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Dopo la partenza di Rocco, i pomeriggi, con la Rolls Royce, facevano avanti e indietro sulla via principale della città, con Bruno che, sbracciandosi dall’auto, gridava: “Stasera festa a Villa Blanco! Tonight party al Villa Blanco! Esta noche fiesta en Villa Blanco! Hente aben party in der Villa Blanco! Soirée ce soir à la Villa Blanco!” Erano acclamati come delle rock star!
La villa apriva i cancelli a mezzanotte e, quando andava bene, li richiudeva alle otto del mattino. In quel lasso di tempo, succedevano cose che non basterebbe un altro libro per descriverle. Un paio di ragazzoni del posto, che si prestavano per amicizia e convenienza, facevano da gorilla, cercando, quanto possibile, di fare una selezione dei numerosi partecipanti. Per esempio, non facevano entrare quelli che erano già sbronzi fradici, gruppi di soli ragazzi sfigati senza donne, persone di età superiore ai 35 anni e così via.
Matias e Florencia, la coppia di cileni, erano abituati a quelle feste ed erano dei collaboratori insostituibili, sempre sorridenti e disponibili. Per una questione di “sicurezza pubblica”, era vietato occupare o appartarsi in luoghi della casa che non fossero il salone e l’enorme giardino, ma non era sempre facile far rispettare le regole. Musica a palla, fiumi di alcool, birra, champagne e non solo. Mediamente ogni notte c’erano non meno di 400/500 persone ed altrettante erano state costrette a restare fuori. Mediamente ogni notte, dopo le quattro del mattino, la metà erano nudi o seminudi. L’altra metà era in piscina vestita o infrattata in qualche angolo del giardino o della casa a copulare. Tutti erano ubriachi!
Bruno si occupava principalmente delle public relations, Roberto dell’ordine e della sicurezza, Massimo, essendo il più carino, dei rapporti col sesso femminile.
Pur non andandosela a cercare e nonostante la sua timidezza, non c’era una notte che non si trovasse a letto con almeno un paio di ragazze mozzafiato, quasi mai italiane. Le italiane, si sa, se la tirano troppo. Socializzò con mezzo mondo. Una specie di ONU del sesso.
Dopo nottate del genere, era difficile che si andasse al mare prima delle due del pomeriggio, infatti era meno abbronzato di quando ero partito. La mattina le spiagge erano deserte, frequentate soltanto da famiglie e bambini urlanti.
Un giorno decisero di fare pausa, anche perché i poveri Matias e Florencia erano allo stremo. Si organizzarono con un gruppo di scalmanati per andare a Lloret de Mar, nella famosa discoteca Revolution. La sera cenarono in un ristorantino caratteristico, con piccoli tavoli all’aperto, in compagnia di Margaret, Kerstin e Camille. Una sorta di UE ante litteram. Roberto, involontariamente, diede spettacolo. Non so bene a cosa gli servisse, ma gesticolando, in direzione del cameriere, cominciò a gridare: “Camarero, camarero, portame un po’ de burro. Burro!” Il cameriere, un ragazzone con la barba, gli buttò un’occhiataccia da lontano, ma non venne. Roberto, sempre gesticolando con la mano alzata, ripetette: “Burro, burro!” Il cameriere arrivò con le mani sui fianchi e minacciosamente, disse: “Burro?!? Eres un burro!” Roberto, spazientito, disse: "Sì, burro. Burro!” Per fortuna intervenne Bruno, che un po’ di spagnolo lo masticava, e singhiozzando dalle risate, disse: “A Robè, gli stai dando dell’asino, apposta è incazzato! Ahahahahah. Burro, in spagnolo, significa asino. Ahahahahah.” Poi, rivolgendosi al cameriere, disse: “Lo siento, mi amigo queria mantequilla.” Per fortuna il cameriere capì l’equivoco e sorridendo si allontanò. Roberto, imbarazzato, disse: “Sti cazzo de spagnoli, ma come parlano? Mo me spalmo un asino sul pane!” Cercarono di tradurre l’accaduto alle loro amiche e cominciarono tutti a ridere, senza più riuscire a prendere fiato.
Finita quella ilare cena, fecero una passeggiata per le viuzze del paese. Era l’ora di punta, locali di ogni tipo erano gremiti di giovani che, con le loro diverse lingue, creavano nell’aria, già satura di profumi di birra, alcool e spinelli, suoni armonici e dissonanti.
L’eco della musica, che riempiva l’aria di quella stellata notte d’estate, gli annunciò che erano quasi arrivati a destinazione. Nel buio della notte, gli apparve questa bianca, imponente, cattedrale della musica e del divertimento: Il Revolution! Un’immensa arena ovale, dove invece dei gladiatori che rischiavano la vita, c’erano giovani che rischiavano la sordità. Lampi di luci multicolori, seguendo il ritmo dell’assordante musica, illuminavano, a intervalli, una moltitudine di corpi in movimento, come onde sul mare. Non avevano mai visto nulla di paragonabile.
Con le loro simpatiche amiche si buttarono nella folla. Ne uscirono, non si sa bene come, verso le prime ore dell’alba.
Purtroppo, come tutte le cose belle, anche quelle vacanze volsero al termine. Bruno e Roberto erano già partiti da due giorni.
Massimo partì da Tossa de Mar che era già tarda mattinata, dopo saluti vari, abbracci, baci e promesse di rivedersi presto, coi nuovi amici e amiche di avventura. Nel ritorno da una vacanza ti accompagna sempre un po’ di tristezza, di nostalgia, di rimpianto, di paura, all’idea di dover riaffrontare la routine della vita quotidiana. Quel viaggio non fece eccezione, anzi… Per quanto fosse stato distratto e stordito da quella fantastica avventura, il pensiero di Paola non lo aveva mai abbandonato. Si sentiva mutilato, era come se gli mancasse una parte di sé.
La radio trasmetteva canzoni francesi e i suoi pensieri correvano più veloci della sua macchina, quando, poco prima di Narbonne, sul bordo della strada, vide una ragazza che, col pollice alzato, faceva l’auto-stop.
Era bianchissima di carnagione, lunghi capelli lisci, biondo platino, alta, magra, con un lungo vestitino con motivi provenzali e uno zainetto sulle spalle. Era così eterea, che sembrava un angelo caduto dal cielo. Massimo si fermò, lei gli venne incontro, abbassandosi all’altezza del finestrino (fu lì che vide i suoi occhi grigio-azzurri e il suo sorriso gentile) e in francese disse: “Ciao, puoi darmi un passaggio fino ad Avignon?” Incantato, rispose: “Ti posso accompagnare per un po’, io poi proseguo sulla strada costiera, sto tornando a Roma.” Lei, aprendo lo sportello e accomodandosi in macchina, disse: “Va bene, grazie, mi porterai fino a Nimes, poi da lì troverò un altro passaggio.” Appena furono ripartiti, lei disse: “Mi chiamo Chantal.” Lui, in quel momento, pensò che un nome più bello e più francese di quello non potesse averlo. Voltandosi per un attimo verso di lei e porgendogli la mano, disse: “Io sono Massimo.” La sua mano era esile, con lunghe dita affusolate, provò un’emozione a quel contatto.
Era timida anche lei e durante il tragitto non parlarono molto, giusto qualche frase di convenienza e qualche informazione di conoscenza. Dopo un paio d’ore, erano a Nimes, accostò la macchina sul ciglio della strada e stava per salutarla, quando, all’improvviso, si rese conto che non poteva far volar via quell’angelo, che aveva ancora bisogno di stare con lei. La guardò imbarazzato e con un sorriso ebete, disse: “Dai, ti accompagno fino ad Avignon.” Lei, ringraziandolo con gli occhi e col sorriso, richiuse lo sportello.
Chantal aveva 21 anni, la sua stessa età, era di Strasburgo e frequentava la facoltà di lettere e filosofia. Era ad Avignon in vacanza, in compagnia di altri amici. Era così diversa da tutte le ragazze che aveva conosciuto e frequentato a Tosse de Mar, era l’esatto opposto, e poi sentirla parlare in francese era come musica. Pensò che il francese fosse la lingua più sensuale e femminile del mondo.
Dopo poco meno di un’ora arrivarono ad Avignon, la città dei Papi. Era tardo pomeriggio e faceva molto caldo. Lei lo prese per mano e, facendogli da cicerone, lo portò in giro per la città. Arrivarono fino al “Palais des Papes”, un enorme e suggestivo edificio gotico, lì si sedettero su un gradino e lei gli raccontò tutta la storia di quel palazzo e dei Papi che vi avevano risieduto. Lui, capì non più del 50% di quello che lei diceva, ma era comunque un piacere sentirla parlare. Si fece sera, a malincuore disse che sarebbe dovuto ripartire. Lei, con la sua naturale dolcezza, tirandolo per mano, disse: “Ma devi mangiare, il viaggio è lungo. Dai, vieni all’ostello che ti preparo qualcosa.” La seguì, come un cucciolo segue il suo padrone. Arrivati all’ostello, rispondendo al saluto di altri ragazzi e presentandolo ad alcuni di loro, lo portò fino alla mensa, lo fece sedere ad un tavolo, e rassicurandolo, disse: “Aspettami qui, ti preparo qualcosa da mangiare e torno. Vuoi un po’ di pasta?”. Incoscientemente, rispose: “Sì, grazie.”. Tornò dopo un po’ con due fumanti piatti di spaghetti al pomodoro e una Coca Cola. L’aspetto non era dei più invitanti: i poveri spaghetti erano accasciati sul piatto, segno della loro eccessiva cottura, e ricoperti da una salsa di color rosso intenso. Mise in bocca la prima forchettata e i suoi sospetti vennero confermati. Erano, ovviamente, scotti e la salsa era una specie di aspra conserva di pomodoro. Lei, sorridendogli, disse: “Buoni?!?” Lui, mentendo spudoratamente, rispose: “Buonissimi!” Lei, guardandolo con quegli occhi color cielo prima di una tempesta, facendo una smorfia con la bocca, disse: “Lo so che stai mentendo! Nonostante mio padre faccia il cuoco, io in cucina sono un disastro e poi, per un italiano, questi spaghetti difficilmente possono essere definiti buoni. Ahahah, ahahah.” Lui, disse: “Touché! Ahahahahah, ahahahahah.”
Finita la “cena”, venne il momento di salutarsi: lei lo accompagnò fuori dell’ostello, fino alla macchina. Parlarono più con gli sguardi che con le parole. Avrebbero voluto dirsi mille cose, farsi mille promesse, ma non ci riuscirono. Alla fine, un abbraccio e un semplice “Adieu!”
Massimo partì e gli sembrò di aver dimenticato qualcosa, come quando esci di casa e fai l’inventario di quello che puoi aver dimenticato: i soldi, le chiavi, gli occhiali, il gas acceso. Fece non più di cinque chilometri di strada, con i fari che bucavano il buio della notte, poi capì cosa aveva dimenticato, cosa gli mancava: lei!
All’improvviso fece un’azzardata conversione ad “U” e, pigiando forte sull’acceleratore, tornò sui suoi passi. I fari della macchina la illuminarono, era ancora lì, dove l’aveva lasciata. Non poté crederci, forse era solo frutto della sua immaginazione, non poteva essere ancora lì. Bloccò i freni, facendo stridere le gomme, scese dalla macchina e le corse incontro. Si abbracciarono come se non si vedessero da un secolo e si baciarono come se da quello dipendesse la loro vita. Massimo provò una sensazione di completezza, di ricongiungimento, di serenità, per aver ritrovato quello che avevo dimenticato e che avrebbe rischiato di perdere per sempre.
Lei disse semplicemente: “Je t'attendais. Je savais que tu reviendrais! »
Erano due ragazzi diversi, non più timidi, ma pieni di passione. Si dissero che si sarebbero scritti, che si sarebbero sentiti al telefono, che si sarebbero rivisti presto. Con quel bagaglio di speranza si salutarono e andarono ognuno per la sua strada.
Massimo riprese la strada del ritorno verso Roma, questa volta certo di non aver dimenticato nulla, certo di aver trovato qualcosa. Che strana la vita, per quindici giorni era stato circondato da belle ragazze, poi, quando tutto era finito, al ritorno, una ragazza che fa l’auto-stop, dà un passaggio al tuo cuore e lo porta in paradiso. Ma, questa è un’altra storia.
“Che figata ‘sta specie de moto!” Questa esclamazione interruppe i ricordi nei quali si era perso e lo riportò in un attimo alla realtà. Si guardò a fianco e vide un ragazzone coi capelli rasati, barba folta e numerosi tatuaggi che, guardandolo con un accattivante sorriso, cercava di attirare la sua attenzione. “Bella! Che cos’è?” Massimo, per l’ennesima volta, dette sintetiche informazioni e con garbo si accomiatò dal ragazzone. Lo vide allontanarsi verso un folcloristico gruppetto di Harleysti.
Decise di proseguire in direzione di Genova, voleva rivedere Tossa de Mar.
Massimo era soddisfatto di quell’acquisto, gli dava un onnipotente senso di libertà e più strada percorreva, da ex pilota e da ingegnere, più ne apprezzava le qualità.
Verso le quattro del pomeriggio arrivò a Sanremo: aveva sulle spalle già 650 chilometri percorsi, ma non si sentiva particolarmente stanco e poi era presto. Decise che avrebbe voluto cenare sul lungomare di Cannes o, perché no, nell’amata e trasgressiva Saint Tropez. Poi avrebbe deciso. Si sedette in un bar del centro storico di Sanremo, ordinò un caffè, si accese una sigaretta e consultò il suo iPod. Come da sue tassative disposizioni, non c’erano messaggi dal suo autosalone, ma messaggi di qualche amico, qualche seccatore e l’unico messaggio che gli interessava: “Ciao papino come stai? Dove sei arrivato? La prossima volta che decidi di fare un viaggio porti anche me. Non un viaggio di un mese perché sennò mi rompo, ma una quindicina di giorni si può fare.” Le rispose subito: “Ciao amore, sto benissimo, sto a Sanremo e mi sto bevendo un caffè, poi riparto e vado in Francia. Vabbè, che coi tuoi voti in geografia è come se ti parlassi cinese. Poi ti mando qualche foto per chiarirti le idee. Certo che lo faremo un viaggio insieme, col triciclo, è una figata. Mi raccomando, inizia bene l’anno scolastico, non fare come il tuo solito, che concentri tutto nell’ultimo mese. Non rispondere male alle Prof e comportati bene.” Federica non rispose con un messaggio scritto, ma con uno vocale: “Uffa, sempre a trattarmi male e a prendermi in giro, sei proprio insopportabile! Sì, sì, studio, non rispondo male e faccio la brava… ci provo. Ahahahahahahah. Ti voglio tanto bene. Divertiti!”
Percorrendo la Croisette, passò davanti al Grand Hotel de Cannes, dove aveva trascorso tanti soggiorni piacevoli, ma in quel momento decise di proseguire verso la più sbarazzina Saint Tropez: Cannes, specie in quel periodo di fine estate, era così formale che lo metteva quasi a disagio.
Arrivò a Saint Tropez quasi al tramonto, l’aria era tiepida e piacevole. Parcheggiò la CAM AM, si tolse la tuta, le scarpe e, come un ragazzino, a piedi nudi attraversò la spiaggia fino al mare. C’erano poche persone, qualche coppia di ragazzi che si scambiavano effusioni e un gruppetto di giovani, più rumorosi, che salutavano la fine di quella giornata con birre e colorati aperitivi. Massimo si sedette sulla spiaggia, vicino al mare, calmo e frusciante che, con la sua leggera risacca, gli lambiva i piedi. Adorava il mare, si fissava verso l’orizzonte e, come un gabbiano, volava verso l’infinito. Gli trasmetteva tanta pace e libertà.
Si fermò per la notte all’Hotel de la Ponche: incastonato in quel borghetto marinaro, gli ricordava un po’ Positano e Portofino. Gli ricordava anche tante giovanili scorribande e romantiche nottate. Erano almeno venti anni che non ci tornava, ma il direttore lo riconobbe subito e gli andò incontro con la mano tesa e con un sorriso sinceramente cordiale, esclamando: “ Monsieur De Labì, quel plaisir et quel honneur de vous revoir!” Gli strinse la mano calorosamente e, per sottolineare il suo entusiasmo, aggiunse alla stretta anche l’altra mano. Per Massimo, quell’accoglienza fu una piacevole sorpresa e lo fece subito sentire a suo agio, a casa.
Chiese che la cena gli venisse servita in camera perché era molto stanco del viaggio, ma in realtà era perché odiava cenare da solo. Quando andava al ristorante e vedeva una persona sola che cenava, si sentiva sempre molto a disagio per lei, pensando a quanto potesse essere sola da non riuscire a trovare qualcuno con cui cenare. Sue paranoie, come tante altre.
Di buon mattino era già pronto per partire, ma prima fece una passeggiata in spiaggia, respirò l’aria fresca e salmastra, godendosi quel che restava di quella fantastica alba. Anche quella volta, come tante altre volte davanti al mare, si disse che, divenuto più vecchio, si sarebbe ritirato in una casa affacciata sul mare.
Si mise in marcia con l’idea di fare tutta una tirata fino a Tossa de Mar, alzò gli occhi al cielo e vide nuvole scure che si rincorrevano velocemente, non promettendo niente di buono. Fece spallucce e partì. Per quanto corresse, dopo due ore circa di viaggio, quelle nuvole scure lo raggiunsero e, aprendosi, riversarono sulla terra l’ira di Dio. Massimo proseguì imperterrito per altri 10 chilometri, poi vide l’indicazione Avignon, gli balenarono nella mente altri ricordi e decise di andarci.
Nella sua mente ancora il ricordo di Chantal, di quella dolce ragazza francese con la quale c’era stata una promessa non mantenuta.
Dopo quel romantico addio, si erano sentiti spesso al telefono e dopo circa tre settimane, Massimo aveva deciso di raggiungerla a Strasburgo.
All’aeroporto di Strasburgo, tra tanta gente in attesa, scorse Chantal, era più bella di quanto si ricordasse. Da quell’addio, erano trascorse tre settimane e gli sembrava un’eternità. Attraverso i tanti messaggi e telefonate aveva imparato a conoscerla, a sapere tante cose di lei, della sua vita, del suo carattere. E’ incredibile come la distanza sia capace di avvicinare e far raccontare cose che in presenza spesso non vengono dette.
Prese a noleggio una Golf blu e si diressero verso l’albergo. Durante il tragitto, Chantal disse: “Ora posi la valigia in Albergo e poi andiamo a pranzo dai miei genitori, che ti aspettano. Come ti ho già scritto, abitiamo fuori città e ci vorrà una mezz'oretta di macchina per arrivare.” Poi, con un tono dolce come una carezza, aggiunse: “In tutto questo tempo non ho fatto altro che pensarti, avevo paura di non rivederti più, come quella sera ad Avignon. Credo che ti avrei aspettato per ore.” Le accarezzò la mano che teneva poggiata sul suo ginocchio.
Dopo una trentina di minuti lasciarono la strada principale e deviarono su una stradina bianca che attraversava un bosco di abeti. Seguendo le sue indicazioni scorse una villetta, su due piani, col tetto spiovente come le case di montagna, con tegole antracite. Lei disse: “Siamo arrivati.” Incontrare i genitori di una ragazza lo metteva sempre in grande agitazione, figuriamoci francesi. Entrando c’era una grande sala soggiorno, con il camino, poltrone e divani. Gli venne incontro la madre, una donna bella ed alta, sulla cinquantina, che ossequiosamente lo salutò. Era già pronto in tavola, si accomodarono in un’ampia cucina, intorno ad un tavolo rotondo. Già sedute al tavolo, c’erano le tre sorelle minori di Chantal che, nel vederlo, fecero sorrisetti maliziosi tra loro. Erano tre belle ragazze anche se la più bella era sicuramente Chantal.
Timidamente, si presentarono e lui, più timido di loro, si presentò con ostentata sicurezza. Il padre, cuoco di professione, un grosso omone, calvo, di almeno 120 chili, era di spalle, occupato coi fornelli, si voltò appena e gli fece un bonario cenno di saluto.
Massimo si sentiva morire dall’imbarazzo e tra sé pensò: – “In che guaio mi sono cacciato? Ora che gli dico a questi? Chi li capisce? Mamma mia aiutami tu!”– Chantal, per fargli coraggio, gli stringeva la mano sotto il tavolo.
Cominciò il pranzo, si susseguirono numerosissime portate e ad ogni portata corrispondeva un nuovo, specifico, tipo vino. Il papà cuoco diede il meglio di sé e prova di squisita ospitalità. La conversazione fu scarsa a causa di un certo imbarazzo generale e di una oggettiva difficoltà di comprensione. Finalmente l’interminabile pranzo finì, Chantal lo prese per mano e, portandolo al piano superiore, lo fece entrare nella sua stanza, chiuse la porta e lo baciò.
Si sdraiò sul letto e lo invitò a fare altrettanto. Lui, imbarazzato, disse: “Ma se entra tua madre?” Lei, con la massima naturalezza, serenamente, rispose: “Non lo farebbe mai! Se io accetto una persona, l’accettano automaticamente anche loro. E’ una questione di fiducia.” Gli sembrò di ascoltare un alieno, venuto da chissà quale galassia sperduta dell’universo e tra sè, pensò: “Proprio come da noi in Italia! Sempre con la lupara spianata. Ahahahah, ahahahah.”
Rassicurato si sdraiò anche lui e si lasciarono andare a dolci effusioni, sebbene, nonostante le rassicurazioni, fosse teso come una corda di violino. Chantal, con tono sensuale, nella sua ancor più sensuale lingua francese, disse: “Je veux faire l'amour avec toi! Allons à l'hôtel. » Il suono delle sue parole fu così chiaro e inequivocabile che non ci fu bisogno del traduttore.
Le cose più sofferte e più desiderate sono sempre le più belle. Quel momento lo avevano aspettato da tanto, lo avevamo coltivato, giorno dopo giorno, tra le righe dei loro messaggi d’amore. La lontananza acuisce i sensi, forse per compensare l’assenza fisica della persona amata. In quelle settimane i loro sensi si erano già incontrati, si erano già uniti, avevano già fatto l’amore. Quel giorno, in quell’albergo, fecero fisicamente quello che avevano già fatto. Non ci furono equilibrismi da kamasutra, lo fecero nel modo più tradizionale e scontato, ma fu intenso e bellissimo! Fare l’amore e sentirsi sussurrare: “Je viens, je jouis, je jouis,…” è l’esperienza erotica più fantastica che si possa immaginare. Lei fu così naturale e spontanea che Massimo si sentì un po’ provinciale. Da buon italiano, non riusciva a scrollarsi di dosso quell’inconscio senso del peccato legato all’atto sessuale. D’altronde, la religione cristiana è l’unica che si accanisca contro i piaceri del corpo. Fecero l’amore tutto il pomeriggio. Quando Chantal era felice i suoi occhi si rischiaravano, come se quelle leggere nubi grigie si dissolvessero e lasciassero spazio solo all’azzurro. Con quegli occhi limpidi e azzurri, con una voce che sembrava una carezza, gli sussurrò: “Je t’aime.”
Un attimo dopo, quelle nubi grigie tornarono nei suoi occhi e, con tono imbarazzato, disse: “Avrai capito che non sono più vergine!?! Non vorrei che questo ti avesse deluso.” Lui, guardandola con tenerezza e sorridendo, ironicamente, disse: “Amore, sarò anche italiano, ma non pretendevo certo che tu perdessi la verginità, aspettando me, sul ciglio di una strada col pollice alzato. Ahahahahah, ahahahaha.” Rassicurata, scoppiò a ridere anche lei. Incalzandola, disse: “A volte, voi stranieri, avete un’immagine un po’ retorica di noi italiani: pizza, maccheroni, mafia. Non siamo soltanto questo…siamo anche peggio! Ahahahahah, ahahahah.” Chantal ci mise un po’ a capire la battuta, per colpa del pessimo francese di Massimo e per colpa del suo scarso senso dell’umorismo franco-germanico, ma poi, finalmente, sorrise.
Verso il tardo pomeriggio uscirono, il cielo era grigio come quella grigia ma bella città, faceva già abbastanza freddo e, mano nella mano, iniziarono il tour. Aveva un po’ di imbarazzo a passeggiare con lei, perché, senza tacchi, era almeno cinque centimetri più alta di lui. Si sentiva come un bambino a spasso con la mamma.
Cenarono in un bistrot e poi lo portò in giro per i locali frequentati da giovani, caratteristici del luogo. Era venerdì sera e, come in tutti i posti del mondo, ci si dava alla pazza gioia.
Arrivarono in un piazzale, dove su un prato verde era parcheggiato un grosso aereo, un bimotore a eliche, con lampeggianti insegne al neon. Salirono la scaletta, all’interno era pieno di ragazzi e ragazze, seduti su divanetti, con enormi boccali di birra in mano. Nella ex cabina del pilota c’era la postazione del deejey che, con le cuffie in testa, faceva volare in alto i decibel. A servire i tavoli c’erano belle hostess con tanto di divisa.
Dopo di lì, andarono in un altro bizzarro ed originale locale: questa volta era un enorme vagone passeggeri di un treno degli anni ’50, adibito a discoteca. Era pieno come un vagone di deportati, solo che in quel caso la gente si divertiva da pazzi. Trovarono posto su dei sedili, insieme ad un altro gruppo di ragazzi. Massimo, mentre stavo bevendo una birra, nella nebbia del fumo delle sigarette, ebbe una visione! Non voleva crederci. Aguzzò la vista e, sì, era lei, era proprio lei. Era Francoise Hardy! Era un suo fan, era pazzo di lei. Alta, magra, con quei lunghi capelli biondi e le labbra carnose, anche se non più giovanissima. In quel momento si rese conto che la sua Chantal le somigliava molto. Mise al corrente Chantal della sua passione per quella cantante. Lei, gli sorrise, si alzò e andò a parlare alla Hardy. Si salutarono affettuosamente, sorridendo: Chantal, per superare la musica assordante, le disse qualcosa all’orecchio, subito dopo lo guardarono e si avviarono verso di lui. Si conoscevano! Che coincidenza, che emozione. Avrebbe voluto sotterrarsi. La Hardy, con la sua voce calda e sensuale, guardandolo negli occhi, disse: “Comment ca va?” Lui, deglutendo, rispose: “Ca va bien!” Si trattenne con loro per un po’, conversando affabilmente, poi, gentilmente, salutò e raggiunse i suoi amici. Poi, Massimo scoprì che erano cugine. Ecco spiegata la somiglianza. Che serata indimenticabile!






