di sé stesso. Al contrario del “picciotto”, che non spiccicò parola. Solo quegli occhi a fessura tradivano la bonarietà di quel grasso faccione. Erano furbi, freddi e duri, così come i movimenti del suo corpo che, seppur impacciati, denunciavano arroganza e potere. Da tutto questo e dall’omaggiato conto del ristorante, Massimo trasse la conclusione che fosse un boss, un camorrista.
La villa dell’avvocato, poco fuori Frosinone, confermò le conclusioni di Massimo: sembrava una fortezza!
La saracinesca elettrica del box, salendo lentamente ed emettendo un leggero cigolio, ne svelò il prezioso contenuto. La luce del sole, come il faro di un palcoscenico, illuminò l’azzurro frontale di una Bugatti.
Era una EB110 del ’92, uno dei primi esemplari costruiti nella fabbrica del visionario Romano Artioli. Vettura controversa e piena di difetti di nascita, ma pur sempre un’icona da un milione di Euro.
Il “picciotto” aprì la portiera, che si spiegò verso l’alto come un’ala, entrò e avviò il motore. Prima un leggero sibilo, poi i 12 cilindri urlarono all’unisono, riempiendo quel bucolico silenzio. L’auto avanzò a passo d’uomo, fino a scoprirsi totalmente ai raggi del sole. L’Avvocato cominciò a tesserne le lodi, muovendosi avanti e indietro, indicando col tozzo dito particolari e caratteristiche. Massimo, con aria distaccata, disse: “Molto bella! L’ho quasi vista nascere. Con Romano eravamo buoni amici. Quando era ancora in fase di prototipo mi invitò a provarla per conoscere le mie impressioni. Gran motore, ma quella che provai all’epoca era una vera bara.”
L’avvocato che, vista la stazza, non c’era mai salito sopra, quasi con stizza, disse: “Ingegnere, ma che me la vuole deprezzare?!?” Lui, sereno e distaccato, rispose: “No, no, assolutamente! Il mio era solo un giudizio tecnico. Quando fu messa in produzione era molto migliorata, pur continuando ad avere molti difetti di gioventù. Comunque, come ben sa, non è per me, io vendo semplicemente supercar! Posso vedere lo storico della vettura e i documenti?” L’avvocato entrò in casa e ne uscì con un faldone color azzurro come la Bugatti.
Si accomodarono nel salotto del patio, su ampie poltrone di vimini con cuscini marroni, per consultare le carte. L’avvocato, con aria cortese, disse: “Prende un caffè, un amaro,… qualcosa?” Massimo, ringraziando, chiese un caffè. L’avvocato fece un cenno all’onnipresente “picciotto” e dopo poco arrivò la cameriera, filippina, con un grande vassoio colmo di ogni cosa.
“Le ho fatto fotocopia di ogni documento, così poi potrà verificarli con tutta calma.”, disse l’avvocato. Massimo, alzando gli occhi dal carteggio, disse: “Bene, la ringrazio, una verifica approfondita è d’obbligo. Non per sfiducia, ma capisce bene… per l’importanza della macchina e della cifra.” Poi, aggiunse: “Le dispiace se faccio una breve prova su strada?” L’avvocato, alzandosi dalla poltrona come una palla che rotola dalle scale, rispose: “Ci mancherebbe! E’ mio dovere e suo diritto.” Ballonzolando, sempre seguito dal suo fedele scudiero, lo accompagnò alla macchina e facendo un cenno col braccio, disse: “Prego, si accomodi!”
Nonostante fosse abituato da anni a guidare quelle auto, per Massimo quello fu il momento migliore della giornata. Non si sentiva mai a proprio agio come quando era alla guida di una macchina.
Con movimento sicuro unì il braccio alla leva del cambio, la gamba sinistra affondò sotto il cruscotto, la destra pigiò decisa l’acceleratore e il motore, alto di giri, soffiò fuori l’aria in pressione. Sembrò che quel rumore venisse direttamente dal suo cuore, prendendo fiato tra una spinta e l’altra del V12 quadriturbo.
610 CV, scaricati su quattro ruote motrici, sono come una rasoiata sull’asfalto. L’accelerazione, di poco più di 3 secondi da 0 a 100 km/h, per un attimo non ti fa arrivare abbastanza sangue al cervello e hai come un leggero senso di svenimento, subito compensato da una scarica di adrenalina che sale veloce come il numero dei giri.
Massimo, con i limiti pratici che quella strada consentiva, snocciolò le marce come i grani di un rosario. In una manciata di secondi era già oltre i duecento chilometri orari, poco più avanti una curva a destra, diede un colpo di freni e, con precisi movimenti del braccio, scalò tre marce in rapida successione: la Bugatti percorse la curva come un treno sulle rotaie, lasciandosela alle spalle con rabbiosa prepotenza. Lui e la Bugatti avrebbero voluto essere in pista per godersi quell’amplesso fino in fondo. Quella prova su strada era stata come un coitus interruptus. Pensò che l’auto non era male e il prezzo che ne chiedeva l’avvocato era particolarmente vantaggioso: 800.000 euro. Anche questo puzzava, troppo conveniente. Fatte queste considerazioni, tornò alla villa. “Bene avvocato, per il momento non ho altro da chiederle. L’auto non è male a parte qualche problema di messa a punto, di un turbo che non va d’accordo con gli altri e i freni da rivedere.” L’avvocato, celando una certa stizza per i difetti appena elencati, con falsa cordialità, disse: “Non mi parli di problemi tecnici, a malapena so cos’è un motore. Se lo dice lei che è un esperto mi fido. Allora? Concludiamo l’affare?” Massimo, con cordiale distacco, disse: “Non la prenda per sfiducia, ma l’auto ha avuto vari passaggi di proprietà e devo far controllare i documenti, inoltre devo relazionare il mio cliente ed avere la piena conferma della sua disponibilità all’acquisto. Nell’arco di 48 ore le farò sapere qualcosa.” Chissà, forse l’avvocato aveva visto troppe puntate di “Affari a quattroruote”, pensava che bastasse una stretta di mano e una valigetta con 800.000 euro in contanti. Con l’espressione di quegli occhi freddi, che erano diventati ancora più piccoli, a denti stretti, disse: “Si, ma non mi faccia perdere tempo. Odio perdere tempo.” Massimo, per nulla intimorito da quel tono minaccioso, disse: “Neanche a me piace perdere tempo. 48 ore! E’ stato un piacere conoscerla.”
Diede i documenti ad Alessandra, pregandola di farli esaminare con la massima urgenza. Parlò con Antonio perché gli preparasse un preventivo per i lavori da fare sulla Bugatti. Salutò e andò a casa.
La giornata era ancora lunga. Aveva la cena di compleanno, con la sua fidanzata e con alcuni amici, ma non ne aveva molta voglia. L’unica persona con la quale avrebbe voluto festeggiare era sua figlia, ma studiava in un College vicino Firenze e tornava a casa soltanto per il fine settimana. Avrebbe di nuovo festeggiato, soltanto con lei, il prossimo sabato sera.
Prima di uscire, diede un’occhiata all’Iphone, c’erano alcuni messaggi di auguri e un messaggio di Federica: – Ciao papino, scusa per stamattina, lo sai che ho un brutto carattere, ma tu a volte mi stressi. A volte ho il dubbio di star studiando per qualcosa che non sono sicura che mi piacerà fare. Mi spaventa il futuro perché sento di non avere una particolare vocazione per qualcosa. Mi viene l’ansia e i sensi di colpa nei tuoi confronti. Tanti, tanti auguri. TVB. – Massimo sorrise e fu invaso da un grande tenerezza. Rispose: -Amore, il futuro si chiama futuro perché non lo conosciamo. Alla tua età, da un anno all’altro cambiano tante cose… Pensa al presente, non farti venire ansie e cerca di fare al meglio quello che devi fare. Lascia perdere i sensi di colpa per me, io voglio soltanto la tua felicità. Impegnati comunque, ti servirà per qualsiasi cosa tu voglia fare in futuro. Ora smettila di fare l’ansiosa, proietta i tuoi pensieri non oltre le 24 ore e non piangerti addosso. Sabato festeggiamo insieme, soltanto io e te. TVB.-
Si era fatto tardi, sgommò con la Porsche, come se fosse alla partenza di Le Mans.
Francesca, cosa rara per una donna, era già sotto al portone ad aspettarlo. Massimo scese, trafelato, dalla macchina, si scusò, la baciò e partirono alla volta del ristorante.
Francesca, sua fidanzata da un paio di anni, trentottenne, non alta, ma fisicamente perfetta e con un bel viso sbarazzino, divorziata anche lei, era giornalista e lavorava in un quotidiano romano. Come diceva ironicamente Massimo, era la donna delle 3P: prevaricatrice, possessiva, permalosa.
Francesca, accarezzandogli la mano, poggiata sul cambio, scherzosamente, disse: “Cinquanta anni! Mi devo preoccupare?” “Di cosa?” Rispose, distrattamente, lui. Lei, incalzando, disse: “Beh, della crisi del cinquantenne! Si dice che gli uomini a cinquant’anni perdono la testa, lasciano la moglie e scappano con qualche ragazzina.” Lui, carinamente, conoscendola, per non accendere qualche pericolosa miccia, disse: “Amore, ma io già sto con una ragazzina! Un’affascinante ragazzina di trentotto anni.” Francesca, presa in contropiede, disse: “Sei sempre il solito paraculo, bastardo, ma ti amo tanto.”
I suoi amici erano tutti lì, davanti al ristorante, ad aspettarlo. Appena lo videro intonarono un disordinato e stonato: “perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzo…” Massimo, con un’inequivocabile espressione del viso e un cenno della mano, disse: “Stop! Non ci facciamo sempre riconoscere.” C’era Walter, dentista, amico fin dai tempi del liceo, sempre con la battuta pronta, ma la sua allegria celava un grande disagio affettivo. Praticamente abbandonato alla nascita da una madre un po’ puttana e sbattuto in collegio da un padre egoista e menefreghista, ancora da adulto si portava dietro quelle ferite mai rimarginate. Aveva sempre cercato di compensare l’affettività perduta attraverso l’amore di una donna, ma a quelle sue vecchie ferite se ne erano aggiunte altre: un matrimonio fallito, la moglie aveva una tresca con un collega di lavoro, varie storie finite male e ora, questa ultima compagna, Cecilia, era un’opportunista che, capite le sue fragilità, lo sfruttava.
C’era Massimiliano, costruttore, anche lui amico di vecchia data. Single da sempre. Non alto, ma molto affascinante, passato da una vita di sregolatezze ad una vita quasi monacale e salutista, dettata anche dalla sua accentuata ipocondria. Con lui, Marisa, una bella donna con la quale conviveva da due anni.
C’era l’immancabile Simona, sua ex, trasformata nella sua amica più cara e fedele ormai da 10 anni. Dopo sua figlia Federica, forse, Simona era la persona che stimava e amava di più nella sua vita. Empatica, solare, intelligente, intraprendente, generosa, sempre pronta ad aiutare gli altri e mai sé stessa. Era un’amica insostituibile e centrale per l’equilibrio di Massimo.
Per concludere c’era Andrea, antiquario, vedovo, vecchio amico di scorribande, ahimè, sempre in lotta con l’alcolismo. Tanto forte e sicuro in apparenza, quando debole e fragile nella realtà.
Pietro, amico e proprietario del ristorante, li fece accomodare in un bel tavolo del giardino interno. Tornò quasi subito con in mano una bottiglia di champagne, accompagnato da due camerieri con vassoi colmi di stuzzicanti antipasti, dicendo: “Questa la offro io! Tanti carissimi auguri caro Ingegnere e buon appetito a tutti!”
Erano i suoi migliori amici, ma era come assente, immerso nei suoi pensieri, sentiva solo un brusio di voci. All’improvviso, fu come risvegliato da una stretta di mano di Francesca e dalla sgradevole voce di Cecilia che, ossessivamente, ripeteva: “Siete una bella coppia. Che aspettate a sposarvi?!?” Massimo, guardò Francesca, poi si guardò intorno e incrociò lo sguardo con quello di Cecilia. Non sentì subito la sua voce, ma vide quella bocca che si muoveva, senza emettere alcun suono. Sembrava un pesce in un acquario. Poi, arrivò il suono delle sue parole: “…è,è,è, voi uomini, sempre a fare i ragazzini con noi che vi corriamo dietro… Cosa aspetti a sposarla?…” Massimo, come risvegliato all’improvviso, prima di rispondere guardò il suo amico Walter, quasi per scusarsi di quello che avrebbe detto, poi, disse: “Cara Cecilia, ho già dato. Poi, comunque, scusa l’espressione schietta, sono cazzi nostri! Se stai dicendo questo per lanciare indirettamente un messaggio al tuo fidanzato Walter, ti rispondo io per lui, ha già dato anche lui!” Walter lo guardò con uno sguardo complice, di riconoscenza. Cecilia, invece, con gli occhi rossi di stizza e di qualche bicchiere di troppo, disse: “Sei il solito villano e arrogante. Povera Francesca!” Tempestiva, intervenne a rasserenare gli animi la dolce Marisa, dicendo: “Vedete com’è bizzarra la vita: Massimiliano vorrebbe sposarmi e invece sono io che non voglio. Stiamo così bene insieme, cosa ci cambierebbe un matrimonio?!? Basta con queste discussioni stupide. In alto i calici per il nostro festeggiato!” L’ennesimo brindisi diradò le nubi di quella piccola tempesta e la comitiva riprese le sue banali conversazioni.






