Il Volto dell’Omicidio

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Era meglio così. Le persone la distraevano. Nascondevano il loro vero io dietro parole e gesti che non sempre riusciva a capire. Ma i cadaveri non mentivano. Erano così com’erano, niente di più e niente di meno.
Non colpì, ovviamente, il fatto che la sua faccia fosse sparita. Fracassata. Il naso era stato ridotto a una superficie interamente piatta sul volto, tutte le protuberanze e le forme ormai schiacciate verso la parte interna del suo cranio. Il lato destro della testa era anche rotto e schiacciato, caratterizzato da evidenti linee d’impatto. Nessuno sarebbe sopravvissuto a quelle ferite. Persino uno dei suoi occhi era sparito.
L’equazione era lì sul suo torace, scritta obliquamente dalla parte superiore del petto ad appena sotto l’ombelico. Era tutto come appariva nelle foto: l’intera zona era stata inquadrata fedelmente. Indossando scomodi guanti bianchi monouso, Zoe girò le braccia e le gambe, e lo sollevò persino di fianco con l’aiuto di Shelley. Non riuscirono a vedere altre tracce di inchiostro da nessuna parte, né qualsiasi altro segno che potesse suggerire di essere una parte mancante dell’equazione.
“Non hanno tralasciato nulla,” disse Shelley ad alta voce, confermando la frustrazione che stava crescendo nel cuore di Zoe.
“L’altro.” Zoe si girò verso il medico legale. “Dobbiamo vedere anche lo studente.”
Il medico legale scrollò le spalle, facendo intendere che lo ritenesse inutile, e andò ad aprire un altro scomparto della cella frigorifera che fungeva da tomba temporanea. Fece scivolare il carrello con un prolungato rumore di metallo ben oliato, e si fece da parte per permettere loro di accedere al corpo.
Lo studente sembrava persino più giovane rispetto alle fotografie, steso sulla fredda barella di metallo con tutto il sangue risucchiato dalle guance insieme all’incarnato. La parte superiore della sua testa era un disastro, spaccata e schiacciata verso l’interno. Era rispettosamente coperto da un lenzuolo, ma il rispetto era soltanto un ostacolo in questo caso. Zoe si avvicinò e lo spostò di lato, notando la riluttanza di Shelley a farlo.
Per un lungo secondo, Zoe lo fissò, incapace di comprendere cosa stesse guardando. Quindi pensò brevemente che avessero tirato fuori il cadavere sbagliato, ma aveva riconosciuto la sua faccia dalle foto della scena del crimine. Alla fine, prevalse l’incredulità, e lei si voltò verso il medico legale, rivolgendole un’occhiataccia che la fece indietreggiare.
“Dove sono le equazioni?” chiese Zoe con un tono basso e piatto, abbastanza minaccioso da rivelare la rabbia che si celava dietro.
“Beh, abbiamo condotto l’autopsia,” balbettò il medico legale, cercando un tavolo di metallo alle sue spalle per reggersi. “Laviamo sempre i cadaveri prima di iniziare.”
“Avete cancellato le prove.”
Shelley si avvicinò per posare con delicatezza una mano sul braccio di Zoe, forse per avvertirla di calmarsi. Zoe ignorò il gesto. Stava ribollendo, ogni muscolo del suo corpo voleva esplodere in una scarica di energia e tirare qualcosa contro la parete. Forse persino contro il medico legale.
Non lo fece soltanto perché andava chiaramente contro l’etica professionale. Come avevano potuto permettere che accadesse qualcosa del genere?
“Chi ha autorizzato il lavaggio?” domandò Shelley con un tono calmo e tranquillo. Si fece avanti, superando leggermente Zoe, come per proteggerla.
Il medico legale armeggiò alla ricerca dei documenti balbettando, impallidita. Zoe non ne poteva più. Uscì dalla stanza trattenendo in gola un ruggito, sbattendo la porta dietro di sé per buona misura. Essendo una porta a battente, il gesto perse una parte del suo effetto, ma liberò ugualmente un po’ di tensione dal suo corpo.
Shelley la raggiunse un paio di minuti più tardi, trovandola a camminare avanti e indietro in fondo al corridoio.
“Dovremmo far loro rapporto per manomissione delle prove,” disse Zoe, non appena Shelley si avvicinò abbastanza da sentirla.
“Faceva parte delle loro istruzioni,” sospirò Shelley, scrollando le spalle. “Il fotografo era sicuro che avessero colto tutto. Possiamo soltanto credere alla loro parola.”
“Dovrebbero comunque essere sanzionati. Non hanno un minimo di buon senso. Era chiaramente una prova. E gli investigatori principali non avevano ancora visto il cadavere!”
“Beh, a dire il vero, questo era un caso locale quando hanno effettuato l’autopsia, non un caso federale. Ma quello che è fatto è fatto. Dobbiamo lavorare con quello che abbiamo in mano.”
Shelley si stava comportando in modo razionale, troppo razionale. A Zoe non piacque il suo atteggiamento. Lei voleva una giustificazione per la frustrazione che provava, maledizione, un sentimento in comune tra loro due. Odiava quando la facevano sentire come se fosse la maniaca della situazione. Le cose che venivano fatte in modo sbagliato erano un problema. Le persone avrebbero dovuto svolgere il lavoro per il quale venivano pagate. È così che funzionava la società.
“Una cosa del genere avrebbe dovuto essere chiaramente importante,” disse Zoe, facendo un ultimo tentativo per indurre Shelley ad arrabbiarsi.
Non le riuscì. “Dobbiamo comunque andare avanti,” rispose Shelley, dirigendosi fuori e guardando indietro per assicurarsi che Zoe la stesse seguendo. “Ora dovremmo andare a parlare con la moglie del professore?”
Zoe annuì, arrendendosi. Forse stava reagendo in maniera esagerata. Le era stato detto che avrebbe potuto farlo, di tanto in tanto.
C’era altro in questo caso, oltre alle prove fisiche sui cadaveri. Ovvio, la matematica era allettante, così come lo era il bersaglio di una rispettata università. Ma c’era sempre un’altra storia da ascoltare dalle famiglie delle vittime, le persone che le conoscevano.
Forse la signora Henderson sarebbe stata in grado di gettare una luce sulla morte di suo marito, e far sì che questo caso frustrante venisse risolto il prima possibile.
CAPITOLO CINQUE
Shelley occupò il sedile del guidatore, un evento raro quando andava in auto con la sua partner. Shelley sapeva che Zoe solitamente aveva mal d’auto, ma oggi era talmente concentrata sulle sue equazioni che sembrava notare a stento la strada. Non stava neanche stringendo la cintura di sicurezza, il suo consueto segnale di disagio.
Shelley le rivolgeva uno sguardo ogni volta che ne aveva la possibilità, quando era in attesa agli incroci o ferma nel traffico. Quello che Zoe stava scarabocchiando freneticamente su diverse pagine del suo taccuino non aveva alcun senso per lei. Avrebbero potuto benissimo essere geroglifici.
Zoe aveva un vero dono quando si trattava di numeri, ma c’era anche il rovescio della medaglia. A volte, come ora, poteva prendere il controllo un’ostinata ossessione. Per quanto Shelley volesse esserle d’aiuto, non aveva idea di cosa fosse necessario, e Zoe non aveva intenzione di dirglielo. Lei era così, anche piuttosto spesso. Silenziosa, chiusa. Shelley aveva sentito delle voci a proposito dei suoi precedenti partner, e non le fu difficile dedurre che, nella sua mente, forse Zoe aveva smesso di fidarsi delle persone un sacco di tempo fa.
Zoe era abituata a lavorare da sola. Se fosse dipeso da lei, Shelley l’avrebbe cambiata. Ma ci sarebbe voluto un sacco di tempo per farlo. Nel frattempo, avrebbe dovuto continuare a incitarla e a ricordarle di condividere le sue riflessioni.
Ecco, magari non quelle relative alla matematica. Shelley poteva lasciare che Zoe lavorasse da sola con la matematica.
Il professore di Inglese viveva dall’altra parte della città, in uno dei quartieri più lussuosi, case dipinte di bianco con larghi giardini e steccati altrettanto bianchi. Shelley parcheggiò in strada, spegnendo il motore, e attese che Zoe capisse che erano arrivate.
Lei non alzò neanche lo sguardo.
C’erano volte in cui Shelley sentiva di doversi muovere con attenzione accanto a Zoe, gestirla con estrema cautela. Come se fosse una bambina. Il che era in un certo modo ironico, dato che Shelley trascorreva tutto il suo tempo a casa a fare il genitore. Non erano poche le volte in cui sentiva di fare la stessa cosa al lavoro, nonostante Zoe fosse più grande di lei.
“Ci siamo,” disse delicatamente Shelley, per non far trasalire Zoe dai calcoli sui quali stava lavorando.
La penna di Zoe esitò a mezz’aria, e finalmente alzò lo sguardo. Sembrava sorpresa di essere altrove rispetto al parcheggio dell’ufficio del medico legale. “Devo solo finire …”
Shelley inarcò un sopracciglio. “Z, ci vogliono meno di due minuti a finire? Altrimenti forse dovremmo entrare e parlare con la moglie del professore, e tornare più tardi sulle equazioni.”
Zoe sospirò rumorosamente, ma sembrò acconsentire. Mise via il suo quadernetto, riponendolo in una tasca, e uscì dall’auto, cosa che Shelley prese come segnale per fare lo stesso. Rielaborò la sua precedente riflessione: avere a che fare con Zoe non era esattamente come avere a che fare con un bambino. A volte era più simile a un’adolescente scontrosa.
La signora Henderson sembrava aspettarle, o quantomeno sembrava aspettare qualcuno. Indossava un appropriato vestito scuro a fiori, i colori tenui trasmettevano quello che stava vivendo. I suoi occhi erano arrossati, ma aperti e acuti, e valutarono Shelley e Zoe in pochi istanti quando si incontrarono alla porta.
“Sono l’Agente Speciale Shelley Rose, e lei è l’Agente Speciale Zoe Prime. Vorremmo entrare e parlare di suo marito, signora Henderson.”
La donna annuì, invitandole a entrare, spostandosi per chiudere la porta dopo il loro ingresso. La casa era arredata in stile classico sobrio, tutta in legno scuro, con comodi cuscini e copriletto. La signora Henderson le fece accomodare in salotto, dove Shelley accettò con gratitudine l’offerta di caffè per conto suo e di Zoe.
“La sta prendendo piuttosto bene,” mormorò Shelley, dando un’occhiata all’ambiente in cui si trovavano. Era ordinato, non un singolo oggetto fuori posto. Niente polvere sul basso tavolino con ripiano in marmo o sulla scura credenza appesantita da ricordi e cianfrusaglie. Diversi frutti erano collocati in una ciotola brunita al centro del tavolo. Sembrava più un set televisivo che una casa davvero abitata.
Forse il modo della signora Henderson di affrontare il lutto era pulire e riordinare la casa, prepararla ad accogliere ospiti. Non sarebbe stata una cosa del tutto insolita. Shelley l’aveva già visto fare prima. Era collegato al rifiuto: il pensiero che se si fosse semplicemente assicurata che tutto fosse perfetto, suo marito avrebbe potuto fare ritorno a casa come se niente fosse successo.
Anche le faccende rimandavano il dolore.
Sul caminetto c’era una fotografia incorniciata: il professore e sua moglie, in tempi più felici. Shelley la guardò e cercò di non vederci l’orribile disastro nel quale si era trasformata la testa del professore.
“Diciassette statuette,” mormorò Zoe. Shelley seguì il suo sguardo verso la credenza e capì che Zoe stava facendo ciò che le riusciva meglio: cercare i numeri. In questo caso, comunque, i numeri avevano già assunto un nuovo significato. Stava cercando un indizio che avrebbe portato a un passo avanti con le equazioni.
La padrona di casa tornò dopo appena qualche minuto, portando un vassoio con tre tazze di caffè caldo. Il delicato design della porcellana della tazza della signora Henderson era bilanciato dalla semplice praticità delle altre due. Due differenti personalità, che si riflettevano nei contenuti di una casa. E forse un’indicazione che i visitatori che aveva ricevuto oggi non erano degni della porcellana migliore.
“Deve essere stato scioccante per lei,” disse Shelley, sollevando la sua tazza e soffiando delicatamente sulla superficie del caffè prima di sorseggiarlo. Domande o affermazioni come questa, aperte e invitanti, spesso stimolavano le persone a fornire maggiori informazioni. Il tipo di informazioni che altrimenti non sarebbe neanche pensabile chiedere.
“Oh, sì.” La signora Henderson sospirò profondamente, sistemandosi sulla poltrona che doveva essere stato il suo posto abituale. “Quasi non riesco ancora a crederci. Il mio Ralph, morto, all’improvviso. E così violentemente, poi. Non voglio neanche immaginarlo.”
“Le viene in mente un motivo dietro un tale livello di violenza, signora Henderson?”
La donna chiuse brevemente i suoi occhi, portando una mano alla fronte. Indossava ancora una semplice fede nuziale dorata, insieme a un più elaborato insieme di piccoli brillanti. Forse un anello di fidanzamento, vecchio di decenni. “All’inizio ho pensato volessero rubare qualcosa. La sua auto o il portafogli. Ma la polizia ha detto che non manca niente.”
“Gli psicologi ci hanno riferito la presenza di tracce di una forte rabbia sulla scena del crimine. Quel genere di rabbia che, beh, solitamente deriva dal conoscere qualcuno personalmente. Le viene in mente nessuno? Qualcuno che potesse avercela con suo marito, abbastanza da fargli del male?”
La donna tirò fuori un fazzoletto ricamato per asciugare i suoi occhi, la mano con l’anello si alzò per spostare una ciocca dei suoi capelli castano chiaro. “Non mi viene in mente nessuno. Insomma, Ralph era … era Ralph. Non ha mai fatto del male a una mosca. Andava d’accordo con i suoi colleghi, era benvoluto dagli studenti. Abbiamo alcuni amici nel vicinato che vengono a cena da noi, di tanto in tanto. Non ha mai discusso molto con gli estranei. Non c’era nulla di strano in lui. Tutti lo amavano!”
“Va bene, quindi apparentemente non aveva nemici,” disse Shelley, annuendo in modo incoraggiante sebbene si sentisse frustrata da quella risposta. Era sempre meglio avere una pista da seguire. “In tutta la sua carriera, crede? Non ha mai avuto alcun problema?”
La signora tirò su con il naso, scrollando le spalle. “Beh, c’era sempre qualcosa di poco conto,” disse, sebbene il suo tono indicasse un’assoluta mancanza di rilevanza, secondo la propria opinione. “Era un professore. C’erano studenti che non erano contenti dei voti. O studenti che venivano bocciati perché non seguivano le lezioni o non consegnavano i lavori in tempo. Pensano tutti di meritare un trattamento di favore. Ma è normale, fa parte del lavoro. Nessuno ucciderebbe per qualcosa come un voto, no?”
Shelley si rese conto che la signora Henderson stava davvero ponendo quella domanda, cercando di essere rassicurata. Purtroppo, Shelley sapeva di non poterla tranquillizzare. Le persone uccidevano per ogni tipo di ragione. Non sempre c’era razionalità, dietro. A volte era semplicemente l’ultima goccia a farli scattare.
Forse era un’idea che valeva la pena approfondire. Un ragazzo ricco, che si ritiene un privilegiato e che ha ricevuto tutto dalla vita, all’improvviso inizia a fallire, per la prima volta nella sua vita. Dà di matto, spinto dall’orgoglio. Oppure uno studente sul lastrico, senza più nessuna ragione di vita: una persona alla quale sono recentemente morti i genitori, con una relazione appena terminata e, per finire, un brutto voto. Sì, era decisamente qualcosa da prendere in considerazione.
“Speriamo di no,” disse, rivolgendole un leggero sorriso pensato per trasmettere la sua solidarietà. “Le viene in mente qualsiasi cosa insolita che possa essere successa negli ultimi giorni o settimane, o persino mesi?”
La signora Henderson scosse il capo, asciugandosi nuovamente gli occhi. “Ci ho pensato continuamente. Era tutto così … normale. Per questo è stato un tale shock. Del tutto inaspettato. Non riesco affatto a capire per quale motivo qualcuno abbia voluto far del male al mio Ralph.”
La donna stava diventando sempre più angosciata. Forse sarebbe stato meglio concludere la conversazione e lasciarla in pace. “Non c’è nient’altro che possa dirci? Proprio niente? Potrebbe anche non sembrarle qualcosa di rilevante, ma ogni piccola informazione è un altro pezzo del puzzle.”
La signora Henderson scosse la testa con un’espressione impotente.
“Va bene, un’ultima domanda. Ricorda se suo marito ha mai parlato di uno studente di nome Cole Davidson?”
“Non fino a quando il suo nome non è apparso sui giornali,” rispose la signora Henderson. “Povero ragazzo. Credete … credete che siano collegati? Devono esserlo, no? Due omicidi in un arco di tempo così breve?”
“Per noi non è utile fare speculazioni in questa fase.” Shelley bevve un ultimo sorso di caffè, rammaricandosi di dover lasciare ben metà di quella che era stata una tazza molto saporita. “Ma la contatteremo, nel caso dovessimo avere altro da dirle.”
Shelley si alzò, quindi aspettò che Zoe si unisse a lei. “Signora Henderson, c’è qualcuno che può farle compagnia oggi?”
La donna annuì lentamente, alzandosi per accompagnarle alla porta. “Mia figlia sta tornando a casa. Dovrebbe essere qui in serata.”
Questo tranquillizzò Shelley. Lasciare una donna sola con il suo dolore non le sembrava mai una cosa giusta, indipendentemente da quante famiglie avesse interrogato. “Allora ci terremo in contatto, signora Henderson. Nel frattempo, cerchi di riposare un po’.”
Tornarono in auto, e Zoe tirò immediatamente fuori il suo taccuino per ricominciare a scrivere. Shelley si chiese se avesse ascoltato una sola parola della conversazione, o se l’avesse subito liquidata come inutile e avesse passato tutto il tempo a pensare ai numeri.
In ogni caso, Shelley non riusciva ad arrabbiarsi. Al momento, le equazioni erano l’unico vero indizio che avevano. Mentre tornavano alla base, Shelley non riuscì a fare a meno di preoccuparsi del fatto che non avrebbero trovato niente di utile in grado di dare una svolta al caso. Con Zoe così fissata sui numeri, sarebbe stato compito di Shelley trovare qualcos’altro che avrebbe potuto fare la differenza.
Il punto era capire in che direzione cercare.
CAPITOLO SEI
Zoe odiò ogni istante di tempo sprecato a percorrere l’edificio, dal parcheggio alla stanza che avevano occupato per le indagini. Quasi cinquecento passi di distanza che avrebbero potuto essere impiegati per lavorare. Per quanto fosse bello occuparsi di qualcosa che era avvenuto, come diceva Shelley, a casa loro, Zoe si stava già innervosendo. Le equazioni rifiutavano di svelarle i loro segreti, restando ottuse e opache.
Non appena raggiunse il tavolo, Zoe si sedette e riprese i suoi appunti, cercando di risolvere ogni elemento dell’equazione del professore, un pezzo alla volta. In fin dei conti, la sua era l’unica che avevano visto di persona, l’unica di cui potevano essere sicure che fosse completa.
“Darò un’occhiata al suo account e-mail universitario,” disse Shelley, gettando la sua borsa su una sedia e tirando fuori il cellulare.
“È necessario?” domandò Zoe, arricciando il naso. Non c’era motivo di correre dietro un indizio del genere. La risposta era nelle equazioni, non nella vita privata del professore. Doveva essere così. Non c’erano collegamenti tra Cole Davidson e questo professore d’Inglese, a parte le equazioni.
“Non sono brava in matematica, quindi non posso aiutarti a risolvere le equazioni,” precisò Shelley. “E poi, qualcosa che ha detto la signora Henderson mi ha dato da pensare. Potrebbe avere a che fare con uno studente. Qualcuno che si è sentito offeso, in qualche modo. È plausibile che molte persone nel campus conoscessero sia Cole che il professor Henderson.”
Zoe esitò, le obiezioni erano ferme sulla punta della sua lingua, in attesa di uscire. Sentiva che sarebbe stata una perdita di tempo, ficcare il naso nelle e-mail di un uomo morto. Ma che importanza aveva? Shelley aveva ragione, non poteva aiutarla con le equazioni. E forse era arrivato il momento che Zoe iniziasse a fidarsi della sua partner, a lasciarla indagare per conto suo.
Inoltre, forse sarebbe stato meglio per Zoe se questo caso si fosse risolto attraverso una e-mail di disappunto piuttosto che con i numeri. Da quando Shelley aveva riferito ai loro superiori che Zoe ci sapeva fare con la matematica, la donna non era proprio ansiosa di dimostrarlo. Infatti, sarebbe stato meglio far passare quelle esternazioni come un’eccessiva fiducia da parte della sua partner.
A meno che non avesse ostacolato il caso, naturalmente. Fermare l’assassino restava sempre la cosa più importante.
Zoe tornò a prestare attenzione alle equazioni mentre Shelley chiamava l’università per ottenere i permessi necessari. Il punto era che, in entrambi i casi, aveva fatto tutto il possibile. Era vero che c’era sempre la possibilità che qualcosa mancasse sul cadavere dello studente, ma loro due avevano controllato personalmente il professore.
Quindi cosa le stava sfuggendo?
C’era un’altra possibilità, ovviamente: che lei non fosse abbastanza esperta da venirne a capo. C’era una differenza tra essere in grado di vedere i numeri, in termini di distanze, dimensioni, angoli, ed essere capaci di risolvere problemi di matematica quantistica. Entravano in ballo ulteriori abilità, abilità che altre persone avevano dedicato una vita intera a sviluppare. Zoe poteva anche avere un dono, ma l’aveva consacrato alla caccia agli assassini, non allo studio della matematica.
Il che le fece venire in mente un’altra idea.
Si alzò, lasciando Shelley ancora intenta a parlare con una segretaria al telefono, e prese un fascicolo di foto, incamminandosi lungo il corridoio e dirigendosi verso l’ascensore. Salì due piani e percorse un corridoio identico a quello precedente, tranne per la quantità di potere che trasudava da queste stanze .
Zoe fece un respiro profondo prima di bussare alla porta del suo superiore. Quante volte era stata convocata qui, per essere strigliata per aver perso un altro partner o usato la sua arma da fuoco?
Ma stavolta non era come allora, e lei entrò non appena fu invitata a farlo, cercando di calmarsi.
Con la sua figura imponente e la muscolatura più grande del normale, era facile capire per quale motivo l’Agente Speciale al Commando Maitland apparisse intimidatorio sul campo. Ai criminali sarebbe bastato dargli un’occhiata per scappare.
Zoe si stava sforzando molto per non provare la stessa sensazione.
“Signore,” disse, esitando sulla soglia.
Maitland alzò lo sguardo dalle sue scartoffie, quindi continuò a scrivere la propria firma in calce a una domanda. “Entri pure, Agente Speciale Prime. Non rimanga tutto il giorno nel corridoio.”
Zoe fece un passo avanti, chiudendo la porta dietro di sé con un po’ di riluttanza. Tuttavia, raddrizzò le spalle e si rivolse a lui con la schiena dritta, un portamento che si sentiva sempre ispirata a mantenere in sua presenza. “Signore, riguarda il caso al quale l’Agente Speciale Rose e io stiamo lavorando. Il ragazzo del college e il professore, trovati con delle equazioni scritte sui loro cadaveri.”
Nonostante l’enorme mole di lavoro che doveva necessariamente essere passata attraverso la sede di Washington, Maitland non lo aveva dimenticato. “Lo so. Di cosa ha bisogno?”
“Le equazioni sono di livello estremamente elevato,” disse Zoe, sentendosi un po’ un fallimento per aver ammesso che fossero troppo difficili per lei. Ma andava fatto. Fissando gli angoli di novanta gradi precisi di qualsiasi cosa si trovasse sulla scrivania di Maitland, piuttosto che guardare l’espressione dell’uomo, si costrinse a proseguire. “Ritengo che sarebbe meglio coinvolgere un esperto in materia. Qualcuno che possa lavorare sulle equazioni da una prospettiva matematica professionale.”
Maitland annuì, quindi smise di scrivere non appena si rese conto che lei aveva finito. “Ha già in mente qualcuno? L’Agente Speciale Rose ci ha ricordato che una volta lei studiava matematica.”
“È così, signore.”
“Bene.” L’attenzione di Maitland tornò alle sue scartoffie, in pratica congedandola. “Permesso accordato. Avrà i documenti il prima possibile.”
“Sì, signore.” Zoe si girò e quasi scappò dalla porta, felice di aver ottenuto un risultato così positivo. Non sarebbe rimasta qui in attesa che lui cambiasse idea, assolutamente.
C’era del lavoro da fare, e qualcuno che era molto importante tirare dentro nel caso.
***Zoe attese speranzosa, guardando la sua mentore esaminare le immagini.
“Queste foto sono … scioccanti.” La dottoressa Applewhite scosse il capo, tenendo il labbro inferiore tra i denti per tre secondi mentre faceva scivolare la fotografia sul fondo della pila che teneva in mano ed esaminava quella successiva. “A volte dimentico che devi guardare questo genere di cose giorno dopo giorno. Deve metterti a dura prova.”
Zoe scrollò le spalle. “I cadaveri sono cadaveri. È la mancanza di soluzioni a infastidirmi.”






