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Valencia, abril de 2020
L’USO DELLE FONTI NELLA STORIA ECONOMICA DEL MEDIOEVO
Alberto Grohmann Università di Perugia
Alla domanda del bambino: «Papà, spiegami allora a che serve la storia», com’è noto il grande Marc Bloch rispondeva che la storia non è semplicemente la scienza che studia il passato, la storia è «la scienza degli uomini nel tempo», e la sua conoscenza è fondamentale per gli individui per «comprendere il presente mediante il passato» e allo stesso tempo per «comprendere il passato mediante il presente». Lo storico è come l’orco delle favole, sempre alla ricerca di nuove prede, per lui le prede sono i documenti, di cui non è mai sazio. Documenti che, intrecciati sempre tra loro, consentono al ricercatore di individuare elementi, dati, fatti da sottoporre a un’incessante analisi critica, onde poter giungere alla ricostruzione degli elementi fondamentali della civiltà di una fase temporale che ci ha preceduti, al fine di comprendere quella in cui viviamo e operiamo, nella piena consapevolezza che ciò che il suo lungo lavoro di analisi può fargli apparire connotato di verità potrà in futuro essere modificato e ribaltato da lui stesso o da altri, indagando su altre fonti e altri documenti.1 Il che implica che la storia, come ebbe ad affermare Lucien Febvre,2 debba essere considerata «come studio condotto scientificamente e non come scienza» in quanto si tratta di una ricerca effettuata sulla base di documenti raccolti con grande pazienza, criticamente valutati e costantemente messi a confronto gli uni con gli altri. In tal senso la storia in tutte le sue varianti e declinazioni è scienza degli uomini, che nel mutare del tempo e dello spazio hanno attribuito al «vero» un valore che si è andato modificando.
Va anche chiarito che il lavoro dello storico, per quanto accurato esso sia, è un continuo divenire e non termina mai. Lo storico è alla costante ricerca di nuovi documenti e d’inedite interpretazioni di quelli già noti, fonti che devono essere sottoposte a un’incessante analisi critica. Un serio studioso deve, però, avere la piena consapevolezza che, per quanto le sue ricerche saranno accurate, le fonti utilizzate –sia archivistiche, sia letterarie, sia iconografiche, sia cartografiche, sia bibliografiche, sia quelle più attuali delle grandi «banche dati»– saranno molteplici e continuamente tra loro poste a confronto, esisterà sempre la possibilità che altri documenti o altri modi e metodi d’approccio all’analisi potranno in futuro modificare anche sostanzialmente le conclusioni alle quali è giunto con il suo lavoro. Le nuove ricerche non toglieranno valore a quelle che le hanno precedute, ma saranno in grado di fare luce su diversi aspetti, su differenti comportamenti d’individui, gruppi, ceti, istituzioni, arricchendo il livello della conoscenza della collettività civile, dando nuovo peso a strutture ed elementi economici, sociali, politici e culturali dei quali a volte, anche nella memoria collettiva, si è perso il significato e il valore.
Va anche aggiunto che la storia non è semplicemente una scienza che studia il passato, è soprattutto un ambito culturale tramite il quale si possono comprendere le differenti opzioni che gli uomini che ci hanno preceduto hanno effettuato nel variare del tempo, dello spazio e delle loro esigenze, al fine di far sì che nel presente gli individui e le istituzioni siano in grado di effettuare le proprie scelte con maggiore consapevolezza. Se ciò è vero per la storia generale lo è ancor più per la storia economica e lo è stato in tempi passati anche per l’economia, basti ricordare la nota affermazione di John Maynard Keynes: «l’economista deve studiare il presente alla luce del passato per fini che hanno a che fare con il futuro».3 Sono convinto che un’indagine per essere effettivamente di natura storico-economica debba fare essenzialmente uso di strumenti concettuali, di categorie analitiche, di tipo di logica propri della teoria economica. Come ebbe a sottolineare Luigi Einaudi, «Per scrivere storia economica o per elaborare […] gli scarsi materiali del passato, non occorre davvero una raffinata preparazione matematica. L’essenziale è di essersi fabbricata una testa atta a comprendere in che cosa consista il problema economico, a snidarlo di mezzo alla farragine di fatti o dati secondari, di dottrine inconsistenti, artefatte o ridicole».4 In ciò lo storico economico come soggetto e la storia economica come disciplina, a mio avviso, hanno stretti rapporti con l’economista teorico, anche se quest’ultimo, purtroppo, è sempre più attratto dalle previsioni utili al futuro e tende a limitare il numero delle variabili da prendere in considerazione.
Occorrerebbe ricordare che nel significato originario del termine storia economica il sostantivo è ‘storia’ e l’aggettivo è ‘economica’. Il che comporta che in questo ambito di ricerca bisogna leggere il passato, con tutta la sua complessità e i suoi problemi, muovendo da fatti, eventi, andamenti, congiunture di carattere economico, interpretati alla luce delle teorie che avevano fatto sì che quegli eventi si realizzassero, si potessero controllare o anche indirizzare verso nuovi orizzonti, senza però tralasciare l’esigenza di comprendere perché e in qual modo gli andamenti dell’economia in ogni tempo e in ogni spazio siano stati condizionati da una pluralità di fattori, anche di natura non economica, e in primo luogo dal potere politico e da quel sistema di valori che connota ogni civiltà in una data fase temporale e in un determinato contesto spaziale. È anche indispensabile che i dati raccolti possano essere inseriti in delle serie quantitative, utili a porre in evidenza le fasi di crescita, di declino e/o di stasi dei fenomeni che vengono sottoposti all’analisi.
Va anche sottolineato che spesso nell’utilizzazione dei dati quantitativi vi è una distinzione tra gli storici generali e gli storici economici. Per lo storico generale, che tende ad adoperare come categorie principali della sua analisi la politica, le istituzioni e la cultura, i dati strutturali sono essenzialmente uno strumento per contribuire alla ricostruzione degli eventi di una data epoca e per comprendere meglio l’operato delle istituzioni e il determinarsi dei rapporti sociali. Per lo storico economico gli stessi dati strutturali sono la base di partenza imprescindibile per indagare su un determinato sistema economico, sull’andamento e sul determinarsi dei cicli, delle fasi di espansione, regressione, ristagno, sviluppo, sono le variabili storiche da applicare a un modello teorico, onde comprendere la funzionalità dello strumento concettuale della teoria. In tal senso, anche in relazione alle indagini sul Medioevo, non è l’inserimento di dati quantitativi nell’analisi che distingue il lavoro di un medievista puro da quello di uno storico economico del Medioevo, ma il metodo e la finalità dell’indagine.
Se accettiamo questa sorta di postulato –ma so bene che molti storici generali e forse anche studiosi ufficialmente addetti alla storia economica non condividono la mia ipotesi– la storia economica come disciplina e gli storici economici come ricercatori hanno più stretti rapporti con i teorici dell’economia che con gli storici in senso lato. Anche se va sottolineato che tra economisti e storici economici esistono delle differenze, che si sono andate approfondendo con il tempo e specialmente si sono acuite negli ultimi decenni. Questi divari d’impostazione metodologica hanno portato le metodologie degli storici e degli economisti a divergere: mi riferisco al periodo breve o lungo che viene posto a base dell’analisi; a un certo carattere di ripetibilità, direi di supposta razionalità, che l’economista tende ad attribuire alle sue variabili; all’esigenza propria dello storico economico di dover tenere continuamente presente la variabile istituzionale-sociale.
Detto tutto ciò, a mio avviso, va ulteriormente sottolineato che per comprendere la reale struttura del passato, le sue coordinate, i suoi cicli, la sua evoluzione, occorre necessariamente aver chiare quali siano le categorie dominanti della nostra ricerca, altrimenti si rischia di frammentare la civiltà che intendiamo studiare e la sua organizzazione di produzione, di scambio e di consumo in una miriade di piccoli settori che, per quanto singolarmente interessanti, non consentono di cogliere i tratti salienti di quella data spazialità e diacronia in cui determinati uomini sono vissuti, né di effettuare comparazioni spaziali e temporali, senza le quali la nostra ricerca non ha ragione di essere. Non bisogna nemmeno dimenticare, come ha sottolineato C.M. Cipolla, che lo storico economico, a differenza dell’economista teorico, per comprendere una data epoca e i suoi uomini, «deve prendere in considerazione tutte le variabili, tutti gli elementi, tutti i fattori in gioco. E non solo le variabili ed i fattori economici». Aggiungendo che «in altre parole, lo storico economico deve tener conto di tutte le n variabili di una data situazione storica»,5 perfino del comportamento a volte irrazionale degli uomini vissuti in una data epoca, influenzati da credenze e paure.
Come scriveva J.A. Schumpeter, per chiarire il valore fondamentale della storia anche per l’economista,6
Non si può sperare di comprendere i fenomeni economici di una qualsiasi età, compresa quella presente, senza un’adeguata misura di senso storico o di quella che può essere chiamata ‘esperienza storica’. [E aggiungeva] Il secondo modo è che l’esposizione storica non può essere puramente economica ma riflette, inevitabilmente, anche fatti ‘istituzionali’ che non sono puramente economici: perciò lo studio della storia costituisce il metodo migliore per comprendere come i fatti economici e non-economici sono in relazione gli uni con gli altri e come le varie scienze sociali debbono essere messe in rapporto fra loro
Michel Foucault ci ha mostrato che i frammenti di memoria che recuperiamo lungo il viaggio che dal presente ci conduce al passato ci forniscono la base interpretativa del significato del nostro percorso verso la conoscenza del presente e anche del nostro stesso essere. Scriveva Foucault: «L’obiettivo […] è quello di tracciare la storia dei diversi modi in cui, nei vari ambiti della nostra cultura […], gli uomini hanno sviluppato una conoscenza di sé».7 Riferendosi alla lezione metodologica di Foucault annotava P. H. Hutton: «Scandagliare il passato deve insegnarci che esistono opzioni tra le quali siamo liberi di scegliere, e non solo continuità alle quali conformarci».8 In tal senso la storia, indipendentemente dall’arco cronologico e dallo spazio sottoposti ad analisi, consente di comprendere il presente mediante il passato e allo stesso tempo di comprendere il passato mediante il presente. Scriveva saggiamente Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere:9
Come (e perché) il presente sia una critica del passato, oltre che un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).
Come chiariva Marc Bloch, nella prima nota a pie’ di pagina dell’Introduzione alla sua splendida opera già citata,10
Sono stato discepolo di due autori [Charles-Victor Langlois e Charles Seignobos] e, in particolare, di Seignobos. Mi hanno dato entrambi preziosi segni della loro benevolenza. La mia formazione di base deve molto al loro insegnamento e alla loro opera. Ma essi non ci hanno soltanto insegnato, tutti e due, che lo storico ha come primo dovere la sincerità; non ci nascondevano neppure che il progresso medesimo dei nostri studi è dato dalla necessaria contraddizione fra le successive generazioni di studiosi. Rimarrò dunque fedele alla loro lezione se li criticherò liberamente là dove lo crederò utile, come mi auguro che un giorno i miei discepoli, a loro volta, mi critichino.
Gli stessi Langlois e Seignobos, ci aveva ricordato C.M. Cipolla, avevano scritto nel 1898, che «senza documenti non vi è storia»; e anche che G.R. Elton nel volume The Practice of History, del 1967, aveva ribadito: «conoscenza di tutte le fonti e competente valutazione critica delle stesse: questi sono i requisiti di base di una attendibile storiografia».11 Ma, come sottolineava Fernand Braudel:12
L’importanza assunta dalle fonti documentarie ha fatto credere allo storico che tutta la verità stesse nell’autenticità documentaria. [Aggiungendo] «È sufficiente» scriveva solo ieri Louis Halphen [il testo citato di Halphen era del 1946] «lasciarsi in qualche modo portare dai documenti, letti uno dopo l’altro, così come ci si offrono, per vedere ricostituirsi quasi automaticamente la catena dei fatti».
A mio avviso, in questo contesto il primo punto sul quale occorre far chiarezza è il seguente: cosa intendiamo quando parliamo di storia economica relativamente al Medioevo? Ed ancora, esiste una specifica o almeno largamente condivisa metodologia storico-economica in relazione al Medioevo?
La società medievale, per la poliedricità di caratteri che presenta, derivanti dai diversi assetti politico-istituzionali, dal variare dei rapporti di dipendenza tra i vari soggetti, da inuguale distribuzione dell’uomo nello spazio e da disparate fortune degli aggregati umani, dal mutare delle culture e delle mentalità nei vari ambiti, richiede necessariamente, a mio parere, che il lavoro dello studioso non proceda in base a delle categorie globalizzanti e preconcette, non segua pedissequamente dei modelli utilizzabili nel variare del tempo e dello spazio, ma si adegui continuamente alle trasformazioni degli aggregati sociali, al variare degli stadi della tecnica e ai presupposti teorici che gli uomini tesero a realizzare. A mio avviso solo una serie di studi condotti con metodologie similari ed effettuati in spazi e tempi differenti consentirebbe di giungere a delle categorie tipologizzabili e a ottenere le dovute comparazioni spazio-temporali.
Vi è poi un altro elemento da porre in luce. Vari decenni fa si è ritenuto che la storia economica fosse essenzialmente la storia dei fatti e degli accadimenti economici: storia della produzione, dello scambio, del consumo, del lavoro, dei prezzi, dei salari, della moneta, ecc. In relazione al Medioevo, data la carenza e la frammentarietà delle fonti, specialmente di quelle di natura quantitativa, e data la disparità dei mercati e delle strutture politiche e sociali, si giunse a studiare dei micro spazi e si fece largo uso del tempo breve. Così si scrissero lavori, pur assai raffinati, sul trasporto di alcune balle di stoffe, sul costo del lavoro in una data azienda in relazione a pochi anni, sull’entità della popolazione in un piccolo aggregato umano, per fare solo qualche esempio.
Questi studi pionieristici, pur di grande interesse, hanno avuto a mio avviso il difetto di non mettere in meritata luce la valenza globalizzante dell’economico.
Se noi consideriamo la definizione di economia politica, prendendo le mosse da una delle sue prime accezioni esplicite, quella data da Antoine de Montchréstien nel suo famoso Traicté de l’oeconomie politique del 1615, vediamo definire l’economia quale «scienza dell’acquisizione della ricchezza», e sottolineare che l’aggettivo «politica» sta a indicare che questa scienza è necessaria allo stato e non solo alla casa, alla famiglia o al soggetto singolo, come l’etimologia greca della parola potrebbe far intendere.
È una concezione analoga a quella che troviamo in Adam Smith, che risulta implicita sin dal titolo della sua famosa opera Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni e che viene esplicitata nella definizione data dallo stesso autore nell’Introduzione al libro IV:13
L’economia politica, considerata come ramo della scienza dello statista o del legislatore, si propone due fini distinti: primo, provvedere un abbondante reddito o sussistenza alla popolazione, o più esattamente metterla in grado di provvedere a se stessa tale reddito o sussistenza; e secondo, fornire allo stato o alla repubblica un reddito sufficiente per i pubblici servizi. Essa si propone di arricchire sia il popolo che il sovrano.
Nell’accezione di Smith oggetto dell’economia politica è la ricchezza, intesa quale insieme dei prodotti del lavoro capace di soddisfare i bisogni umani, e l’analisi economica consente di chiarire il grado di economicità o di valore economico presente in ogni determinata e concreta situazione storica. Proprio in quanto nella concezione di Smith la scienza economica non presenta connotazioni riconducibili a quelle della scienza della natura, risulta evidente l’impossibilità per lo scienziato di far ricorso all’esperimento e il suo bisogno di verificare le ipotesi in una sistematica analisi storica.
Indubbiamente il limite maggiore dell’analisi di Smith, come della maggior parte dei classici, fu quello di considerare il sistema economico a lui contemporaneo –quello del capitalismo– e quindi il sistema dei rapporti che determinano la vita economica in questo sistema, come formazioni eterne e immutabili.
La pretesa immutabilità e universalità del sistema capitalistico e il condizionamento da esso esercitato sull’economia politica sono i punti nodali da cui muove Karl Marx per criticare l’economia politica classica. In tal senso il Capitale si presenta come tentativo di mettere in evidenza la «legge del movimento» del sistema capitalistico sulla base della storicità e quindi della transitorietà, facendo essenzialmente ricorso all’analisi storica.
I rapidi cenni di cui sopra vogliono solo sottolineare l’esigenza che ogni analisi economica quando dallo short run passa al long run necessita di una puntuale e documentata analisi storica, sotto pena di cadere nell’astrattezza propria degli economisti teorici (oggi purtroppo spesso diffusa anche nella più recente storiografia di natura economica) di attribuire un supposto carattere di ripetibilità, di razionalità alle variabili prese in esame nel modello teorico.
I richiami effettuati vogliono anche porre in evidenza il fatto che le teorie economiche non possono essere considerate in astratto rispetto alle realtà oggetto di analisi, altrimenti si determinano delle forzature e non si riesce a comprendere con chiarezza la valenza che un dato sistema economico ebbe per un aggregato sociale, che quel sistema economico pose in atto, con maggiore o minore consapevolezza e teorizzazione, ma sempre per ottenere il massimo risultato in base ai mezzi, alle risorse e alle capacità disponibili. Massimizzazione che, a sua volta, andò a favore di cerchie ristrette o ampie di soggetti, a secondo dei rapporti di dipendenza e dei gradi di libertà, che un determinato sistema politico-istituzionale volle assicurare ai suoi componenti.
Va inoltre sottolineato con fermezza che, se per effettuare delle valide analisi storico-economiche in relazione all’età medievale è indispensabile che il ricercatore si doti di una salda preparazione economica, è però altrettanto necessario che lo stesso abbia una buona formazione culturale in campo politico-istituzionale, sappia correttamente analizzare fonti in latino o nei vari idiomi volgari che andarono gradatamente affermandosi, si doti di una buona conoscenza paleografica e diplomatica. Solo grazie a questa duplice formazione culturale (economica e umanistica) il ricercatore sarà in grado di dominare le fonti, di porre alle stesse le domande utili a poter soddisfare gli elementi di fondo del tema che vuole indagare.
L’importanza fondamentale dello studio sistematico delle fonti di archivio nell’analisi storica e particolarmente nella storia economica ha spinto schiere di studiosi fino a tutti gli anni ‘70 e agli inizi degli ‘80 del sec. XX, come si è detto, a effettuare lavori estremamente minuziosi, che spesso avevano però il difetto di concentrarsi solo su tempi brevi, spazi limitati e avvertivano poco l’esigenza dell’analisi comparativa spazio/temporale. Anche agli studenti che chiedevano una tesi di laurea in storia economica i docenti indicavano fonti di archivio ancora inesplorate sulle quali impegnarsi nello studio di un qualcosa che doveva avere il carattere di originalità, proprio in quanto non già analizzato da altri studiosi. Il che comportava necessariamente, che, malgrado il lungo lavoro sulle fonti archivistiche, gli studi si concentrassero su tempi e spazi di breve durata.
Ma, come notava già nel 1969 Fernand Braudel:14
La recente rottura con le forme tradizionali della storiografia del XIX secolo […] è andata a beneficio della storia economica e sociale, e a detrimento della storia politica. […] Ma soprattutto c’è stata un’alterazione del tempo storico tradizionale. Un giorno, un anno potevano sembrare ieri delle buone misure ad uno storico politico. Il tempo era come una somma di giornate. Ma una curva dei prezzi, una progressione demografica, il movimento dei salari, le variazioni del tasso di interesse, lo studio (più immaginato che attuato) della produzione, una serrata analisi della circolazione richiedono più ampie misure, un’altra scala.
Lavori pur di grande interesse come quelli di Sapori, di Luzzatto, di Melis e dei loro allievi, tanto per fare solo degli esempi di autori italiani noti a tutti (o almeno a quelli della mia generazione), si riempivano di trascrizioni di documenti d’archivio, di dati, di tabelle, a volte erano perfino quasi solo composti di tabelle –come alcuni volumi pubblicati da Giuffré sotto la direzione di Luigi Dal Pane–;15 gli stessi autori disquisivano spesso sull’esigenza di effettuare analisi per totalità dei dati disponibili o di far ricorso a campionature, più o meno matematicamente determinate.16 Gli storici economici, a differenza degli storici generali, posero in luce sempre più l’esigenza di disporre di serie quantitative utili a far luce su costi, ricavi, prezzi, salari, andamenti di produzioni e di cicli commerciali. Come sottolineava Witold Kula, ciò che distingueva il lavoro dello storico economico da quello dello storico generale era che per il primo «La rilevazione di un singolo prezzo di una data merce non solo non è interessante, ma è addirittura incomprensibile, se non può essere inserito in una serie di altri rilevamenti di prezzi, della stessa e di altre merci, aventi una certa continuità temporale». Questo, sempre secondo il grande storico polacco, «ha notevoli conseguenze per il lavoro dello storico economico, che si presenta assai più impegnativo e che consente minori possibilità in ordine alla pubblicazione di raccolte di fonti. Tanto più che queste raccolte non possono tendere all’esaurimento del materiale, ma solamente tentar di raggiungere un elevato grado di rappresentatività e tipizzazione. (Aggiungendo) Non si eliminerebbe, pertanto, la necessità, per il futuro ricercatore, di risalire di nuovo ai documenti originali».17
Ma il problema di fondo fino a tutti gli anni ‘80, come ebbe a sottolineare acutamente C.M. Cipolla,18 fu che
La scuola economico giuridica fu nel complesso molto storica, molto giuridica ed inadeguatamente economica nel senso che si distinse per lo studio preciso delle istituzioni giuridiche, ma mancò di esplicitare adeguatamente i paradigmi economici che poneva alla base della interpretazione dei fatti economici, i quali paradigmi quando il lettore si fa sforzo di enuclearli dal contesto della narrazione li trova il più sovente rozzi e spesso inconsistenti. Alphons Dopsch, Henry Pirenne, Gioacchino Volpe, Marc Bloch, Armando Sapori, per non citare che i nomi più famosi, appartennero tutti a questa corrente cui appartenne sostanzialmente anche Gino Luzzatto con una caratteristica però tutta sua: che lui si era interessato vivamente alla polemica metodologica tedesca della fine dell’0ttocento, che lui, nella sua indefessa operosità, aveva letto e continuava a leggere i maggiori contributi degli economisti teorici.
A partire proprio, però, dagli anni ‘70 e dagli ‘80, dopo i movimenti di studenti e lavoratori e i conseguenti sostanziali mutamenti in campo economico e sociale, da più parti s’iniziò a teorizzare che la storia in tutte le sue declinazioni non fosse più rilevante. Si ritenne che solo la storia strettamente contemporanea o almeno quella successiva alla rivoluzione industriale potesse ancora essere utilmente indagata.