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Mackenzie sistemò il seggiolino sul bordo del letto d'ospedale, in modo che Kevin potesse guardare suo padre.
“Hai almeno preso il tizio?” Mackenzie cercava di tenere il tono leggero, anche se la sconvolgeva più di quanto si aspettasse vederlo sminuire la cosa nonostante stesse evidentemente soffrendo.
“Sì. In realtà gli sono caduto addosso quando sono arrivato in fondo alle scale. McAllister lo ha ammanettato e ha chiamato un'ambulanza per me.”
Mackenzie non poté farne a meno: gli guardò la testa, trovando il punto in cui aveva chiaramente sbattuto. Era appena sopra l'occhio sinistro; non c'era gonfiore, ma c'era un taglio e uno scolorimento della pelle. Sembrava che avesse preso un debole colpo, piuttosto che uno scalino o un muro in faccia.
“Non c'era bisogno che venissi, davvero.”
“Lo so. Ma volevo farlo. Ho pensato che sarebbe stato un buon esempio da usare per mostrare a Kevin come deve sempre stare attento quando insegue i cattivi.”
“Divertente. Ehi, sai... McGrath mi ha chiamato, stamattina. Detto tra noi, voleva sapere come stavi. Mi ha chiesto se pensavo che fossi pronta ad affrontare un caso. Credo che ne abbia uno pronto per te nelle prossime settimane.”
“Questa è una buona notizia. Ma in questo momento vorrei concentrarmi su di te.”
“Non c'è molto su cui concentrarsi. Sono caduto dalle scale e mi sono rotto un braccio.”
Dietro Mackenzie, un medico entrò nella stanza portando con sé una serie di lastre. “Questo è sicuro” disse il dottore. “Una brutta rottura, per giunta. Non ci vorranno perni, come avevo inizialmente temuto, ma potrebbe volerci un po' più di tempo per guarire di quanto avessi previsto. Quella frattura del distale così vicina all’altra rottura... è una doppia sfortuna.”
Mackenzie spostò il seggiolino di Kevin quando il dottore si avvicinò a Ellington. “Pronto a farti ingessare?”
“Ho scelta?”
“No, non ce l'hai.” Dal seggiolino, Kevin sbuffò, come a dirsi d'accordo.
Mentre guardava il dottore che iniziava a preparare lo stampo del gesso nel grande lavabo dall'altro lato della stanza, Mackenzie si avvicinò a Ellington. “Non cercare di fare il duro. Come stai?”
“Fa un male cane, ma mi hanno dato dell'ossicodone circa cinque minuti prima che tu entrassi, quindi dovrei essere a posto da un momento all'altro.”
“E la testa?”
“Mi fa un po’ male. Potrebbe essere peggio, ma è difficile capirlo, con tutto il dolore che si irradia dal mio braccio. Come ho detto, però, hanno controllato che non ci fossero segnali di una commozione cerebrale e...”
Il telefono di Mackenzie squillò, interrompendolo. Controllò, dando per scontato che la chiamata fosse legata alla ricerca che aveva completato quella mattina. Quando vide il nome di McGrath sul display del telefonino, però, capì che non era così.
“Hai fatto sapere a McGrath cosa è successo?” gli domandò.
“No, ma ci ha pensato McAllister. Perché, è lui?”
Mackenzie annuì mentre rispondeva alla chiamata, leggermente confusa. “Sono l'agente White.”
“Ciao, White. Suppongo che abbia già sentito del piccolo incidente di Ellington?”
“Sì, signore. Sono qui con lui proprio ora. Sta per farsi mettere il gesso.”
“Beh, questo potrebbe rendere la conversazione un po' imbarazzante. E odio parlare di lavoro mentre è in ospedale con lui, ma il tempo stringe.”
“Non fa niente. Cosa succede?”
“Nulla di grave. Ma stavo mettendo insieme la documentazione per assegnare a Ellington un caso per cui ho bisogno di lui subito. Poi però McAllister mi ha chiamato per informarmi dell'incidente. E, per quanto possa sembrare insensibile, mi trovo ad avere bisogno di un agente che si occupi delle indagini.”
Mackenzie non disse nulla, non volendo saltare alle conclusioni. Ma quando il silenzio di McGrath si protrasse, non poté farne a meno. “Posso farcela, signore.”
“Ecco perché l'ho chiamata. Stavo per mandare McAllister, ma non voglio toglierlo dal caso a cui sta lavorando, visto che lui ed Ellington l'hanno quasi chiuso.”
“Allora lo dia a me.”
“Sicura di essere pronta?”
Quella domanda la irritava, ma si trattenne. Era pronta? Beh, aveva dato la caccia a un killer scalando la parete di una montagna appena cinque mesi dopo il parto cesareo. I tre mesi in più che le aveva fatto passare a casa erano stati una decisione di McGrath – una decisione che Mackenzie non approvava, ma che aveva fatto del suo meglio per accettare con obbedienza.
“Sì, signore. In ogni caso mi avrebbe fatta tornare la prossima settimana, no?”
“Salvo imprevisti, sì. Ora, White... questo caso è a Seattle. Se la sente di accettare?”
Quasi rispose subito di sì. Aveva già la parola sulla punta della lingua, poi però pensò a come sarebbe stato essere così lontano da Kevin. Si era affezionata ancora di più a lui in quegli ultimi tre mesi, sperimentando di persona quel legame di cui parlavano i manuali che aveva letto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per suo figlio, e il pensiero di stare dall'altra parte del paese per un periodo di tempo indeterminato non la allettava. Per non parlare del fatto che sarebbe rimasto con il papà, che poteva usare solo un braccio.
Ma McGrath le stava essenzialmente restituendo la sua carriera... su un piatto d'argento, niente di meno. Doveva accettare.
“Dovrebbe andare bene, signore.”
“Non posso accontentarmi del condizionale, White. Senta... darò a lei ed Ellington dieci minuti per parlarne. Ma ho bisogno di un agente su un volo per Seattle per le sette di stasera. C'è un aereo che parte tra due ore e mezza.”
“Ok. La richiamo subito.”
Terminò la chiamata e vide Ellington che la guardava. Il dottore si era avvicinato e aveva iniziato ad applicare la garza bagnata sul braccio, avvolgendola intorno alla zona gonfia e scolorita. Lo sguardo sul volto di Ellington le disse tutto quello che doveva sapere. Aveva sentito almeno una parte della conversazione e non aveva ancora deciso come si sentiva.
“Allora, dov'è?” Chiese Ellington. “È l'unica cosa che non sono riuscito a sentire.”
Le sorrise, facendole sapere che era riuscito a sentire l'intera conversazione. Avevano spesso scherzato sul fatto che il direttore McGrath aveva una voce incredibilmente alta, al telefono.
“A Seattle. Partirei questo pomeriggio o questa sera.” Poi guardò Kevin e scosse la testa. “Ma non posso lasciarti con lui... non con un braccio rotto.”
“Mac, basta guardarti in faccia per capire quanto desideri questo incarico. Io e Kevin ce la caveremo.”
“Tesoro, riesci a malapena a cambiare un pannolino con due mani.”
Ellington annuì. Anche se Mackenzie scherzava, era evidente che lui capiva il suo punto di vista. All’improvviso, però, sembrò avere un’illuminazione. Rimasero in silenzio per un po', e l'unico rumore proveniva dal dottore che applicava il gesso. Anche quest’ultimo rimase in silenzio, facendo del suo meglio per rispettare la loro situazione d'impaccio.
“Sai che c'è?” disse infine Ellington. “Mia madre mi ha chiesto quando potrà tornare per passare un po' di tempo con Kevin. Posso garantirti che coglierà l'occasione al volo. A meno che tu non l'abbia dimenticato, lei adora sentirsi l’eroina della situazione.”
Mackenzie ci pensò. Lei ed Ellington avevano entrambi problemi con le loro madri, ma renderle nonne sembrava aver fatto meraviglie per quanto riguardava le loro relazioni individuali. E, egoisticamente, se la madre di Ellington fosse venuta a trovarlo mentre lei era fuori città, sarebbe stato fantastico. Mackenzie faceva finta che le piacesse quando era nei paraggi, ma sia lei che Ellington sapevano che in realtà non le andava affatto a genio quella donna.
“Ma sarà libera?”
“Parliamo di mia madre. Cos'altro potrebbe avere da fare? Inoltre... che ti piaccia o meno, questo piccoletto ce l’ha in pugno. Anche se fosse occupata, lascerebbe volentieri tutto per precipitarsi da lui. Lascia che la chiami. Tu intanto richiama McGrath.”
Prima che potesse protestare, Ellington stava tirando fuori il cellulare dalla tasca con il braccio buono. Il dottore gli lanciò uno sguardo severo, facendo una pausa nell’applicazione del gesso.
Mackenzie richiamò subito McGrath. Mentre il telefono iniziava a squillare, si voltò verso Kevin. Era intento a guardare il padre, sorridendogli. Anche se il suo cuore fremeva d'eccitazione all’idea di tornare al lavoro così all’improvviso, cominciava anche a soffrire al pensiero di essere lontana dal suo bambino. Immaginò che sarebbe stata una sensazione che avrebbe provato più volte, mentre Kevin cresceva. Un cuore diviso tra due amori: lavoro e famiglia.
E ora, con un nuovo caso dall'altra parte del paese che l'aspettava, sapeva che non sarebbe stata una sensazione a cui si sarebbe mai veramente abituata.
CAPITOLO TRE
Fu più difficile andarsene di quanto Mackenzie si aspettasse. Non aiutava il fatto che suo marito fosse ingessato da poco e che la madre di Ellington non fosse ancora arrivata quando lei dovette uscire dalla porta. Kevin stava misericordiosamente facendo il suo pisolino pomeridiano. Sapeva che avrebbe dormito per almeno un'altra ora e che per allora la suocera sarebbe stata lì. Eppure, le sembrava di abbandonare la sua famiglia. Aveva provato qualcosa di simile quando era partita per l'ultimo caso, ma questa volta ci stava male. Stavolta era più consapevole del proprio ruolo di madre e conosceva il senso di unità di cui lei ed Ellington erano capaci.
“Andrà tutto bene” le assicurò Ellington accompagnandola alla porta. “Mia madre è fin troppo opprimente. Si prenderà fin troppa cura di Kevin. E di me. Oddio, le piacerà troppo. Potrebbe non volersene più andare.”
“Questo non aiuta.”
Ellington la baciò teneramente sulle labbra. Si era abituata un po' troppo a quei baci, negli ultimi mesi. Qualcuno avrebbe detto che era diventata viziata.
“Vai” disse Ellington, guardandola negli occhi con profondità e passione. “Perditi nel lavoro per un po'. Penso che te lo meriti. Noi saremo qui ad aspettarti, al tuo ritorno.”
Le diede una pacca sul sedere, per smorzare a modo suo la serietà che gli si era insinuata nella voce. Entrambi si amavano ferocemente ed entrambi lo sapevano. Ma nessuno dei due, in particolare Ellington, era mai stato particolarmente bravo ad esprimerlo.
Si scambiarono un ultimo, rapido bacio e Mackenzie si ritrovò fuori dal loro appartamento, con la porta chiusa alle spalle. Aveva con sé solo un trolley, abbastanza piccolo da poter essere considerato un bagaglio a mano, e nient'altro. Si avviò lentamente verso l'ascensore, sapendo di essere più che pronta a tornare al lavoro, ma già sentendo la mancanza della sua famiglia.
***
Provò a guardare un film sull'aereo ma, con sua grande sorpresa, si addormentò quindici minuti dopo. Quando si svegliò all'annuncio del pilota che stavano iniziando l’ultimo atterraggio a Seattle, aveva la sensazione che le fosse stato rubato del tempo, in qualche modo. D'altra parte, non era sicura dell'ultima volta in cui era riuscita a godersi un vero e proprio pisolino. Anche se era stato su un aereo, era stato piacevole.
Si chiese se il senso di colpa che provava nel godersi il pisolino provenisse dal settore maternità, dal settore moglie, o se fosse un misto di entrambi.
Quando l'aereo atterrò erano le 20:31, ora locale, e il cielo era coperto. Il suo volo era partito da Washington con un ritardo di circa un'ora e mezza, facendola arrivare a Seattle ad un'ora che la costrinse a prendere in considerazione l'eventualità di aspettare ad agire fino al giorno successivo.
Parlò con il vicedirettore dell'ufficio di Seattle, il quale le disse che avrebbe incontrato l'agente che l'avrebbe assistita sulla scena del crimine come prima cosa il mattino seguente. Le diede il nome dell'agente – agente Ryan Webber – e le chiese se avesse tutte le informazioni aggiornate. Lei confermò di aver ricevuto i fascicoli dal direttore McGrath a Washington, e aveva tutto pronto prima ancora di caricare la valigia sul sedile posteriore della sua auto a noleggio.
In uno strano modo che non riusciva a definire, quando mise in moto l'auto provò un senso di libertà che non provava da quando aveva partorito Kevin. Si rese conto che, forse, poteva davvero farcela; forse poteva riuscire a bilanciare la sua carriera e la sua famiglia. Traboccava di eccitazione (e forse anche di ansia, ma del tipo positivo) all'idea di cominciare le indagini del caso, ed era piuttosto perplessa per il fatto di dover aspettare fino al mattino. Ma desiderava anche che Ellington fosse lì con lei. Immaginò che Tom Brady si sarebbe sentito così in un'altra squadra, essendo allenato da qualcuno che non fosse Bill Be-
Ossignore, sono stata troppo tempo con E, pensò, troncando quel paragone sul nascere, anche se in realtà non poteva fare a meno di sorridere.
Con quel pensiero in mente, si ritrovò ansiosa di andare in un albergo per poter fare una videochiamata con FaceTime a Ellington e Kevin.
Prima però doveva fare l'agente. Era incredibilmente strano doverselo ricordare. Mentre si recava al parcheggio dell'autonoleggio, con le chiavi in mano, guardò tra i documenti che McGrath aveva inviato e chiamò il numero dell'ufficio di Seattle.
Sapeva che aveva anche i fascicoli del caso da esaminare. Aveva ricevuto alcune e-mail da McGrath e dal suo assistente, dove la informavano che tutto ciò che le serviva sarebbe stato nella sua casella di posta elettronica entro le sei del pomeriggio, fuso orario orientale. Era altrettanto entusiasta di potersi buttare sui dossier, per avere una visione d'insieme del caso prima di parlare con qualcuno. Era il suo modo preferito per ottenere i dettagli di un caso, raccogliendo tutte le informazioni senza l'influenza o il suggerimento di nessun altro.
Fece il check-in in un motel a dieci chilometri dall'aeroporto e non perse tempo. Prima ancora di aprire la valigia, si sedette sul letto e videochiamò Ellington. Lui rispose quasi subito, riempiendo lo schermo con la sua faccia. Anche Kevin era parzialmente sullo schermo, in bilico sulle ginocchia di Ellington. Kevin era però più interessato a osservare il mento del padre, che a guardare il telefono.
“Ehi, ragazzi. Ce l'ho fatta. Sono qui.”
“Bene. Anche noi siamo qui. Sto per mettere a nanna l'ometto. Gli ho permesso di rimanere alzato più tardi del solito per poterti vedere, ma... beh, come puoi vedere, ha questioni più urgenti con il mio mento.”
“Kevin... ehi, piccolo.”
Lentamente, suo figlio si guardò intorno e vide il suo volto sullo schermo. La sua boccuccia si aprì in un sorrisetto e agitò le manine verso il telefono.
“Ecco fatto. Dai la buonanotte alla mamma.”
Il resto della conversazione durò circa cinque minuti, e fu, secondo Mackenzie, probabilmente la conversazione più banale e sdolcinata che avesse mai avuto. Ma quando terminò la telefonata, si sentì appagata. Si sentiva piena di energia, come se fosse in grado di affrontare qualsiasi cosa le indagini le avessero messo davanti.
Pensando al caso, accese il portatile e allestì una piccola postazione di lavoro. Ordinò del cibo cinese, prese una bibita dal distributore automatico di bevande in fondo al corridoio e si mise a studiare per qualche ora i fascicoli. Non c'erano tante informazioni come invece si aspettava, ma quello che vide era abbastanza brutto da far sembrare di cattivo auspicio la pioggia che aveva preso a cadere fuori.
Le vittime erano due, entrambe uccise in modo quasi identico. La differenza principale tra i due omicidi era che il più recente era avvenuto lì a Seattle, mentre l'altro era stato commesso a Portland, in Oregon. Le due città si trovavano a meno di tre ore di distanza l'una dall'altra, quindi non era poi così insolito, soprattutto se si considerava che gli omicidi erano avvenuti a quattro giorni di distanza l'uno dall'altro.
La scena più recente si trovava in un parcheggio situato a circa otto chilometri da dove attualmente si trovava Mackenzie, a leggere i fascicoli. La vittima era Sophie Torres, 23 anni, cameriera e modella part-time. La prima scena era in un piccolo parco pubblico a Portland. La vittima, Amy Hill, era stata trovata in una piccola fontana. Come Sophie Torres, era stata chiaramente colpita in faccia con un oggetto pesante, ma all'inizio non era chiaro se fosse morta per i colpi o per l’annegamento, poiché l'autopsia aveva effettivamente evidenziato segni di annegamento.
Mackenzie buttò giù alcuni appunti, allineando le somiglianze e le differenze di ogni morte. Le somiglianze erano, naturalmente, più evidenti. Entrambe le vittime erano giovani donne, entrambe considerate molto belle dalla maggior parte degli uomini. Erano state colpite in faccia, le ferite e i lividi erano identici in ambo i casi. Stando ai fascicoli, la Scientifica aveva ipotizzato che in entrambi gli omicidi fosse stato usato un martello. A causa della bizzarra scelta dell'arma e dell'età e del sesso delle vittime, questo era visto come opera dello stesso assassino.
Se le morti fossero state nella stessa città, Mackenzie non ne avrebbe dubitato affatto. Ma le tre ore di distanza tra le città e il fatto che Sophie Torres fosse stata uccisa appena fuori dalla sua auto le davano da pensare.
Una volta lette tutte le informazioni a sua disposizione (e terminata la sua cena a base di pollo all'arancia e Pepsi), tornò a leggere i suoi appunti. Non c'era abbastanza per stabilire un profilo sensato, quindi l'indomani avrebbe dovuto approfondire la questione. Le e-mail di McGrath dicevano che sarebbe stata in coppia con un agente dell'ufficio di Seattle e che avrebbe dovuto incontrarlo sulla scena del crimine più recente alle 8:00 del mattino. La cosa le dava fastidio, ma lo capiva. Sperava solo di essere in coppia con qualcuno che non fosse testardo e che non si opponesse a lei solo perché veniva da Washington DC.
Con tutti quei pensieri in mente, decise di dichiarare conclusa la serata. Si fece una doccia e andò a letto poco prima delle 23:00. Con così tante cose in testa, però, non riuscì ad addormentarsi fino a dopo mezzanotte. In quel lasso di tempo, quasi si aspettava di essere svegliata dal pianto di Kevin, dato che si svegliava ancora almeno una volta a notte, con il pannolino bagnato.
Ma la stanza d'albergo rimase silenziosa, l'unico rumore proveniente dalla pioggia battente all'esterno. Alla fine si appisolò, solo un po' scoraggiata dal lato vuoto del letto accanto a lei. Certo, le mancava Ellington, ma di tanto in tanto pensava che facesse bene al corpo distendersi. Quando finalmente si addormentò del tutto, dormì profondamente e, per la prima volta in circa otto mesi, dormì per tutta la notte.
CAPITOLO QUATTRO
Mackenzie era stata a Seattle soltanto un’altra volta, prima di allora. Era stato per un periodo di due giorni per assistere a una conferenza e, durante la sua permanenza, c'era stato un sole splendente e un cielo sereno. Le aveva fatto pensare che la diceria che piovesse sempre in quella città fosse esagerata. Tuttavia, quando si svegliò la mattina seguente, uscì poco dopo le sette e trovò il cielo coperto e qualche sporadica goccia di pioggia, che non poteva nemmeno considerarsi pioviggine. L'aria sembrava semplicemente bagnata e pareva che sopra ogni cosa ci fosse un sottile strato di bruma. Era davvero facile capire perché un genere di musica come il grunge fosse nato proprio in un luogo del genere.
Prese un caffè allo Starbucks dall'altra parte della strada rispetto all'hotel, poi si diresse verso il parcheggio dove Sophie Torres era stata uccisa. Si trovava in una parte della città che non era congestionata dal traffico mattutino, a metà strada tra quello che supponeva fosse il centro e la zona più trafficata e movimentata della città.
Quando arrivò, portò l'auto nel luogo indicato nei dossier: la fila in fondo, al secondo piano del garage. Quando arrivò, vide una Crown Vic nera parcheggiata orizzontalmente davanti al posto macchina, che lo bloccava. Un ragazzo era appoggiato al cofano dell’auto, sorseggiando una tazza di caffè e fissando lo spazio vuoto.
Mackenzie trovò il parcheggio libero più vicino, si infilò e scese dalla macchina. L'uomo si voltò, le rivolse un sorriso e si allontanò dall'auto.
“Agente White?”
“In persona.”
“Sono così felice di conoscerti. Ryan Webber, al tuo servizio.”
Mentre si stringevano la mano, Mackenzie si rese conto che il suo sorriso la metteva un po’ a disagio. Gli occhi di lui erano fissi sul suo viso e il sorriso che sfoggiava era abbastanza ampio da farle pensare al Joker interpretato da Heath Ledger. Webber sembrava avere quasi trent'anni, praticamente un suo coetaneo. Aveva un aspetto pulitissimo, i capelli scuri che si adattavano perfettamente al completo stile Bureau che indossava. Era ben curato e recitava bene la parte dell'agente dell'FBI, adattandosi all'immagine di quasi tutti gli agenti maschi che aveva visto raffigurati in televisione.
“Scusa. Credo che dovrei dirtelo subito: sono un tuo grande ammiratore. Ho seguito la tua carriera fin da prima ancora che entrassi nell'FBI. Il Killer dello Spaventapasseri... tutto quanto. Nel mio gruppo di amici ai tempi dell'Accademia... tu eri una specie di rock star, per noi. Quando sei stata convocata al Bureau... non abbiamo potuto fare a meno di sentire che potevamo farcela tutti, capisci?”
Mackenzie si accorse di cominciare ad arrossire, ma tentò di smorzarlo. A volte si dimenticava di quanto fossero noti alcuni dei suoi casi. Per non parlare del fatto che il suo ingresso ben poco ortodosso nell'FBI era qualcosa da ammirare.
“Beh, lo apprezzo. E sì, sono stata fortunata. Ma sono tutte notizie vecchie. Ora sono un agente come tutti gli altri. Stesso carico di lavoro, stesse regole, stessa vita. Sposata, con un figlio.”
“Wow. Hai dei figli?” Lo disse come se non potesse crederci. Mackenzie non era sicura del perché, ma aveva l'aspetto di un bambino che aveva appena scoperto la verità su Babbo Natale.
“Solo uno, per il momento.” Sentiva che la conversazione stava diventando strana, così guardò oltre la spalla di Webber. “Quella è la scena del crimine, vero?”
“Sì. Hai avuto accesso a tutti i fascicoli del caso?”
“Sì.”
Webber aprì la portiera del lato del conducente della sua auto e prese un iPad dal cruscotto. Aprì le copie elettroniche dei fascicoli – gli stessi che Mackenzie aveva visionato la sera prima – e si diresse verso il parcheggio.
“C'è qualcosa di nuovo o di particolare che non era presente nei documenti ufficiali?” domandò Mackenzie.
“Beh, so che i fascicoli indicano che probabilmente non è stata derubata. Ora abbiamo la conferma che non lo è stata affatto. Abbiamo fatto un controllo incrociato tra il suo conto in banca e quello della carta di credito, assicurandoci che non mancasse niente nella sua borsa. Non ci sono stati nemmeno prelievi al bancomat o attività sospette riguardanti l'uso del suo numero di previdenza sociale o delle informazioni sul suo conto corrente bancario. Se è stata rapinata, l'assassino si è tenuto stretto qualsiasi cosa abbia preso.”
“Stessa cosa a Portland?”
“Sembra di sì. Non ci sono indicazioni che sia stato sottratto qualcosa ad Amy Hill e non c'è stato alcun movimento strano nei suoi conti bancari.”
“Hai già avuto modo di vedere il corpo?”
“No, non ancora. Ho avuto il via libera dal coroner nel tardo pomeriggio di ieri. Ma credo che sappiamo tutto quello che c'è da sapere dalle foto della scena del crimine.”
“Sì. E credo che l'ipotesi che l'assassino stia usando un martello sia molto probabile.”
“Ah, però ci sono prove che la prima vittima sia stata aggredita con un ramo di quercia.”
“Mi sembra... bizzarro.”
“Lo pensavo anch'io. Ma ci sono le prove. Lacerazioni della pelle non presenti sulla prima vittima e tracce di legno nelle ferite che si è rivelato essere quercia. Ehi, ieri abbiamo anche scoperto che una telecamera di sicurezza a un isolato e mezzo di distanza ha ripreso una figura incappucciata che seguiva la vittima. Ho dato una sbirciata al filmato e non mostra praticamente nulla. Una sagoma vestita con un impermeabile con cappuccio, che segue la signora Torres dalla tavola calda dove lavorava, proprio qui, fino al parcheggio. Per quanto mi riguarda, non c'è dubbio che la sagoma sia probabilmente l'assassino, ma il video non ci mostra nulla di lui, a parte il maledetto impermeabile.”