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Rientrarono tardi in Albergo, stanchi, allegri e con qualche squisita birra alsaziana di troppo. Lei infilandosi nel letto, ironicamente e senza falsa gelosia, disse: “Ti va bene lo stesso, anche se non sono Francoise Hardy?” Lui, di rimando, rispose: “Ti va bene lo stesso, anche se non sono Alain Delon? Ahahah, ahahah.” Andò benissimo a tutt’e due e fecero l’amore per quel che restava di quella magica notte.
Si svegliarono tardi, fecero colazione e programmarono la giornata. Il tour prevedeva la Cattedrale di Notre Dame, il Palazzo di Rohan, la Grand Ile, un giro sul battello, la Petit-France, shopping e bistrot. Era così piacevole stare con lei, così serena, dolce, determinata, piena di attenzioni per lui, che ci sarebbe andato anche in capo al mondo. La città era bellissima, ordinata, pulita, con un’atmosfera che era una fusione di raffinatezza francese e consistenza tedesca.
Chantal lo portò a cena in una “Winstube”, tipica taverna alsaziana. All’interno spiccavano le tovaglie rosse e una calda atmosfera di altri tempi. Prese in mano il menù, ma dopo una rapida scorsa, lo richiuse e poggiandolo sul tavolo, disse: “Ordina tu, perché io non ci capisco niente.” Lei, rise, poi facendo un cenno al cameriere, che arrivò con aria gentile e disponibile, in una lingua per lui incomprensibile ordinò la cena. Appena il cameriere si fu allontanato, con fare curioso, disse: “Sono affamato! Cosa mi farai mangiare di buono?” Lei, armandosi di pazienza e parlandogli nel modo più comprensibile possibile, disse: “Ho ordinato del Patè de foie gras, forse non lo sai, ma lo abbiamo inventato noi a Strasburgo, poi il Fleishenschneke, che sono delle girelle di carne con pasta, e infine i Choucroute, del cavolo salmonato. Da bere ho ordinato il nostro capolavoro, un Gewurztraminer.” Massimo, ironicamente, disse: “Spero che siano tanto buoni, quanto sono difficili da pronunciare. Ahahahahah.” Chantal si stava abituando alla sua stupida ironia e rise anche lei.
Finita la cena, con aria soddisfatta, disse: “Ho mangiato molto bene, era tutto buono e poi è bello scoprire i sapori di un altro paese. E’ un modo per entrare nel suo intimo.” Alzando il bicchiere, disse: “A noi, al nostro amore, al nostro futuro.” Restarono per un po’ a parlare e a sorseggiare quel magnifico nettare. Chantal, facendosi seria, disse: “Sono un po’ triste, domani partirai e non so quando ti rivedrò. Ti amo e vorrei vivere sempre con te. A proposito, i miei ci terrebbero a conoscere le tue intenzioni nei miei confronti, sai, sono persone all’antica… Se vuoi, domani andiamo a pranzo da loro e poi gli parlerai.” Era così preso da quella ragazza, che l’avrebbe sposata il giorno dopo. Con naturale sicurezza, disse: “Certo amore, domani gli parlerò. Gli dirò che ti amo e che voglio sposarti. Mi inginocchierò e chiederò la tua mano! Ahahahah.”
Aggiunse: “Ma tu, vuoi sposarmi?” Lei, con gli occhi azzurri e limpidi come un’alba d’estate, rispose: “Lo voglio da quella sera che, ad Avignon, ti ho visto tornare.”
Come al solito fecero uno di quei pranzi con diciotto portate e diciotto bottiglie di vino. Era una bella famiglia. Il padre e la madre, mano nella mano, su un divano del salotto, lui e Chantal, mano nella mano, sul divano di fronte. Radunando tutte le sue forze, per superare l’imbarazzo, formulando le frasi in italiano e cercando poi di tradurle in francese, disse: “Vi ringrazio per l’ospitalità. Sono qui perché amo vostra figlia e perché vorremmo sposarci. Spero che Chantal tra qualche settimana possa venire a Roma a conoscere i miei.” Il padre e la madre si sciolsero in un sorriso di approvazione e, anche se non capì esattamente cosa dissero, gli diedero il loro consenso.
Lo salutarono con un abbraccio affettuoso e le tre sorelle, ridacchiando, si misero in fila per baciarlo. Passarono in albergo per fare la valigia e fecero l’amore per un’ultima volta. Fu diverso, fu più intimo, più appassionato, come se quella dichiarazione d’amore avesse aperto delle porte socchiuse.
Il viaggio di ritorno in aereo non fu eccitante e piacevole come quello di andata. Tristezza e lacrime all’aeroporto, la preoccupazione nello scoprire che il tempo era pessimo, un vicino di sedile, di almeno duecento chili, che occupava anche la metà del suo posto. Per finire, poco dopo aver consegnato i vassoi per la cena, l’annuncio della hostess che comunicava turbolenze e chiedeva di agganciare le cinture di sicurezza. Con l’aereo che saltava come sulle montagne russe, Massimo scoprì che non soffriva di mal d’aria: mentre tutti erano con la faccia nel sacchetto di carta, lui cenava tranquillamente.
Una volta rientrato a Roma, ripresero la loro corrispondenza con messaggi d’amore interminabili e telefonate quotidiane. Anche se in fondo la conosceva poco, gli mancava molto, gli mancava il suo modo di essere diversa da tutte le ragazze italiane che aveva conosciuto. Un modo di essere più evoluto, più spontaneo, più paritario, meno provinciale e non giocato su innocenti o voluti ricatti morali: le ragazze italiane hanno sempre l’ambiguo modo di fare del gatto col topo.
Facevano progetti di quando sarebbe venuta a Roma a conoscere i suoi genitori e di tutto quello che c’era da organizzare per il matrimonio. Il problema o il vantaggio di quando si decide di sposarsi è tutto il tempo che trascorre prima di poterlo realizzare. Mesi, se non anni. Se così non fosse, Massimo si sarebbe già sposato. Ma il tempo dà la possibilità di riflettere, tutte le pratiche burocratiche civili e religiose ti demotivano, l’organizzazione della festa ti preoccupa, l’onere economico ti spaventa, la proiezione futura del “per sempre, finché morte non vi separi” ti annichilisce ed allora, all’improvviso, superando qualsiasi pulsione amorosa, ti viene spontanea una domanda: “Ma che sto facendo!?!” A quel punto il panico si impossessa delle tue viscere, il respiro diventa corto e affannoso, la tachicardia incalza, la bocca si fa asciutta e un sudore freddo si spalma su ogni centimetro della tua pelle. Quando sei arrivato a porti quella domanda e a provare quelle devastanti sensazioni, l’”amore” è in serie difficoltà!
Ahimé, Massimo era entrato in quella fase, l’amava sinceramente, ma era una prova troppo grande per lui. Ci stette male per molto tempo, poi, una settimana prima che lei partisse per venire a Roma, la chiamò al telefono e disse: “Amore, non so come dirtelo, è una settimana che non penso ad altro, che ci sto male, ma devo essere sincero con te. Non me la sento di continuare. Purtroppo con la distanza che ci divide, l’unica possibilità per stare insieme è quella di sposarci, ma io non me la sento, non riesco a fare un passo così importante. Non ora. Ti amo! Aiutami tu, non so casa fare.” Lei, con tono sereno, ma triste, disse: “Che vuoi che ti dica? Quello che mi dici mi fa soffrire, ma rispetto la tua scelta. Oltre a dirti che ti amo e che avrei voluto sposarmi con te, non posso dirti altro. Non sono arrabbiata con te, sono solo un po’ delusa. Spero che tu sia felice. Adieu!”
Era ad Avignon, seduto in un pub, con in mano una tazza calda di caffè all’americana, con appesa ad una sedia la tuta zuppa che aveva fatto una piccola pozza d’acqua sul pavimento. Pensò con tenerezza a quel ragazzo poco più che ventenne, a quanto fosse diverso da lui. Ebbe rimorso per Chantal e rimpianto per lui.
Finalmente aveva smesso di piovere, fece una lunga passeggiata per la città, ripercorrendo, involontariamente, gli stessi luoghi che aveva percorso circa trent’anni prima, mano nella mano di quella dolce ragazza francese.
Era di nuovo in viaggio, il navigatore gli segnalava un tempo di percorrenza di circa 4 ore, quindi probabilmente avrebbe fatto in tempo di fare un bel bagno nelle acque limpide e calde di Tossa de Mar. Questo lo mise di buon umore, aprì il gas e fece ringhiare il suo rosso triciclo.
Come previsto arrivò poco prima delle cinque del pomeriggio e, senza starci tanto a pensare, si diresse verso l’albergo nel quale aveva alloggiato tanti anni prima. La cittadina non era caotica come la ricordava, ormai la stagione estiva era finita e i turisti erano pochi. D’altronde non era tornato in quel luogo per rituffarsi nelle pazze notti in discoteca, ma soltanto per ritrovare quel ragazzo arrivato con una vecchia Porsche e scambiarci qualche chiacchiera.
Dopo tanti anni, l’albergo era un po’ diverso, era rimodernato, ma non stravolto. Gli ospiti non erano molti e non fu difficile trovare una camera. Fu accolto con la cordialità e il calore caratteristici degli spagnoli e di chi vive di turismo. Massimo salì in camera, si cambiò rapidamente e senza esitare uscì di nuovo per raggiungere la spiaggia. Dopo dieci minuti era in acqua, con l’entusiasmo di un bambino al quale, fino a un attimo prima, era stato impedito di fare il bagno perché aveva mangiato da poco. Fece una lunga nuotata, poi, esausto ma sereno, si sdraiò sulla sabbia, chiuse gli occhi e si addormentò.
Si svegliò infreddolito, era già quasi buio, si rivestì e si incamminò verso l’albergo. Salì in camera, si fece una doccia, mise una camicia bianca e un paio di jeans. Per quella sera decise di cenare nel ristorante dell’hotel. C’erano poche persone e questo lo facilitò nel derogare dalla sua regola di non mangiare da solo in un ristorante. D’altronde, nel lungo viaggio che ancora l’aspettava, non avrebbe potuto fare altrimenti. In fondo, quel viaggio aveva anche lo scopo di uscire dalla rigida gabbia di regole nella quale si era infilato negli ultimi anni.
Con un discreto italiano, la cameriera che gli si parò davanti disse: “Il signore desidera ordinare?” Massimo la guardò e rimase per un attimo perplesso: aveva un che di familiare e, involontariamente, continuò a fissarla. La cameriera, imbarazzata dall’insistenza di quello sguardo, disse: “Vuole che intanto le porti qualcosa da bere?” Quasi risvegliato da quella voce, rispose: "Sì, grazie, mi porti un Rioja rosso.” La cameriera accennò un sorriso e si allontanò.
Massimo scartabellò per un po’ nell’archivio della sua mente, alla ricerca di quel volto conosciuto. Era una bella ragazza, mora, con scintillanti occhi neri, labbra rosse carnose e un fisico che, nonostante la rigida e austera divisa, non passava inosservato. Alla fine la trovò e tutto gli tornò alla mente, nitido, come se fosse stato il giorno prima. Solo che c’era qualcosa che non tornava. Se era lei, avrebbe dovuto avere almeno 50 anni!
Nello stesso ristorante di quello stesso hotel, trent’anni prima, c’era una cameriera che aveva fatto girare la testa e battere il cuore dell’amico Bruno, il quale non si era dato pace finché non era riuscito a portarsela a letto. In effetti, almeno per lei, non era stata soltanto una storia di sesso. Il simpatico Bruno aveva fatto breccia nel suo cuore, ma si sa come vanno a finire questi amori estivi, si parte e resta una cartolina illustrata buttata in un cassetto.
Massimo si disse che, certo, non poteva essere lei, ma sicuramente era la figlia.
La cameriera tornò al tavolo con la bottiglia di Rioja, gliela mostrò, poi l’aprì e, maneggiandola con maestria, ne versò appena nel calice. Massimo prese il calice, fece roteare delicatamente quel liquido rosso rubino, ne odorò i profumi di piccola frutta rossa e tenui nuance floreali, lo avvicinò alle labbra, ne sorseggiò un goccio e il palato fu invaso da un morbido sapore di frutta secca, mela e una nota di agrume. Posò il calice, fece un cenno di assenso con la testa e la ragazza versò il vino. Ordinò una banale “paella”, come dire, da noi, i bucatini all’amatriciana.
Quando ebbe finito di mangiare, la cameriera si avvicinò al tavolo e, garbatamente, disse: “Il signore desidera altro? Posso portarle un caffè?” Lui la guardò e con un sorriso innocente rispose: “Sì, un caffè!” Poi, aggiunse: “Scusami, devo farti una domanda…, tua madre ha lavorato qui molti anni fa?” Lei, presa alla sprovvista da quella domanda, rimase per un attimo perplessa, poi, con aria interrogativa, rispose: “Sì! Mia madre ha lavorato qui per ventotto anni, fino a due anni fa. Ma lei come fa a saperlo?” Massimo, le raccontò brevemente della sua vacanza di tanti anni prima e del suo stupore nel rivedere quella stessa ragazza che sembrava aver fermato il tempo. Ovviamente, omise di raccontare della storia della madre con l’amico Bruno.
Lei, per nulla intimidita, con tono schietto, disse: “Tra mezz’ora ho finito il turno, se le va possiamo fare una passeggiata sul lungomare, mi farebbe piacere parlare di mia madre.” Massimo, alzandosi da tavola, rispose: “Volentieri! Ti aspetto fuori, intanto mi fumo una sigaretta.” Lei, felice di quella risposta, disse: “Faccio in fretta. A dopo…”
Massimo era seduto su un basso muretto di pietre, dando le spalle all’albergo e con lo sguardo fisso verso il mare, buio come il cielo. L’unica cosa che segnava il confine di quella tenebra erano milioni di piccoli scintillanti diamanti che si contrapponevano a file discontinue di collane di perle in continuo movimento.
Sentì una leggera mano sulla spalla e un suono: “Eccomi!” Sussultò, perso com’era nei suoi pensieri e in quella infinita bellezza, si voltò e, sorridendo, disse: “Andiamo!”
Lei era bellissima, con i capelli sciolti, non più con la coda di cavallo; con un vestitino nero, leggero come l’aria, che l’avvolgeva e scopriva quello che andava scoperto, non più con quell’austera e castigata divisa; con tacchi alti, non più con quelle scarpe basse e bianche; solo gli occhi erano gli stessi, gioiosi, forti e decisi.
Gli disse che aveva 29 anni, che non aveva mai conosciuto il padre, che la madre era morta di cancro un anno prima e che, quando si era ammalata, il proprietario dell’albergo l’aveva presa a lavorare da loro.
Massimo fece due più due e gli si spalancò un mondo. Ventinove anni, padre sconosciuto e un particolare molto familiare che prima non aveva preso in considerazione. Si rese conto che non era stata soltanto l’impressionante somiglianza con la madre che l’aveva colpito, ma anche quel suo sorriso empatico, irresistibile. Il sorriso di Bruno! Certo, era la figlia di Bruno, tutto tornava.
Un’altra bizzarra sceneggiatura scritta dal destino con due attori, fino a poche ore prima, sconosciuti tra loro, come ignari protagonisti.
Da quel momento la vide con occhi diversi: anche se non lo sapeva, era completamente orfana. Sì, anche Bruno, il padre, era morto qualche anno prima in un incidente d’auto. Ora che avrebbe potuto finalmente conoscerlo, il destino ci aveva messo di nuovo lo zampino.
Si sedettero in un piccolo chiosco quasi sul mare, presero due sangrilla e continuarono a raccontarsi le loro vite e le ragioni del suo viaggio. Massimo disse: “Villa Blanca è sempre il centro delle grandi feste mondane?” Lei, guardandolo con occhi curiosi, rispose: “Villa Blanca è stata chiusa per molti anni, fu messa sotto sequestro dalla polizia. Ora, da circa vent’anni, è di proprietà di un ricco americano che ci torna ogni anno per due mesi. Ma tu che ne sai di Villa Blanca?” Massimo le raccontò quanto era accaduto tanti anni prima e l’amicizia con quel bizzarro personaggio. Scoprì così che quel bizzarro e simpatico personaggio era un affiliato alla camorra e la villa era un centro di smistamento della droga che, transitando per la Spagna, poi arrivava in Italia e nel nord Europa. Dopo il blitz la villa era stata messa sotto sequestro fino alla fine del processo. Massimo deglutì e, ripensando a Rocco, si dispiacque per la fine che aveva fatto.
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