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Da qualche parte attorno al terzo episodio e mezza bottiglia svuotata, si addormentò.
*
Fu svegliata da Kyle che le scuoteva delicatamente la spalla. Guardandolo con occhi appannati, capì che era mezzo carico anche lui.
“Che ore sono?” mormorò.
“Sono passate da poco le undici.”
“Cos’è successo al programma di essere a casa per le nove?”
“Sono stato trattenuto,” disse lui timidamente. “Ascolta, tesoro. So che avrei dovuto chiamare prima. Non è stato carino. Sono davvero dispiaciuto.”
“Ok,” rispose Jessie. Aveva la bocca impastata e le faceva male la testa.
Kyle le accarezzò il braccio con le dita.
“Mi piacerebbe farmi perdonare,” le suggerì.
“Non stasera, Kyle,” rispose Jessie scrollandosi la sua mano di dosso mentre si alzava. “Non sono dell’umore giusto. Neanche un po’. Magari la prossima volta puoi tentare di non farmi sentire una schifezza. Vado a letto.”
Salì le scale, e nonostante l’urgente bisogno di girarsi a vedere la sua reazione, continuò lungo la sua strada senza aggiungere una parola di più. Si mise a letto senza neanche spegnere la luce. Nonostante il mal di testa e la bocca impastata, si addormentò in meno di un minuto.
*
Jessie sentì un ramo spinoso che le graffiava il volto mentre correva attraverso il bosco buio. Era inverno e lei sapeva che anche scalza i suoi passi che battevano sulle foglie secche che ricoprivano la neve risuonavano con forza, e che lui l’avrebbe probabilmente sentita. Ma non aveva scelta. La sua unica speranza era di continuare a muoversi, e sperare che lui non la trovasse.
Ma lei non conosceva bene il bosco, mentre lui sì. Lei stava correndo alla cieca, completamente perduta e alla ricerca di un segnale familiare. Le sue gambette erano troppo corte. Sapeva che lui la stava raggiungendo. Sentiva i suoi passi pesanti e il suo respiro ancora più pesante. Non c’era nessun posto dove nascondersi.
CAPITOLO SEI
Jessie si mise a sedere di scatto sul letto, svegliandosi giusto in tempo per sentire il suo stesso grido. Le ci vollero un paio di secondi per orientarsi e rendersi conto che si trovava nel proprio letto a Westport Beach, con indosso i vestiti nei quali si era addormentata la notte precedente, non particolarmente sobria.
Aveva il corpo completamente ricoperto di sudore e il respiro accelerato. Le pareva di poter effettivamente sentire il sangue che le scorreva attraverso le vene. Si portò la mano alla guancia sinistra. La cicatrice causata dal ramo era ancora lì. Era sbiadita e la si poteva per lo più mascherare con il trucco, diversamente da quella più lunga che aveva all’altezza della clavicola. Ma poteva ancora sentire come sporgeva dal resto della pelle. E poteva percepire ancora adesso il netto bruciore.
Guardò alla propria sinistra e vide che il letto era vuoto. Si capiva che Kyle aveva dormito lì per la piega del cuscino e le lenzuola gettate alla rinfusa. Ma lui non c’era. Provò a sentire se ci fosse il rumore della doccia, ma la casa era immersa nel silenzio. Dando un’occhiata alla sveglia sul comodino, vide che erano le 7:45. Doveva essere ormai partito per andare al lavoro.
Jessie uscì dal letto cercando di ignorare la testa che le pulsava mentre si portava con passi strascicati fino al bagno. Dopo una doccia di quindici minuti, per la metà passata seduta sulle piastrelle gelide, si sentì pronta a vestirsi e a scendere di sotto. In cucina vide un bigliettino lasciato sul tavolo della colazione. Diceva “Scusa ancora per ieri sera. Mi piacerebbe avere un altro invito quando vorrai. Ti amo.”
Jessie lo mise da parte e si fece del caffè e una zuppa d’avena, l’unica cosa che si sentiva capace di mandare giù in quel momento. Riuscì a mangiarne mezza tazza, buttò il resto nella spazzatura e si diresse nel salotto d’ingresso, dove la aspettavano una dozzina di scatoloni non ancora aperti.
Si accomodò nella poltroncina con un paio di forbici, posò il caffè sul tavolino e tirò uno scatolone verso di sé. Mentre passava senza prestare attenzione da uno scatolone all’altro, spuntando gli oggetti sulla lista man mano che li trovava, vagò con la mente alla sua tesi DNR.
Se non fosse stato per il loro litigio, Jessie avrebbe di certo raccontato a Kyle non solo del suo imminente tirocinio presso la struttura, ma anche delle conseguenze della sua tesi originale, incluso il suo interrogatorio. Quella sarebbe stata una violazione del suo Accordo di non divulgazione.
Ovviamente lui era al corrente dei principali punti, dato che avevano discusso insieme il progetto durante la sua ricerca. Ma il Comitato le aveva fatto giurare segretezza al riguardo in seguito, anche nei confronti di suo marito.
Le era sembrato strano nascondere una parte così grossa della sua vita al proprio compagno. Ma le avevano assicurato che era necessario. E a parte qualche domanda generica su come fossero andate le cose, lui non le aveva mai fatto veramente pressione sull’argomento. Poche vaghe risposte lo avevano soddisfatto, e al tempo la cosa era stata per lei un sollievo.
Ma ieri, con l’entusiasmo che provava per ciò che stava per fare – visitare un ospedale mentale per assassini – trovandosi a un livello mai raggiunto prima, era pronta a metterlo al corrente di tutto, nonostante il divieto e le sue conseguenze. Se il loro litigio poteva avere un effetto positivo, era di averle impedito di dirglielo e di mettere quindi a rischio il futuro di entrambi.
Ma che genere di futuro è, se non posso condividere i miei segreti con mio marito? E se lui non sembra curarsi del fatto che me li tenga per me?
A quel pensiero, Jessie si sentì avvolgere da un leggero alone di malinconia. Cercò di liberarsene la testa, ma non era così facile.
Venne sorpresa dal suono del campanello. Dando un’occhiata all’orologio, si rese conto di essere rimasta seduta nello stesso punto, persa nel suo umore cupo e con le mani appoggiate su uno scatolone ancora chiuso per almeno dieci minuti.
Si alzò e andò alla porta, cercando di scuotersi di dosso la tristezza a ogni passo. Quando aprì la porta, davanti a lei c’era Kimberly, con un gioioso sorriso stampato in viso che Jessie cercò di imitare al meglio.
“Ciao vicina,” le disse con entusiasmo Kimberly. “Come procede lo svuotamento degli scatoloni?”
“Lentamente,” ammise Jessie. “Ma grazie per avermelo chiesto. Come stai?”
“Sto bene. A dire il vero ci sono un po’ di signore del vicinato a casa mia in questo momento per un caffè di mezza mattina, e mi chiedevo se volessi unirti a noi.”
“Certo,” rispose Jessie, felice di avere una scusa per uscire di casa alcuni minuti.
Prese le chiavi, chiuse e si allontanò insieme a Kimberly. Quando arrivarono, quattro teste si girarono verso di loro. Nessuno dei volti le apparve familiare. Kimberly presentò tutte e portò Jessie alla postazione del caffè.
“Non si aspettano che ricordi i loro nomi,” sussurrò mentre versava loro delle tazze da bere. “Quindi non sentirti sotto pressione. Ci sono passate tutte prima di te.”
“Questo è un bel peso in meno,” confessò Jessie. “Ho così tante cose che mi riempiono la testa in questi giorni, che faccio fatica a ricordarmi il mio, di nome.”
“Completamente comprensibile,” disse Kimberly. “Ma devo avvisarti: ho già parlato di tutta quella roba del profiler dell’FBI, quindi è probabile che ti facciano qualche domanda.”
“Oh, ma io non lavoro per l’FBI. Non mi sono ancora neanche laureata.”
“Non importa, fidati. Pensano tutte che tu sia una Clarice Starling in carne e ossa. Il mio pronostico sui riferimenti ai serial killer è tre.”
Kimberly aveva di gran lunga sottovalutato la situazione.
“Stai seduta nella stessa stanza di quei tizi?” chiese una donna che si chiamava Caroline, con i capelli così lunghi che alcune ciocche le arrivavano al sedere.
“Dipende dalle regole della struttura,” rispose Jessie. “Ma non ne ho mai intervistato uno senza un profiler o investigatore professionista vicino a me a farmi da guida.”
“I serial killer sono tutti così furbi come sembrano nei film?” chiese con tono esitante una donnina timida e introversa che si chiamava Josette.
“Non ne ho intervistati così tanti da poterlo dire con certezza,” spiegò Jessie. “Ma sulla base della letteratura esistente, come anche secondo la mia esperienza personale, direi di no. La maggior parte di questi uomini – e sono quasi sempre uomini – non sono più intelligenti di me o te. Alcuni la passano liscia per molto tempo grazie a indagini fiacche. Alcuni riescono a scamparla perché scelgono vittime di cui nessuno si cura: prostitute e senzatetto. Ci vuole un po’ perché la gente si accorga che quelle persone mancano. E a volte sono soltanto fortunati e basta. Non appena mi sarò laureata, il mio lavoro sarà di cambiare la loro fortuna.”
Le donne la continuarono a punzecchiare gentilmente di domande, apparentemente non interessate al fatto che lei non si fosse ancora laureata, né fosse personalmente coinvolta in un caso di analisi comportamentale.
“Quindi non hai mai realmente risolto un caso?” chiese una donna particolarmente inquisitoria che si chiamava Joanne.
“Non ancora. Tecnicamente sono ancora una studentessa. Sono i professionisti a gestire i veri casi. Ma parlando di professionisti, voi cosa fate?” chiese Jessie nella speranza di deviare un po’ tutto quell’interesse concentrato su di sé.
“Io lavoravo nel marketing,” disse Joanne. “Ma era prima che nascesse Troy. Mi tiene piuttosto impegnata in questi tempi. È un lavoro a tempo pieno, di per sé.”
“Ci scommetto. Sta facendo un pisolino, ora?” chiese Jessie.
“Forse,” disse Joanne dando un’occhiata all’orologio. Si alzerà presto per uno spuntino credo. È al nido.”
Oh,” disse Jessie, prima di tentare la domanda successiva, con la maggiore delicatezza possibile. “Pensavo che la maggior parte dei bimbi che stanno al nido avessero mamme lavoratrici.”
“Sì,” disse Joanne, apparentemente non offesa. “Ma lì sono così bravi che non potevo non iscriverlo. Non ci va tutti i giorni. Ma i mercoledì sono un’impresa, quindi di solito ce lo porto. La metà della settimana è dura, giusto?”
Prima che Jessie potesse rispondere, la porta che conduceva al garage si aprì ed entrò un tizio robusto sulla trentina, con un cespo di capelli rossi spettinati in testa.
“Morgan!” esclamò Kimberly con gioia. “Cosa ci fai a casa?”
“Ho lasciato il rapporto nello studio,” rispose l’uomo. “Ho la presentazione tra venti minuti, quindi devo tornare di corsa.”
Morgan, a quanto pareva il marito di Kimberly, non sembrò per nulla sorpreso di vedere mezza dozzina di donne nel suo salotto. Passò tra loro salutando in modo generico il gruppo. Joanne si sporse verso Jessie.
“È una specie di ingegnere,” le disse sottovoce, come se fosse una sorta di segreto.
“Per chi? Una delle industrie della difesa?” chiese Jessie.
“No, per un qualche gruppo immobiliare.”
Jessie non capiva perché ciò meritasse una tale discrezione, ma decise di non indagare oltre. Pochi secondi dopo Morgan ricomparve in salotto con una spessa risma di carte in mano.
“Felice di avervi visto, signore,” disse. “Mi spiace di non potermi fermare, Kim. Ricordati che ho una cosa al circolo stasera, quindi farò tardi.”
“Va bene tesoro,” disse sua moglie, seguendolo per assicurarsi un bacio prima che lui scappasse dalla porta.
Quando se ne fu andato, Kimberly tornò nel salotto, ancora emozionata dall’inaspettata visita.
“Giuro che si muove con tale decisione da far pensare che sia lui il profiler criminale, o qualcosa del genere.”
Il commento gettò il gruppo in un’ondata di risate. Jessie sorrise, non esattamente sicura di cosa ci fosse di tanto divertente.
*
Un’ora dopo, era tornata nel suo salotto, e stava cercando di trovare l’energia per aprire lo scatolone di fronte a sé. Mentre tagliava con attenzione il nastro adesivo, ripensò al caffè a casa di Kimberly. C’era qualcosa di strano, ma non riusciva esattamente a capire cosa.
Kimberly era dolcissima. A Jessie piaceva veramente, e apprezzava soprattutto lo sforzo che stava facendo per aiutarla. E le altre donne erano tutte carine e piacevoli, un bel gruppetto. Ma c’era qualcosa… di misterioso nelle loro interazioni, come se condividessero tutte un qualche segreto di cui Jessie non era al corrente.
In parte pensava di essere semplicemente paranoica al riguardo. Non sarebbe stata la prima volta che saltava in modo avventato alla conclusione sbagliata. Lo stesso, però, tutti i suoi insegnanti nel programma di psicologia forense alla USC l’avevano sempre apprezzata per il suo intuito. Non sembravano pensare che lei fosse paranoica, se non piuttosto “sospettosamente inquisitoria”, come un professore l’aveva definita. Al tempo le era sembrato un complimento.
Aprì la scatola e tirò fuori il primo oggetto, una foto incorniciata del suo matrimonio. La fissò per un momento, guardando le espressioni felici sul proprio volto e su quello di Kyle. Al loro fianco si trovavano membri delle loro famiglie, anche loro raggianti di gioia.
Mentre scorreva con gli occhi il gruppo lì ritratto, sentì improvvisamente sorgere dentro di sé un’altra volta la malinconia. Una tensione ansiosa le strinse il petto. Ricordò a se stessa di inspirare profondamente, ma nessun numero di inspirazioni ed espirazioni riuscì a calmarla.
Non era esattamente sicura di cosa le avesse causato questo nervosismo: i ricordi, l’ambiente, il litigio con Kyle, una combinazione di tutti questi fattori? Qualsiasi fosse la ragione, Jessie riconobbe nondimeno la verità di fondo. Non era più capace di controllare questa condizione da sola. Doveva parlare con qualcuno. E nonostante l’acuta sensazione di fallimento che iniziava a sopraffarla mentre prendeva il telefono, digitò il numero che aveva sperato di non dover più utilizzare.
CAPITOLO SETTE
Fissò un appuntamento con la sua vecchia terapeuta, la dottoressa Janice Lemmon, e solo il pensare che andarci avrebbe voluto dire tornare nella sua vecchia zona la rimise a proprio agio. Il panico era sceso quasi immediatamente dopo aver programmato la seduta.
Quando Kyle tornò a casa quella sera – addirittura presto – ordinarono del cibo da asporto e guardarono un film di scarsa qualità, seppur divertente, sui mondi paralleli, intitolato Il tredicesimo piano. Nessuno di loro si scusò formalmente, ma parevano aver riscoperto insieme la loro comfort zone. Dopo il film non andarono neanche al piano di sopra per fare sesso. Kyle le saltò semplicemente sopra direttamente lì sul divano. A Jessie tornarono in mente i primi giorni da sposati.
Le aveva addirittura fatto la colazione la mattina successiva, prima di uscire per andare al lavoro. Era disgustosa – toast bruciato, uova poco cotte, come anche il beacon di tacchino – ma Jessie apprezzò il tentativo. Si sentiva un po’ a disagio a non raccontagli dei propri programmi per la giornata. Però lui non le aveva chiesto nulla, quindi non si poteva parlare di bugie.
Non fu fino a quando si trovò sulla tangenziale quella mattina, con davanti a sé la veduta dei grattacieli del centro di Los Angeles, che Jessie sentì veramente cadere il corrosivo turbinio di nervosismo che aveva nello stomaco. Aveva fatto il viaggio dalla Contea di Orange in meno di un’ora ed era arrivata in città tanto presto da potersi fare una passeggiata in centro. Mise l’auto nel parcheggio vicino all’ufficio della dottoressa Lemmon, di fronte all’Original Pantry, all’angolo tra la Figueroa e la Nona Ovest.
Poi le venne in mente di chiamare la sua ex compagna di stanza alla USC, oltre che vecchia amica del college, Lacey Cartwright, che viveva e lavorava nella zona, per vedere se riuscivano a incontrarsi. Rispose la segreteria telefonica, e Jessie lasciò un messaggio. Mentre imboccava la Figueroa in direzione dell’Hotel Bonaventure, Lacey le mandò un messaggio per dirle che era troppo occupata per vedersi quel giorno, ma che si sarebbero di certo incontrate la prossima volta che Jessie fosse stata nei paraggi.
Chissà quando sarà?
Scacciò la delusione dalla testa e si concentrò sulla città che la circondava, ammirando l’esplosiva visuale e i rumori che erano così diversi da quelli del nuovo ambiente dove viveva. Quando arrivò alla Quinta Strada, svoltò a destra e continuò a passeggiare tranquillamente.
Le ricordò quei giorni, non poi tanto tempo prima, in cui faceva questa stessa cosa per più e più volte nel corso di una sola settimana. Se stava lavorando a un caso di studio per la lezione, spesso usciva in strada e girovagava, usando il traffico come sottofondo neutro mentre ripensava mentalmente al caso per trovare finalmente un modo per affrontarlo. Il suo lavoro era quasi sempre più efficace se aveva del tempo per passeggiare in centro e giocherellarci un po’.
Tenne da parte l’imminente discussione con la dottoressa Lemmon mentre rivisitava mentalmente il caffè del giorno precedente a casa di Kimberly. Ancora non era riuscita a inchiodare la natura della misteriosa segretezza delle donne che aveva incontrato lì. Ma una cosa le balzò in testa in retrospettiva: quanto fossero tutte così disperatamente desiderose di conoscere ogni dettaglio dei suoi studi di psicologia criminale.
Non era in grado di dire se fosse perché la professione che stava per intraprendere sembrava così insolita o semplicemente perché era una professione e basta. Ripensandoci, si rese conto che nessuna di quelle donne lavorava.
Alcune lo facevano un tempo. Joanne si era occupata di marketing. Kimberly le aveva detto di aver lavorato in un’agenzia immobiliare quando abitavano a Sherman Oaks. Josette aveva diretto una piccola galleria a Silverlake. Ma ora erano tutte mamme che stavano a casa. E anche se sembravano felici delle loro nuove vite, si mostravano anche insaziabili davanti a dettagli riguardanti il mondo professionale, pronte a divorare avidamente, quasi con senso di colpa, ogni boccone di intrigo.
Jessie si fermò rendendosi conto di essere in qualche modo arrivata all’Hotel Biltmore. Ci era stata molte volte prima d’ora. Era famoso, tra le altre cose, per aver ospitato alcuni dei primi Academy Awards negli anni Trenta. Una volta le avevano anche raccontato che era dove Robert Kennedy era stato assassinato da Sirhan Sirhan nel 1968.
Ai tempi in cui doveva ancora decidere di fare la tesi sul DNR, Jessie aveva sfiorato l’idea di eseguire un profilo di Sirhan. Quindi si era presentata un giorno senza preavviso e aveva chiesto al portiere se facevano visite guidate dell’hotel, incluso il sito della sparatoria. L’uomo era rimasto perplesso.
Gli ci erano voluti alcuni imbarazzati secondi per capire di cosa lei stesse parlando, e almeno altrettanti per spiegarle educatamente che l’assassinio non era avvenuto lì, ma presso l’Hotel Ambassador, ora demolito.
Aveva poi tentato di smorzare il colpo raccontandole che JFK aveva ottenuto la nomina democratica a presidente al Biltmore nel 1960. Ma Jessie era rimasta troppo umiliata per restare ad ascoltare quella storia. Nonostante la vergogna, l’esperienza le aveva insegnato una valida lezione che ancora ricordava bene: non dare niente per scontato, soprattutto in una linea di lavoro dove dare per scontato qualcosa di sbagliato poteva farti ammazzare. Il giorno dopo aveva cambiato l’argomento della tesi e aveva deciso di svolgere la sua ricerca sempre prima di presentarsi in un luogo.
Nonostante quel fiasco, Jessie era poi tornata spesso, dato che adorava il glamour vecchio stile del posto. Questa volta si trovò subito a suo agio girovagando attraverso i corridoi e le sale da ballo per una ventina di minuti abbondanti.
Mentre attraversava la lobby, diretta verso l’uscita, notò un uomo dall’aspetto giovanile e vestito elegantemente che se ne stava causalmente accanto alla postazione del fattorino, intento a leggere un giornale. Ciò che attirò l’attenzione di Jessie fu quanto fosse sudato. Con l’aria condizionata che rinfrescava l’hotel, non capiva come potesse essere fisicamente possibile. Eppure, a intervalli di pochi secondi, si tamponava le gocce di sudore che si formavano costantemente sulla sua fronte.
Perché questo tipo è così sudato mentre legge con noncuranza un giornale?
Jessie si portò più vicina e tirò fuori il telefono. Finse di leggere qualcosa, ma avviò la modalità macchina fotografica e lo inclinò in modo da poter guardare il tizio senza effettivamente fissarlo direttamente. Di tanto in tanto scattò anche qualche foto.
Non sembrava che stesse effettivamente leggendo il giornale, quanto piuttosto utilizzandolo come oggetto di scena mentre di tanto in tanto guardava in direzione dei bagagli che venivano posizionati sul carrello. Quando uno dei fattorini iniziò a spingere il carrello verso l’ascensore, l’uomo si mise il giornale sottobraccio e lo seguì camminando lentamente.
Il fattorino spinse il carrello nell’ascensore e anche l’uomo vi entrò, portandosi dall’altra parte del carrello. Proprio mentre le porte si chiudevano, Jessie vide che l’uomo afferrava dal lato del carrello una valigetta che non era visibile al fattorino.
Jessie osservò l’ascensore che lentamente saliva e si fermava all’ottavo piano. Dopo circa dieci secondi, riprese a scendere. Subito lei si portò vicino all’addetto alla sicurezza vicino alla porta d’ingresso. Il guardiano, un uomo sulla quarantina dall’aspetto bonario, le sorrise.
“Penso ci sia un ladro all’opera nell’hotel,” disse Jessie senza alcun preambolo, volendo arrivare rapidamente al sodo.
“Come sarebbe a dire?” chiese l’uomo ora accigliandosi un poco.
“Ho visto questo tizio,” disse lei mostrando la foto fatta con il cellulare, “che prendeva una valigetta da un carrello bagagli. Può darsi che fosse sua. Ma è stato piuttosto furtivo e stava sudando come succede quando uno è nervoso per qualcosa.”
“Va bene, Sherlock,” disse la guardia scetticamente. “Assumendo che tu abbia ragione, come potrei trovarlo? Hai visto a che piano si è fermato l’ascensore?”
“Otto. Ma se ho ragione, non ha importanza. Se è un ospite dell’hotel, immagino che sia il suo piano e che sia lì che è alloggiato.”
“E se non è un ospite?” chiese la guardia.
“Allora immagino che tornerà dritto giù con l’ascensore che sta scendendo alla lobby in questo momento.”
Proprio mentre lo stava dicendo, la porta dell’ascensore si aprì e l’uomo sudato e con l’abito elegante uscì, il giornale in una mano e la valigetta nell’altra. Si diresse verso l’uscita.
“Immagino che la infilerà da qualche parte e inizierà da capo l’intera procedura,” disse Jessie.
“Resta qui,” le disse la guardia, poi parlò alla radio. “Ho bisogno di rinforzi nella lobby, all’istante.”
Si avvicinò all’uomo, che lo vide con la coda dell’occhio e accelerò il passo. La guardia fece lo stesso. L’uomo si mise a correre e stava per passare attraverso la porta d’accesso quando andò a sbattere contro un altro addetto alla sicurezza che correva nella direzione opposta. Entrambi finirono a terra.
La guardia che aveva parlato con Jessie afferrò l’uomo, lo sollevò e gli tirò la braccia dietro la schiena, per poi sbatterlo contro la parete.
“Le spiace se guardo nella sua valigia, signore?” gli chiese.
Jessie avrebbe voluto vedere come tutto si sarebbe svolto, ma una rapida occhiata all’orologio le rivelò che il suo appuntamento con la dottoressa Lemmon, fissato per le 11, sarebbe iniziato tra cinque minuti. Avrebbe dovuto rinunciare alla passeggiata per tornare indietro, prendendo invece un taxi per arrivare in tempo. Non aveva neanche la possibilità di salutare la guardia. Aveva paura che se l’avesse fatto, lui avrebbe insistito per farla stare lì e fare una dichiarazione alla polizia.
Ce la fece appena in tempo e si stava proprio sedendo senza fiato nella sala d’aspetto, quando la dottoressa Lemmon aprì la porta dell’ufficio per invitarla a entrare.
“Sei venuta qui di corsa da Westport Beach?” le chiese il medico ridacchiando.”
“A dire il vero, più o meno.”
“Beh, entra e mettiti comoda,” disse la dottoressa Lemmon, chiudendo la porta dietro di sé e versando per entrambe un bicchiere d’acqua da una caraffa piena di limoni e fette di cetriolo. Aveva ancora l’orribile permanente che Jessie ricordava, con quei riccioli biondi piccolissimi che rimbalzavano quando le toccavano le spalle. Indossava occhiali spessi che facevano apparire più piccoli i suoi occhi intensi da gufo. Era una donna minuta, sicuramente non più alta di un metro e cinquanta. Ma era visibilmente soda e muscolosa, probabilmente come risultato dello yoga che, come aveva raccontato a Jessie, praticava tre volte a settimana. Per essere una donna sulla sessantina, aveva un aspetto pazzesco.







