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Prima che arrivasse la fatidica torta con le cinquanta candeline, Walter, alzandosi, disse: “Massimo, andiamo a fumarci una sigaretta!” Massimo, si alzò e lo seguì fino ad un salottino, in un angolo del giardino, dedicato ai fumatori. Si sedettero su comode poltrone di vimini, si accesero una sigaretta e Walter disse: “Scusa per Cecilia, quella è già invadente di suo, poi quando beve non si regola.” Massimo, guardando con affetto l’amico, disse: “Scusa tu, ma ho avuto una giornataccia e poi queste intrusioni nella mia vita privata non le sopporto. Già Francesca mi rompe i coglioni di suo con la storia di andare a vivere insieme, ci manca solo Cecilia a metterci il carico da undici.” Walter, non perdendo mai la sua vena ironica, disse: “Sai come dico io?!? Il mondo è bello perché è “avariato”. Ah,ah,ah,ahhh. E’ tutta una vita che sono una calamita per le stronze. Lo sai, in passato ho anche cercato di interrompere questa catena: ho tentato il suicidio due volte, ma ho fallito. Ho fallito anche in questo! Ma stavolta ho trovato il killer giusto! Stavolta ce la faccio!” Massimo, guardando l’amico con curiosità e stupore, disse: “Mo che è ‘sta stronzata del killer?” Walter, mantenendo il suo sorriso ironico e scanzonato, disse: “Ho un tumore al fegato. Mi hanno dato tre mesi di vita.” Massimo non commentò e, abbracciandolo teneramente, disse: “Se non ti trovi bene, è meglio che te ne vada.” Esitò e aggiunse: “Comunque, non pensare di cavartela così, ti porterò con me per il resto della mia vita.”
Era arrivata la torta, con quell’incendio di 50 candeline, i vicini di tavolo accennarono dei sorrisi augurali e pigramente batterono le mani. Massimo inspirò profondamente e soffiò come un tornado su quello che era rimasto dei suoi cinquant’anni. Walter, in piedi, aprì la bottiglia di champagne e, raggiungendo rapidamente i calici protesi disse, disse: “Brindo all’amico, al fratello, al padre, che sei stato per me in tutti questi anni.” Il tintinnio dei calici riempì l’aria, interrompendo per un attimo quello strano, religioso, silenzio che si era creato. Poi, tutto riprese vita, le risa e il brusio delle voci ripresero il sopravvento, tutto riprese come prima, come nulla fosse mai avvenuto. Il presente era già passato e il futuro era appena iniziato.
Massimo guardò l’orologio e, subito, Francesca, disse: “Hai un appuntamento?” Lui, sorridendo, rispose: “Ammiravo il tuo regalo e guardavo quanto tempo mancasse prima di arrivare a casa e fare l’amore con te.” Francesca, conoscendo la passione di Massimo per gli orologi, gli aveva appena regalato un JWC Porsche Design in Titanio.
Erano quasi arrivati alla macchina, quando Massimo notò uno strano veicolo parcheggiato in seconda fila, davanti a una gelateria. Di fronte a certe cose, la sua passione per i motori lo faceva comportare come un bambino. Affascinato, si fermò ad osservarlo. Era uno strano veicolo, con la parte anteriore carenata e due ruote, un manubrio da moto, una enorme e confortevole sella, una grossa gomma sul posteriore. Osservò ogni particolare e lesse il nome sulla carenatura: CAM AM SPYDER GRAN SPORT ROADSTER. Gli evocò subito un senso di libertà, una voglia irrefrenabile di saltare su quella sella e di partire per un lungo viaggio senza meta.
Francesca, tirandolo per la giacca, disse: “Eccolo, non crescerai mai! Sempre a giocare coi tuoi giocattoli.” Lui, così preso dai suoi sogni di avventura, distrattamente, disse: “Cosa hai detto amore?!?” Lei, stizzita, rispose: “Sei talmente preso, che non stai neanche a sentirmi. Non ti preoccupare non ti ho detto niente, intanto ripeterlo sarebbe inutile.” Massimo, stupito da quel tono, disse: “Ma che hai? Perché sei arrabbiata? Non sarai mica gelosa di questo coso a tre ruote?!?” Lei, per nulla rasserenata, rispose: “Sono gelosa di tutto, dei tuoi giocattoli, dei tuoi amici, del tuo lavoro, di tua figlia, perché io vengo sempre dopo ogni cosa. Sono sempre l’ultima!” Lui, seccato, ma cercando di mantenere un tono conciliante, disse: “Amore, ma che dici? Che stai farneticando? Hai bevuto troppo?!?” Lei, ormai senza controllo, rispose: “Ora mi dai anche dell’ubriaca! Offendi anche me, dopo aver offeso Cecilia per essersi permessa di parlarti di matrimonio. Ma certo, tu sei superiore a tutti, nessuno ti può dire niente, devono essere tutti ai tuoi ordini. Non possiamo vivere insieme perché non vuoi scalfire la suscettibilità di tua figlia, non possiamo sposarci, perché, come dici tu: ho già dato. Ma cresci! Hai 50 anni!” Massimo che, fino ad allora, era stato accomodante e gentile, non potendo non reagire all’attacco scomposto di Francesca, disse: “Ecco la donna delle 3P in tutto il suo splendore! Lo so che ho cinquanta anni, li ho appena festeggiati. Che devo fare, mettermi in pantofole davanti alla TV? Giocare a bocce al circolo degli anziani? Andare la domenica a messa, mano nella mano? Comprarmi una Volvo Station Wagon e riempirla di mocciosi e di cani? Cosa dovrei fare per farti felice e per rasserenare le tue ire improvvise?” Lei rispose: “Nulla! Non devi fare nulla.” Si girò di scatto per allontanarsi e quasi fu investita da una macchina, gesticolò con il braccio alzato, urlò: “Taxi, taxi, taxi.” Un ignaro autista si fermò con uno stridio di freni e accolse, nel suo taxi, la parte peggiore di quella bella e intelligente ragazza.
Massimo non si stupì più di tanto, era abituato ai repentini cambiamenti di umore e alle scenate di Francesca. Approfittò dell’occasione per guardare più attentamente quello strano veicolo. Mentre veleggiava coi suoi pensieri, una voce sicura e piacevole disse: “Le piace?” Massimo, preso alla sprovvista, alzò gli occhi per vedere chi fosse l’autore di quella domanda. Era un bel ragazzo di circa trent’anni, alto, atletico e, come tutti i giovani rampanti di quell’età, accessoriato di barba e tatuaggi. Massimo, accennando un sorriso cordiale, disse: “Si! Molto interessante. Non l’avevo mai vista.” Il giovane, visibilmente orgoglioso del suo mezzo, disse: “In effetti è una novità per l’Europa. E’ un mezzo della canadese BRP, ora importato anche in Italia. Se le interessa, li vendo io.” Massimo, prima di parlare, guardò l’orologio. La mezzanotte era passata da un quarto d’ora. Scaramanticamente rassicurato dal fatto che quella brutta giornata fosse giunta al termine e che fosse iniziato un nuovo giorno, disse: “Certo che mi interessa! Ma vista l’ora non la voglio trattenere.” Il giovanotto, già nei panni di venditore, disse: “Ma ci mancherebbe. E’ un piacere! Il motore è un Rotax 1330 cc., 3 cilindri da 115 cavalli, con cambio sequenziale a sei marce…” Massimo, interrompendolo, disse: “Sìì, si, credo di essermi fatto un’idea. Dov’è la sua concessionaria? Voglio passare a trovarla e provare questo coso.” Il giovanotto estrasse il biglietto da visita dal giubbotto e lo porse a Massimo. “Siamo in Via Nomentana. Sul biglietto c’è tutto. L’Aspetto!” Massimo ringraziò e promise che sarebbe andato a trovarlo presto. Vittorio, il giovanotto, indossò il casco, inforcò la CAM AM e pigiò il bottone rosso dello starter. Dallo scarico uscì un rumore graffiante, classico dei tre cilindri. Vittorio, con una manovra, volutamente scenografica, fece sgommare il grosso pneumatico posteriore e in un attimo si dileguò.
Massimo, pensò: -Certo che ti verrò a trovare. Certo!
La riflessione, del giorno precedente, davanti allo specchio, il susseguirsi di eventi negativi durante tutta la giornata, il suo cinquantesimo compleanno, la scoperta di quello strano veicolo a tre ruote… Era come se, all’improvviso, si componessero le tessere di uno strano puzzle, come se apparenti coincidenze fossero solo l’inizio di un inevitabile cambiamento.
Sprofondato sul divano, mentre ascoltava Heroes di David Bowie, nella sua mente cominciò a prendere forma uno strano progetto. Avrebbe staccato la spina, sarebbe partito per un mese, forse due, senza nessuna meta. Non intendeva questo viaggio come una fuga, ma esattamente il contrario. La voglia, la necessità di ritrovarsi, di ritrovare una strada da percorrere per il futuro. Si era reso conto improvvisamente che quella che stava percorrendo da un po’ di anni era una strada a senso unico, era un vicolo cieco, era un cul de sac. Sì! Aveva deciso! Al massimo entro una settimana sarebbe partito.
“Vittorio, buongiorno! Sono Massimo, quel signore che ieri sera era affascinato dalla sua Cam Am. La trovo se passo tra un’oretta?” Vittorio, con tono cordiale e professionale, disse: “Buongiorno a lei. Sì, certo. L’aspetto.”
Vittorio, guardando la Porsche di Massimo, appena parcheggiata, disse: “Certo che, anche lei, in quanto a giocattolini non scherza.” Massimo, facendo un sorriso di circostanza, disse: “Auto e moto sono la mia passione da sempre, apposta sono qui, mi mancava un triciclo. Ah,ah,ah,ah,ahhhhh.”
Dopo una interessante e soddisfacente prova su strada, acquistò il top di gamma, full optional, rosso Ferrari. L’avrebbe preferito nero, ma quello rosso, e un altro, di un improponibile color giallo, erano gli unici in pronta consegna.
Vittorio, salutandolo, disse: “Come d’accordo, al massimo entro tre giorni glielo consegno. Poi, mi farà piacere visitare il suo negozio di “giocattoli”, anche se credo che non mi potrò permettere di fare acquisti. I suoi non sono “tricicli”!” Massimo, salendo sulla Porsche, sornionamente, disse: “Non si sa mai…, ma faccia presto, sono in partenza per un lungo viaggio. Ci vediamo giovedì!”
Mentre era in macchina, gli venne in mente Forrest Gump, dell’omonimo film e una delle sue fantastiche frasi: “Quel giorno, non so proprio perché, decisi di andare a correre un po'”. Pensò che la sua CAM AM non era proprio un paio di scarpe da running, ma, in fondo, l’intenzione era la stessa. Sorrise.
“Alessandra, buongiorno, mi organizzi una riunione per le 15:00, con Antonio, Giorgio e il Rag. Salvati. Ha notizie per i documenti della Bugatti?” Alessandra, rispose: “Sì, glieli ho lasciati sulla scrivania, ma per quello che ho visto, come diceva lei, su quella macchina c’è qualcosa di poco chiaro. Bene, organizzo la riunione.” Massimo, andò nel suo ufficio e controllò i documenti. Come primo proprietario figurava un Emiro arabo, poi era passata di mano ad un banchiere svizzero che, a sua volta, dopo qualche mese, l’aveva ceduta ad un industriale padano e, infine, era stata acquisita da una società Lussemburghese. Lì se ne perdevano le tracce, fino a riapparire, non si sa come, nelle mani del sedicente avvocato di Frosinone che, comunque, non era l’effettivo proprietario. C’era troppa puzza di camorra, confermata dal prezzo di svendita di 800.000 euro e dalle modalità di pagamento richieste dall’avvocato: 50% con bonifico bancario, 50% contanti, in nero. Il suo cliente, collezionista serio e trasparente, non avrebbe mai accettato.
Chiamò subito l’avvocato, dicendogli che il suo cliente aveva soprasseduto all’acquisto e che per il momento non se ne sarebbe fatto niente. Salutò ossequiosamente e chiuse la telefonata. L’avvocato non la prese per niente bene.
Erano già tutti presenti nella sala riunioni, Massimo si sedette, bevve il caffè che Alessandra aveva appena preparato, si accese una sigaretta e, con tono tranquillo, ma deciso, disse: “Vi ho riunito per informarvi che non sarò presente in azienda per uno o due mesi. Alessandra, lei avrà tutte le deleghe bancarie e il potere di firma. Giorgio, lei, come direttore delle vendite, avrà la responsabilità di effettuare le vendite senza il mio benestare finale. Lei, ragionier Salvati, in collaborazione con Alessandra, effettuerà incassi e pagamenti. Tu, Antonio, potrai tranquillamente andare avanti senza di me.” Antonio, interrompendolo, disse: “Ingegnere, grazie per la fiducia, ma lo sai che non è così. Noi siamo come una coppia di carabinieri: uno legge e uno scrive. Ahh,ahh,ahhh.” Massimo, sorridendo, prosegui: “Vai, vai, che ce la fai pure da solo. Quindi, ritornando all’argomento della riunione, confido pienamente in voi. Sono certo che non mi deluderete. Io sarò presente ancora qualche giorno per le ultime incombenze. Andate pure. Lei, Alessandra, resti.” Lasciarono tutti la sala riunione con un’aria interrogativa, anche Alessandra aveva la stessa espressione.
Massimo, disse: “Capisco la sua perplessità, ma non è successo niente di grave. Ho semplicemente deciso di partire per un lungo viaggio. Ho bisogno di staccare, di rimettere ordine nella mia vita. So che di lei mi posso fidare ciecamente, così come degli altri collaboratori. Quindi parto sereno. Io mi farò sentire non più di una volta a settimana e lei mi contatti solo se è assolutamente indispensabile. Potete tranquillamente cavarvela da soli. Ha qualche domanda?” Alessandra, pur essendo una donna energica e intraprendente, presa così alla sprovvista, disse: “Non so, forse avrei mille di domande da farle ma, come dice lei, dobbiamo cavarcela da soli. Ci conti, ce la caveremo da soli! Grazie per la fiducia.” “Grazie a lei!” rispose Massimo.
Ora, la parte del piano più difficile da affrontare era sua figlia, non solo per come avrebbe reagito lei, ma per quanto era difficile per lui separarsene. Ma anche questa separazione, probabilmente, lo avrebbe aiutato a ritrovarsi. Da quando era nata Federica ogni pensiero, azione, decisione, era condizionata al benessere e alla felicità di quella bambina, spesso anche a scapito della sua. Fare il padre era l’esperienza e il “mestiere” più difficile che avesse mai affrontato nella sua vita e, forse, era quello che gli era riuscito meglio.
Massimo mandò un messaggio a sua figlia: -“Venerdì vengo a prenderti io a scuola, così durante il viaggio di ritorno parliamo un po’”– Dopo poco, Federica, rispose: -“Wow, precio!!! (precio, nel gergo dei giovani, significa: preciso, perfetto) Così non devo farmi il viaggio in treno. Ma è successo qualcosa?” Lui rispose: -“No amore, niente di particolare. Ci vediamo venerdì.” Appena scritto il messaggio, fu assalito da un forte senso di colpa, di disagio, come se la stesse abbandonando, lui che non se n’era mai separato per più di 24 ore.
Finalmente era giovedì, il giorno della consegna della CAM AM. Vittorio aveva chiamato per dire che il veicolo era pronto. Massimo, come un ragazzino, si fece chiamare un taxi, mollò tutto e si precipitò a ritirare il suo giocattolo, la sua speranza di libertà.
Appena lo vide entrare nell’autosalone, Vittorio gli andò incontro con aria cordiale e amichevole: “Buongiorno ingegnere, il suo giocattolo è pronto per affrontare il battesimo dell’asfalto. Sapendo del lungo viaggio che intraprenderà, abbiamo fatto un super tagliando e un super controllo. Le abbiamo montato tutti i borsoni e tutti gli accessori richiesti. E’ un vero gioiello e sono felice che vada nelle mani di un vero esperto di motori.” Massimo, ricambiando la cordialità, disse: “Grazie Vittorio, è sempre molto gentile. Spero che il suo triciclo sia in grado di portarmi in giro per il mondo senza noie. A proposito, mi ha preparato una lista di centri di assistenza sparsi per tutta Europa? Sa, non si sa mai…” Vittorio, prontamente, disse: “Troverà tutto in una cartellina, inoltre l’ho omaggiata di un servizio assistenza e carro attrezzi che copre tutta l’Europa e i paesi extracomunitari. Stia tranquillo, ho pensato a tutto.”
Massimo, una volta in sella a quello strano e affascinante oggetto, si accomiatò da Vittorio che, con un’espressione veramente sincera, disse: “Sa, ingegnere, un po’ la invidio. Vorrei avere anch'io il coraggio di mollare tutto e di buttarmi in questa fantastica avventura.” Massimo, guardandolo affettuosamente, come un padre, disse: “Lei è giovane. Lo farà! Quando si perderà, cercherà di ritrovarsi. Lo farà!” Gli sorrise benevolmente, pigiò il bottone rosso dello starter: il motore, col suo cupo suono, spezzò l’imbarazzo di quell’attimo e Massimo scomparve risucchiato dal traffico.
“Ciao Rosy, ti volevo anticipare che partirò per uno, due mesi, in giro per l’Europa, per lavoro e perché ho bisogno di staccare. Venerdì vado a prendere Federica a Firenze e le do la notizia, non so come la prenderà, ma ormai ho deciso. Poi ne parliamo a voce quando ti porto Federica.” Rosy, col tono sorpreso e falsamente cortese, disse: “E quando avresti deciso di partire?” Massimo, calmo, rispose: “Sabato o Domenica.” Rosy, ora visibilmente seccata, disse: “Ah, così, quasi senza preavviso!?! Da un giorno all’altro!?! Certo, tu sei il falco, quello che volteggia libero nell’aria e guarda tutti dall’alto.” Lui, mantenendo una calma serafica, disse: “Scusa, Rosy, non capisco il tuo tono e le tue allusioni, siamo divorziati da anni, non ho fatto mai mancare nulla a te e a nostra figlia, sono un uomo maturo e libero. Cosa devo fare?!? Devo chiederti il permesso?!?” Lei, sempre più irritata dal tono calmo e sarcastico di lui, disse: “Tu sei stato sempre un uomo libero e ti sei sempre fatto i cazzi tuoi. Tu sei un uomo superiore, non devi chiedere il permesso a nessuno. Ci mancherebbe!” Lui, sapendo che la cosa sarebbe potuta andare avanti per ore, interrompendola, disse: “Sì, sì, ok, è come dici tu, ci vediamo venerdì sera quando ti porto Federica. Ora ti lascio perché mi stanno chiamando dall’officina.” Riattaccò prime che lei avesse l’occasione di aggiungere altro o di salutarlo.
Rosy era una bella donna, intelligente e per bene, ma le loro incompatibilità, o forse quelle di Massimo, erano tali da non consentire che il rapporto potesse durare a lungo. Questo, lei, non glielo aveva mai perdonato e, probabilmente, non glielo avrebbe perdonato neanche dopo morto.
Arrivò al College leggermente in ritardo e lanciando uno sguardo per vedere dove fosse sua figlia, la vide poco distante, in mezzo ad un gruppetto di compagni, due ragazzi e tre ragazze. Lei era la leader, glielo dicevano ai colloqui anche le maestre delle elementari. Una bella ragazza, non alta, ma con un viso che sembrava una porcellana di Capodimonte e due occhi grigio-verdi da ipnotizzare un elefante. Intelligente, più matura della sua età e con un carattere ribelle, era lì a tenere banco, quasi come se fosse sempre incazzata col mondo intero.
Massimo diede un colpetto di clacson e fece un gesto di saluto col braccio fuori dalla macchina. Fu un’amica ad accorgersi della sua presenza: sorridendo, salutò anche lei con un cenno della mano e avvertì Federica. Si salutarono e si abbracciarono come se si vedessero rivedere tra mille anni.
Salendo in macchina, con la sua grazia mascolina, disse: “Ciao papo, come stai? Andiamo subito a mangiare, c’ho una fame che non ci vedo!”
Viste le insistenze di Federica, si fermarono poco più avanti, in una trattoria da camionisti (garanzia di cibo ottimo e abbondante). Incurante della dieta, che regolarmente iniziava e interrompeva ogni settimana, ordinò una Carbonara, una bistecca ai ferri e le immancabili patatine fritte. Massimo prese soltanto una tagliata di manzo e della rughetta di campo. Mentre mangiavano, Federica, sempre col suo tono di voce alto e agitato, iniziò la sua lunga lista di lamentele: l’istitutrice del convitto è una stronza; la professoressa di matematica ce l’ha con me, così come pure quella di inglese e quella di spagnolo; la mia compagna di stanza mi ruba i vestiti; i ragazzi sono tutti infantili e bastardi, ecc., ecc. Il padre l’ascoltava pazientemente, intervenendo, quando necessario, a suo favore e, quando lo riteneva obiettivamente giusto, a suo sfavore, facendole notare con garbo che in quella determinata occasione la ragione non era dalla sua parte. Salvati cielo! “Ecco, ora ti ci metti anche tu! Sempre a darmi contro. Basta! Non ti racconto più niente.” Il padre, sempre con calma e pazienza, cercava di motivare il suo punto di vista: “Amore, non ti do contro, ma non puoi pensare di avere sempre ragione. Molte delle cose che ti accadono sei tu a procurarle, col tuo atteggiamento di sfida, con le tue espressioni del viso che dicono più di tante parole, con il tono che usi e con quella tua maledetta filosofia del “mi spezzo ma non mi piego”. Sapersi piegare, che non significa essere codardi e servili, è un atteggiamento maturo e intelligente. Piegarsi significa non prendere un muro in pieno, significa cercare di frenare e sterzare per rendere l’impatto meno disastroso. Là fuori, la vita è dura e se non saprai adattarti, ti spezzerà!” Lo sguardo della figlia gli fece capire che, ancora una volta, aveva sprecato inutilmente fiato e parole.
In fondo, quella parte del carattere gli piaceva, ma nello stesso tempo, da padre, aveva paura che si facesse male. Ma questi sono i figli. Cerchiamo di plasmarli a nostra immagine e somiglianza, con la presunzione che noi siamo perfetti, dimenticando che sono individui autonomi e che la loro unicità è la parte più affascinante della natura umana.
Imboccarono l’autostrada verso Roma, era una bella e soleggiata giornata di fine settembre, sembrava che l’estate proseguisse, ignorando il calendario. All’improvviso Federica si tolse le cuffie che, ahimè, non filtravano a sufficienza la noiosa, insulsa, deprimente, volgare musica rap nostrana che ascoltava, e con voce gentile, quella delle occasioni migliori e di quando doveva chiedere un favore, disse: “Papino mi fai guidare un po’?!?” “Come, guidare?!? Ma se neanche hai la patente.” Lei, angelicamente, disse: “Ma è una pura formalità burocratica, lo sai che la macchina la so portare.” Lui, già rassegnato, disse: “Sì, sì, lo so, ma questa pura formalità burocratica, come la chiami tu, mi può costare il sequestro dell’auto, il ritiro della patente, ecc., ecc.” Federica, in effetti, l’auto la sapeva portare e anche bene. Il padre, da buon ex pilota, all’età di 5 anni l’aveva sbattuta su un kart, dicendole: “Schiaccia quel pedale e vai!”. Era un talento naturale, aveva vinto vari trofei, poi era passata alla Formula Junior, vincendo il campionato italiano. Alcune esperienze nella classe Turismo e Gran Turismo, poi, come era nel suo carattere, mollò tutto con una banale giustificazione: “Comincio ad annoiarmi”. Il padre ci rimase un po’ male, ma non la contrastò, non l’avrebbe mai obbligata a fare una cosa che non amava e non sentiva al cento per cento. Era fatta così, era come se non volesse mai portare le cose fino in fondo o come se la stimolasse di più fare una cosa nuova, affrontare altre sfide.
Massimo accostò nella piazzola di emergenza, scese dall’auto, si guardò intorno guardingo, cedette la guida a Federica che, ripartendo, lasciò due baffi neri sull’asfalto. “Ehi, datti una calmata! Non sei in pista e se ci beccano passiamo la notte all’albergo Regina Coeli." Lei, con un sorriso sinistro, disse: “Tranquillo papà!” Lui, prontamente, disse: “Sì, sì, “tranquillo” è morto! Ahahahah ahahah.”
Massimo la osservava guidare e, compiaciuto, sorrideva sotto i baffi. Era bello vedere come quella ragazzina avesse il pieno controllo di quegli oltre 400 CV su quattro ruote. Era sicura, precisa, prudente, ma veloce, con quel viso sereno e quegli occhi verdi che, come laser, si muovevano veloci a scannerizzare ogni centimetro di quella lunga striscia di asfalto grigio. Dopo una cinquantina di chilometri, Massimo, disse: “Accosta alla prima banchina di emergenza, non approfittiamo troppo della fortuna. Sei brava, peccato che tu abbia mollato tutto.” Federica, alzando gli occhi al cielo, con una delle sue facce da schiaffi, disse: “Uffaaaaa, vabbè dai, non ci torniamo ancora sopra. Ora accosto.”
L’accompagnò dalla madre, si sarebbero rivisti il giorno dopo per festeggiare il suo compleanno e per salutarla prima della partenza.
Quella sera si sarebbe visto con Francesca e già presentiva una burrasca. Francesca ancora non sapeva nulla della partenza e sicuramente non l’avrebbe presa bene.
Avevano cenato all’aperto, da Gildo, un ristorantino in Trastevere. Gildo era morto da anni e a servirli era la figlia. Massimo, ogni volta che la vedeva, aveva un brivido. Era la copia perfetta del padre, anche nella gestualità e nel modo di esprimersi, confermando la sua teoria che l’immortalità sono i figli. Muori realmente solo quando il tuo sangue non scorre più nelle vene di nessuno.
Livia, col suo cordiale sorriso, portò il dolce, un limoncello per Francesca e l’ennesimo caffè per Massimo.
“Lunedì parto.” Questa breve frase ruppe il silenzio. Francesca, col bicchierino di limoncello in mano, alzando gli occhi verso di lui, disse: “Non mi avevi detto niente. Dove vai?” Lui, temendo la reazione di lei, serafico e col tono di chi vuole sminuire la gravità della notizia, rispose: “Non lo so esattamente, starò via per due o tre mesi.” Lei, poggiando con mano tremante il bicchiere di limoncello sul tavolo, socchiudendo gli occhi come la lama di un coltello, facendogli da eco, disse: “Due o tre mesi?!? Quando pensavi di dirmelo?!? Ti ha dato di volta il cervello?” Lui, prendendole la mano, con un sorriso rassicurante, disse: “Non prenderla così, è una decisione che mi è scattata in quest'ultima settimana. Ho perso il controllo di me, non so più chi sia, sono infelice, voglio provare a ritrovarmi. L’unico modo è tagliare con tutto e con tutti. Non è stata una decisione facile, ma devo farlo! Devo farlo per me, per mia figlia, per te, per il nostro futuro. Non so come spiegarmi. Spero tu possa capire.” Stranamente, il volto di Francesca si rasserenò e guardandolo con sguardo intenso e quasi commosso, con voce calma, disse: “Credo di capirti. Fai quello che ritieni sia meglio per te, un uomo infelice non mi serve a niente. Ti aspetterò come ho sempre fatto.” Massimo rimase colpito dalla sua reazione e dalle sue parole, sapeva che era una donna in gamba e che lo amava, ma non credeva fino a questo punto. Con voce dolce, disse: “Grazie per la tua comprensione. Cercherò di tornare migliore.”






