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La sua unica regola era piuttosto semplice.
“Se inizia a sembrare un omicidio e vi pare che il colpevole sia uno avvezzo alla violenza, chiamatemi per darvi rinforzi.”
Ora, mentre Hernandez andava verso Hollywood, sembrava quasi traboccante di entusiasmo. E così sembrava anche il suo piede sull’acceleratore.
“Stai attento con la velocità, Schumacher,” lo mise in guardia Jessie. “Non voglio finire in un incidente mentre vado sulla scena di un caso.”
Non fece nessuna allusione alla loro conversazione di prima, decidendo di lasciare che fosse lui a risollevare l’argomento quando l’avesse ritenuto opportuno. Non ci volle molto. Dopo che l’iniziale entusiasmo per essere effettivamente diretti verso la scena di un crimine fu svanito, Hernandez si voltò a guardarla.
“Allora, ecco il fatto,” iniziò, le parole che gli uscivano dalla bocca più velocemente del solito. “Avrei dovuto contattarti più spesso quando le acque si sono calmate. Voglio dire, all’inizio l’ho fatto, ovviamente. Ma tu eri malconcia e non parlavi molto, cosa che capisco benissimo.”
“Davvero?” chiese Jessie scettica.
“Certamente,” rispose lui, mentre usciva dall’autostrada 101 e si immetteva sulla Vine Street. “Hai dovuto uccidere tuo padre. Anche se era un pazzo, era tuo padre. Ma non ero sicuro di come parlarne con te. E c’era il fatto che il tuo padre psicolabile mi aveva accoltellato. Non è stata colpa tua, ma avevo paura che tu lo pensassi. Quindi avevo tutte queste cose in testa mentre ogni tanto lo stomaco mi andava in emorragia, e mi riempivano di antidolorifici, e cercavo di mandare giù qualcosa da mangiare. E quando ho pensato di poter discutere della cosa in modo del tutto adulto e consapevole, mia moglie mi ha formalmente servito le carte del divorzio. Doveva succedere, lo so, ma c’è stato qualcosa nel ricevere realmente quei documenti ufficiali, soprattutto mentre ero ancora in ospedale, che mi ha veramente devastato. Sono caduto in questo buco nero. Non volevo mangiare. Non voleva fare riabilitazione. Non volevo parlare con nessuno, cosa che invece avrei dovuto fare.”
“Posso raccomandarti qualcuno se…” iniziò a dire Jessie.
“Grazie, ma a dire il vero è tutto a posto adesso,” la interruppe lui. “Decker alla fine mi ha ordinato di vedere qualcuno. Ha detto che c’era il pericolo che non mi facesse tornare se non mi fossi rimesso a posto. Quindi l’ho fatto. E mi è stato di aiuto. Ma allora erano tipo passate sei settimane dall’aggressione, e mi sembrava strano chiamarti così, di punto in bianco. E a essere onesto, non ero sicuro al 100% di stare bene… psicologicamente, e non volevo perdere il controllo quando avrei parlato con te seriamente per la prima volta dopo che entrambi avevamo rischiato di morire. Allora ho tergiversato ancora un po’. E poi c’è l’altra cosa.”
“Quale altra cosa?”
“Sai quella cosa dei ‘colleghi che vanno d’accordo e poi la situazione diventa strana perché forse c’è qualcosa’? Non sto immaginando cose inesistenti, vero?”
Jessie fece un profondo respiro prima di rispondere. Dare una risposta onesta avrebbe cambiato le cose. Ma lui stava mettendo tutto allo scoperto sul tavolo. Era da codardi non fare lo stesso.
“No, non stai immaginando niente.”
Hernandez rise con leggero disagio, una risata che si trasformò in un susseguirsi di colpi di tosse.
“Stai bene?” gli chiese Jessie.
“Sì, solo che… ero nervoso al pensiero di parlare dell’ultima cosa.”
Rimasero in silenzio per un minuto mentre lui si destreggiava nel traffico della Sunset Boulevard, cercando di trovare un posto dove parcheggiare.
“Quindi questo è il fatto?” chiese lei alla fine.
“Questo è il fatto,” confermò lui, mentre finalmente posteggiava.
“Sai,” disse lei con voce delicata. “Non sei per niente fico come inizialmente pensavo che fossi.”
“È tutta una facciata,” disse lui un po’ scherzosamente, ma chiaramente solo un po’.
“In un certo senso mi piace. Ti rende più… avvicinabile.”
“Dovrei dire grazie, penso.”
“Beh, forse dovremmo parlarne un po’ di più,” rispose lei.
“Penso che sarebbe la cosa matura da fare,” confermò lui. “Intendi dopo che abbiamo dato un’occhiata al cadavere su di sopra, giusto?”
“Sì, Ryan. Prima il cadavere. Poi le conversazioni strane.”
CAPITOLO QUATTRO
Fu come se nella testa di Jessie si fosse accesa la luce.
Nel momento in cui chiuse la portiera dell’auto e guardò l’edificio che ora conteneva il cadavere di una donna, la sua mente si schiarì. Tutti i pensieri che ruotavano attorno al suo padre assassino, alla sua sorellastra orfana e alle proprie mezze probabilità sentimentali svanirono.
Lei e Ryan erano sul marciapiede vicino all’angolo tra la Sunset e la Vine e guardavano la zona. Questo era il cuore di Hollywood e Jessie era stata qui un sacco di volte. Ma era sempre successo per una cena, un concerto, o un film oppure uno spettacolo dal vivo. Non si era mai veramente concentrata su questo posto pensandolo come un luogo dove c’era gente normale che lavorava, viveva e a quanto pareva moriva.
Per la prima volta notò che tra le torri di uffici, i ristoranti e i teatri, molti degli edifici erano come quelli del suo quartiere, con attività commerciali al piano terra e appartamenti ai piani superiori.
In fondo alla strada vide un condominio di dieci piani con un Trader Joe’s al piano terra. Dalla parte opposta della strada c’era una palestra Solstice alla base di un edificio che doveva avere venti piani. Si chiese se i residenti avessero degli sconti sugli abbonamenti, ma ne dubitava. Quel posto era incredibilmente costoso.
Sembrava che il condominio in cui risiedeva la vittima fosse un po’ meno di lusso. Aveva diversi ristoranti e un centro yoga al primo piano. Ma c’erano anche una farmacia Walgreens e un Bed, Bath & Beyond. Mentre percorrevano il marciapiede verso l’ingresso principale, dovettero allargarsi per lasciare spazio a una fila di barboni accampati lungo la parete dell’edificio. Molti di loro non erano ancora svegli, ma c’era una donna anziana seduta a gambe incrociate che borbottava tra sé e sé.
Passarono oltre senza fare commenti e arrivarono all’ingresso dell’edificio. Confronto al condominio dove abitava ora Jessie, la sicurezza qui era uno scherzo. C’era un ingresso a bussola che richiedeva una carta d’accesso e un’altra chiave era necessaria per chiamare l’ascensore. Ma quando lei e Ryan si furono avvicinati all’entrata, un residente tenne la porta aperta per loro e attivò il sensore dell’ascensore senza chiedere loro niente. Jessie notò delle videocamere fisse nell’atrio e nell’ascensore, ma sembravano di fattura economica. Ryan premette il pulsante per l’ottavo piano e nel giro di pochi secondi si trovarono a destinazione, senza aver incontrato la minima difficoltà.
“È stato facile,” disse Ryan, mentre percorrevano il corridoio esterno in direzione del nastro messo dalla polizia, dove c’erano anche diversi agenti all’opera.
“Fin troppo facile, dire,” commentò Jessie. “Mi rendo conto di essere una matta quando si tratta di sicurezza personale, ma questo posto è davvero patetico, soprattutto considerato il circondario.”
“È molto più sicuro di quanto fosse vent’anni fa,” le ricordò Ryan.
“Vero. Ma solo perché non hai spacciatori di droga e prostitute in bella vista a ogni angolo non significa che adesso sia Disneyland.”
Ryan non rispose. Nel frattempo avevano raggiunto l’appartamento della vittima. Lui mostrò il suo cartellino identificativo e lei la sua carta d’identità da profiler del Dipartimento di Polizia di Los Angeles.
“I detective della divisione di Hollywood sono già venuti e ripartiti,” disse perplesso un agente.
“Stiamo solo facendo da appoggio alla Sezione Speciale Omicidi,” mentì Ryan. “È più che altro un favore da parte del nostro capitano. Ci farebbe piacere se mandasse qualcuno ad accompagnarci sulla scena del crimine, anche se dovranno ripetere le stesse cose.”
“Nessun problema,” rispose l’uomo. “L’agente Wayne è il primo responsabile sulla scena. Vi chiamo lui.”
Mentre l’uomo comunicava tramite radio con l’altro agente, Jessie si guardò attorno. La porta d’ingresso era aperta ora, come anche la finestra accanto. Si chiese se anche prima si fossero trovate in quella posizione. Era difficile immaginare che una donna single, nel cuore di Hollywood, lasciasse una finestra aperta se questa era accessibile dall’esterno. Era quasi un invito per eventuali problemi.
L'appartamento della vittima si trovava dalla parte opposta degli ascensori, all’estremità di un corridoio a forma di ‘C’. Questo significava che l’appartamento era visibile a chiunque percorresse i corridoi. Jessie sarebbe stata curiosa di sapere se qualcun altro avesse mai perlustrato quegli appartamenti.
In quel momento un agente uscì dall’appartamento per accoglierli. Era di corporatura pesante e con un’incipiente calvizie, con pochi capelli che stavano attaccati alla testa sudata. Sembrava essere sulla quarantina e aveva quella sorta di aspetto di chi ‘ha visto tutto’, che poteva essere un aiuto o un impedimento, a seconda dell’atteggiamento.
“Agente John Wayne,” disse porgendo la mano a Ryan. “Ho già sentito tutte le possibili battute immaginabili al riguardo, quindi possiamo andare avanti. Cosa posso fare per voi?”
“È veramente identico,” disse Ryan, non riuscendo a trattenersi.
Jessie gli diede un pugno al braccio e poi riportò l’attenzione sul poliziotto, che sembrava non essere per niente turbato dal commento.
“Scusi, agente Wayne,” disse Jessie. “Grazie per il suo tempo. Sappiamo che i detective di Hollywood hanno già lavorato sulla scena. Ma speravamo che potesse farci fare un giro comunque. Questo caso ha un sacco di dettagli che corrispondono a una cosa sulla quale stiamo lavorando e vorremmo vedere se c’è davvero una connessione.”
“Certamente, venite dentro,” disse lui, rientrando nell’appartamento e porgendo loro dei copri-scarpe di plastica.
Jessie e Ryan li infilarono, insieme ai guanti, ed entrarono.
“Alcuni dei effetti della vittima sono già stati messi da parte come prova,” disse Wayne. “Ma possiamo darvi un elenco dettagliato.”
“Niente che l’abbia particolarmente colpita?” chiese Ryan.
“Un paio di cose,” rispose l’agente. “Non ci sono segni di scasso. C’erano dei soldi nella sua borsetta. Il telefono era sul comodino.”
“Se non le spiace,” chiese Jessie, “prima che lei ci fornisca il resto dei dettagli, vorrei prendermi un momento per valutare il posto senza nessun preconcetto.”
L’agente Wayne annuì. Jessie fece un lungo e profondo respiro, permise al suo corpo di rilassarsi e iniziò a tracciare un profilo della vittima. Il salotto era arredato in maniera essenziale con mobili che sembravano essere stati acquistati all’Ikea. C’erano pochi quadri alle pareti e nessuna foto in mostra. L’unico tocco personale era un certificato da personal trainer appeso alla parete.
Jessie entrò nella cucina quasi intatta. Non c’erano piatti sporchi nel lavandino, né stoviglie pulite nello sgocciolatoio. Sul bancone era appoggiato un canovaccio pulito e ben piegato. Accanto ad esso si trovavano diversi contenitori di pastiglie, ciascuno contrassegnato da giorni della settimana, tutti disposti in estremo ordine. Jessie non li toccò, ma da quello che poteva dire, le pillole all’interno sembravano essere integratori e vitamine. Notò che quelle del lunedì e del martedì non erano state prese. Ora era mercoledì mattina.
Si guardò attorno osservando il resto della cucina. Il rotolo della carta assorbente era quasi intero. Aprendo le diverse ante della credenza, trovò dozzine di lattine di fagioli e tacchino macinato, un sacco di barrette proteiche e contenitori di proteine del siero del latte.
Il frigorifero era mezzo vuoto, ma il contenuto comprendeva due confezioni da litro di latte, diversi contenitori di yogurt greco e un’enorme busta di spinaci. Il congelatore era un miscuglio di mirtilli, fragole e açaí surgelati, oltre a un contenitore Tupperware con all’interno quella che sembrava una zuppa di noodle al pollo. All’esterno della confezione era attaccato un post-it che diceva “da mamma, 11/2018”. Era più di un anno fa.
I tre percorsero il corridoio verso la camera da letto, dove li attendeva il corpo. L’odore di carne putrefatta inondò le narici di Jessie. Lei si concesse un attimo per abituarvisi, poi si fermò un momento nel bagno, che non era ordinato come il resto della casa. Era evidente che la donna trascorreva buona parte del suo tempo là dentro.
“Come si chiamava la vittima?” chiese Jessie. Era sul documento che Ryan le aveva dato alla centrale, ma lei aveva volutamente evitato di annotarselo.
“Taylor Jansen,” disse l’agente Wayne. “Era…”
“Scusi, agente,” lo interruppe Jessie. “Non voglio sembrare maleducata, ma la prego di trattenere qualsiasi altro dettaglio ancora per un po’.”
Guardò poi con attenzione il comò di Taylor. Per quanto apparentemente non si curasse di tenere rifornita la cucina, a quanto sembrava lo stesso non valeva per il bagno. Lo scaffale era pieno zeppo di trucchi, inclusa una confezione aperta di ombretti e diversi rossetti. Due spazzole e un pettine erano appoggiati in un angolo, accanto a una boccettina di profumo.
L’armadietto dei medicinali era pieno di prodotti da banco come Advil, Benadryl e Pepto-Bismol, ma non c’erano flaconi di medicinali che richiedevano ricetta. Nella doccia c’erano diversi rimasugli di bottiglie di shampoo e balsamo, alcuni detergenti viso, un rasoio per le gambe, crema da epilazione e una saponetta.
Jessie uscì dalla stanza e il forte odore che era stato temporaneamente mascherato dai profumi del bagno la colpì di nuovo. Lei si guardò alle spalle osservando il corridoio e notando ancora una volta la completa assenza di oggetti personali alle pareti.
“Prima di entrare in camera,” disse rivolgendosi a Wayne, “mi faccia sapere su quanti di questi elementi ho ragione. Taylor Jansen è single, bianca, attraente e sui trent’anni. Lavora qui vicino e viaggia spesso. Ha pochi amici. È molto attenta ai dettagli. E ha tanti soldi da potersi permettere un posto molto migliore di questo.”
Wayne sgranò gli occhi per un secondo prima di rispondere.
“Aveva precisamente trent’anni,” le disse. “Li ha compiuto il mese scorso. È bianca e pare sia stata molto carina. Lavora qui vicino, alla palestra che si trova a neanche un isolato da qui. Stiamo ancora raccogliendo informazioni sullo stato delle sue relazioni. Ma il suo collega, quello che l’ha trovata, dice che al momento non frequentava nessuno. Lui è attualmente qua sotto che sta riconfermando la sua dichiarazione, se poi volete parlargli. Non so dirvi nulla di viaggi e situazione finanziaria, ma lui magari sì.”
“Vorremmo parlargli non appena avremo finito qui,” disse Ryan, poi si rivolse a Jessie. “Sei pronta ad entrare?”
Lei annuì. Non le era sfuggito il fatto che, tranne poche eccezioni, la sua descrizione di Taylor Jansen poteva essere anche quella di se stessa. Avrebbe compiuto trent’anni tra poche settimane. Il suo appartamento in centro era spartano quanto questo e non perché lei non avesse il tempo di personalizzarlo. Poteva contare sulle dita di una mano i propri buoni amici. E a parte il suo recente matrimonio con un uomo che aveva tentato di ammazzarla, non aveva alcuna relazione, messa da parte la sua recente conversazione con Ryan. Se fosse morta domani, l’analisi di un altro profiler non sarebbe forse stata tanto diversa da quella che lei aveva fatto della donna che si trovava ora dietro quella porta.
“Ne volete un po’?” chiese Wayne mentre si metteva della crema all’eucalipto subito sotto alle narici. Aiutava a contrastare i brutti odori che li circondavano.
“No, grazie,” disse Jessie. “Per quanto faccia schifo, ho bisogno che tutti i miei sensi siano in piena forza quando sono su una scena. Eliminare l’olfatto potrebbe mascherare qualche importante elemento.”
“Lo stomaco è suo,” disse Wayne scrollando le spalle e aprendo la porta.
Quasi immediatamente, Jessie si pentì della decisione presa.
CAPITOLO CINQUE
La puzza era fortissima. La donna doveva essere morta da due o forse addirittura tre giorni. Era distesa a letto con le coperte scostate, e indossava un paio di pantaloncini da palestra e un reggiseno sportivo. Non c’erano evidenti segni di lotta nel modo in cui era posizionata o nella stanza in generale. Non sembrava che niente fosse stato buttato a terra. Non c’era nulla di rotto. Le cose che indossava erano intatte. Non c’erano evidenti lividi o tagli.
Ovviamente questo non provava niente. Se si trattava di un delitto, il colpevole aveva avuto un sacco di tempo a disposizione per risistemare la stanza e posizionare al meglio Taylor prima di andarsene. Le impronte sugli oggetti nella stanza, incluso il corpo, avrebbero potuto offrire dell’aiuto su quel fronte. Ma almeno a primo colpo d’occhio, non c’era niente fuori posto.
Jessie si avvicinò per guardare meglio la vittima. Gli assistenti del medico legale, che stavano per inserire il cadavere nel sacchetto di plastica, fecero un passo indietro lasciandole spazio.
Il volto di Taylor Jansen era blu e gonfio. Gli occhi erano chiusi. L’addome che aveva chiaramente mantenuto sodo e tonico con un sacco di esercizio era ora rilassato, risultato dei gas che si erano formati all’interno del corpo dopo la morte. Anche in quella condizione, Jessie poteva confermare che era stata una donna molto bella.
“Qualcuno l’ha toccata?” chiese Ryan.
“Solo per prendere le impronte,” gli assicurò Wayne.
“Pare che sia morta nel sonno,” notò Ryan. “Non c’è da stupirsi che la prima ipotesi sia suicidio. Magari quelle pillole in cucina non sono proprio tutte vitamine. Sono molto curioso di vedere il resoconto tossicologico.”
Jessie si chinò in avanti e notò gli ematomi ora quasi sbiaditi sui polsi e sul collo di Taylor. dato lo scolorimento e il gonfiore della pelle, era difficile dire quanto fossero vecchi. Ma se lei avesse dovuto indovinare, avrebbe detto un paio di giorni.
“La finestra vicino alla porta d’ingresso è sempre stata aperta?” chiese Jessie. “O l’ha aperta qualcuno dopo aver trovato la donna?”
“Secondo quanto dice il suo collega, era leggermente aperta quando lui è arrivato. Ha detto di aver bussato alla porta e di aver tentato di aprirla. Ma era chiusa a chiave, quindi ha usato la finestra per entrare.”
Jessie annuì, allontanandosi dal corpo di Taylor e portandosi verso l’armadio. Aprì l’anta scorrevole e lanciò un’occhiata all’interno. Sembrava che tre quarti del suo guardaroba comprendessero esclusivamente abbigliamento da palestra e indumenti intimi. Jessie si voltò verso Ryan e l’agente Wayne.
“Dobbiamo decisamente parlare con il suo collega,” disse.
*
Vin Stacey aveva un aspetto davvero misero, seduto sul sedile posteriore dell’auto di pattuglia parcheggiata fuori dal condominio.
“Lo state tenendo in custodia?” chiese Jessie all’agente dall’espressione annoiata che si trovava accanto all’auto.
“No. Gli abbiamo solo chiesto di stare qui ad aspettare che voi scendeste a parlargli.
“Sa che non è tenuto ad aspettare in auto? Perché dalla sua faccia sembra che pensi che l’abbiate arrestato.”
“Non gli abbiamo chiarito la natura della nostra richiesta,” ammise timidamente l’agente. “Gli abbiamo solo detto di aspettare nel veicolo per delle altre domande.”
“Quindi pensa di essere sotto arresto?” chiese Jessie incredula.
“Non so quale impressione abbia, signora. Noi abbiamo solo espresso la nostra richiesta.”
Jessie guardò Ryan, che non sembrava essere irritato quanto lei.
“Non dici niente?” gli chiese.
“No,” disse lui. “Ma non posso negare di aver usato la stessa tattica in passato. È un modo per tenere una persona ferma dove si vuole senza doverla arrestare formalmente.”
“Ma pensavo che non fosse più un sospettato,” ribatté Jessie.
“Tutti sono sospettati. Lo sai.”
“Okay,” gli concesse Jessie. “Ma nel frattempo lui se ne sta seduto lì con l’intero mondo che gli passa accanto pensando che lo abbiano arrestato per qualcosa.”
“Immagino che allora dovremmo chiarire la cosa,” disse Ryan con tono piatto.
Jessie lo guardò accigliata prima di aprire la portiera posteriore.
“Signor Stacey?” chiese, lasciando andare la nota di nervosismo nella voce, che ora risuonò dolce e zuccherosa.
“Sì,” rispose lui tremante.
“Perché non viene fuori dall’auto? Mi spiace che lei abbia dovuto aspettare così tanto. Io e il mio collega eravamo sopra a svolgere le indagini. Speravamo di poterle fare qualche domanda, se non le spiace.”
“Ho risposto alle domande di tutti,” disse lui con tono implorante. “Non riesco a capire perché mi trovo nei guai.”
“Non si trova nei guai, signor Stacey,” gli assicurò lei. “Venga fuori. Mi chiamo Jessie Hunt. Sono una profiler criminale del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Questo è il detective Ryan Hernandez. Vedo una caffetteria nell’angolo laggiù. Prendiamo una tazza di qualcosa e facciamo due chiacchiere. Cosa ne pensa?”
L'uomo annuì e uscì dal veicolo. Fu solo allora che Jessie si rese conto di quale fosse la sua stazza. Completamente dritto in piedi, doveva arrivare facilmente a un metro e novanta. Jessie ipotizzò che il peso dovesse essere di un centinaio di chili. Indossava una maglietta da palestra a manica lunga che metteva in evidenza i suoi addominali. Sembrava che i bicipiti potessero strappare la stoffa delle maniche da un momento all’altro.
Nonostante la sua imponenza, l’atteggiamento trasmetteva delicatezza e gentilezza. Guardandolo più attentamente, Jessie notò che portava una collanina con il ciondolo di un arcobaleno e che aveva le unghie dipinte di viola.
“Immagino che anche lei sia un trainer nella palestra dove lavorava Taylor, giusto?” gli chiese, cercando di alleggerire l’atmosfera mentre si dirigevano verso la caffetteria.
L’uomo annuì ma non rispose. Ryan li seguiva a poca distanza, chiaramente consapevole che la sua presenza avrebbe potuto intralciare i tentativi di Jessie di creare un collegamento con l’uomo. Mentre camminavano, Jessie notò che l’uomo di strofinava energicamente i polsi.
“Va tutto bene?” gli chiese.
“Ancora non ci credo. È come se mi avessero rivoltato lo stomaco. Aspettare lì e sapere che una persona con una personalità così solare ora è un essere freddo e privo di vita. Mi fa male solo a pensarci. E i vostri colleghi hanno solo peggiorato le cose.”
“È stata una vera sfortuna,” disse Jessie.
“Sapete che gli agenti mi hanno ammanettato quando sono arrivati all’appartamento di Taylor?” insistette lui. “Io me ne stavo seduto là fuori ad aspettarli. E uno di loro mi ha messo le manette mentre l’altro ha tenuto la mano pronta sulla pistola per tutto il tempo. Io sono quello che ha chiamato il 911!”
“Mi spiace davvero, signor Stacey,” cercò di calmarlo Jessie. “Purtroppo, quando gli agenti arrivano su una scena del crimine, devono prendere delle precauzioni che possono sembrare eccessive.”
“Mi hanno tenuto ammanettato per mezz’ora, e nel frattempo mi hanno preso le generalità e hanno controllato se avessi la fedina penale sporca, cosa che non ho, e hanno controllato che lavorassi con Taylor. E tutto mentre lei stava sdraiata su quel letto, morta. Penso che sappiamo entrambi benissimo che se fosse stata lei a chiamare il 911 e li avesse aspettati lì, l’avrebbero trattata un modo diverso.”
“Giusto,” rispose Jessie annuendo comprensiva mentre entravano nella caffetteria. Si voltò a guardare l’agente che li aveva seguiti fino a lì e gli fece cenno di aspettare fuori.
“Quindi ha detto che lavorava con lei. Eravate entrambi insegnanti?” continuò Jessie, cercando di smorzare l’indignazione di Stacey e andare oltre.
“Sì… al Solstice.”
“La palestra proprio davanti al condominio?” chiese Jessie, ricordando il fitness club che aveva visto quando erano arrivati.
“Comodo, no?” commentò lui.
Ordinarono i loro caffè e si sedettero a un tavolino. Ryan li raggiunse ma non disse nulla.






