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Ci stava ancora pensando mentre tornava a casa dalla corsa. Mentre si sfilava la cuffia e i guanti, con le guance arrossate e accese dal freddo, si avvicinò a dove aveva lasciato la scatola. L’aveva studiata da cima a fondo alla ricerca di indizi o significati nascosti ma non ne aveva trovati. Neanche la carta di giornale arrotolata le era stata utile. Aveva letto ogni articolo sulla carta spiegazzata e non vi aveva visto niente che potesse servirle. Era stata solo un riempitivo. Ovviamente ciò non le aveva impedito di rileggere diverse volte ogni singola parola su quelle pagine.
Stava tamburellando nervosamente sul cartone, quando il suo cellulare squillò. Lo prese dal tavolo della cucina e fissò il numero sullo schermo per un istante. Un sorriso esitante le apparve sul volto, e lei cercò di ignorare la felicità che le sbocciò nel cuore.
Era Connelly.
Le sue dita si paralizzarono perché non aveva onestamente idea di cosa fare. Se l’avesse chiamata solo due o tre settimane prima, avrebbe semplicemente ignorato la telefonata. Ma in quel momento… beh, qualcosa era cambiato, no? E per quanto odiasse ammetterlo, supponeva che dovesse ringraziare Howard e la sua lettera per quello.
All’ultimo secondo prima che la chiamata finisse in segreteria, rispose.
“Ehi, Connelly,” disse.
Ci fu una lunga pausa dall’altro capo prima che Connelly parlasse. “Ehi, Black. Io… beh, a dire la verità credevo che avrei parlato con la tua segreteria telefonica.”
“Mi spiace averti deluso.”
“Oh, niente affatto. Sono felice di sentire la tua voce. È passato troppo tempo.”
“Già, sembra anche a me.”
“Devo dedurre che stai cominciando a pentirti del tuo pensionamento fin troppo anticipato?”
“Adesso non esageriamo. Come vanno le cose?”
“Le cose vanno… bene. Voglio dire, nel distretto tu e Ramirez avete lasciato un vuoto, ma tiriamo avanti. Finley si sta davvero dando da fare. Sta lavorando insieme a O’Malley. Detto tra me e te, credo che Finley abbia preso personalmente la tua decisione di ritirarti, e che abbia stabilito che se qualcuno doveva prendere il tuo posto, beh, l’avrebbe fatto lui.”
“Sono contenta per lui. Digli che mi manca.”
“Beh, speravo che potessi venire qui e dirglielo tu stessa,” disse Connelly.
“Non penso di essere già pronta per una visita,” rispose lei.
“Okay, io non sono mai stato bravo con le chiacchiere,” si arrese l’uomo. “Arrivo dritto al punto.”
“È quello che sai fare meglio,” commentò Avery.
“Senti… abbiamo un caso…”
“Fermo subito,” lo interruppe lei. “Non torno indietro. Non adesso, e forse mai più, anche se non lo voglio escludere del tutto.”
“Lascia che ti spieghi, Black,” insistette Connelly. “Aspetta di aver sentito tutti i dettagli. Anzi, probabilmente li conosci già. È stato su tutti i telegiornali.”
“Non li guardo,” disse lei. “Uso il computer solo per Amazon. Non mi ricordo l’ultima volta che ho letto un titolo di giornale.”
“Beh, è maledettamente strano e non riusciamo a cavare un ragno dal buco. Io e O’Malley stavamo bevendo qualcosa insieme l’altra sera e ci siamo decisi a chiamarti. Non voglio adularti per convincerti… ma sei l’unica persona che ci è venuta in mente che potrebbe risolvere questo caso. Se non hai visto le notizie, posso dirti che…”
“La risposta è no, Connelly,” ripeté lei, interrompendolo. “Apprezzo il pensiero e il gesto, ma no. Se mai mi sentirò pronta a tornare, ti chiamerò.”
“È morto un uomo, Avery, e l’assassino potrebbe non avere ancora finito,” disse il detective.
Per qualche ragione, sentirlo usare il suo nome di battesimo la ferì. “Mi dispiace, Connelly. Ricordati di portare a Finley i miei saluti.”
Detto quello, chiuse la telefonata. Fissò il cellulare con lo sguardo perso nel vuoto, chiedendosi se avesse appena fatto un enorme sbaglio. Avrebbe mentito a se stessa se avesse detto che l’idea di tornare a lavoro non l’aveva emozionata. Persino sentire la voce di Connelly le aveva risvegliato il desiderio di tornare alla sua vecchia vita.
Non puoi, disse a se stessa. Se ora torni a lavoro, è come se dicessi a Rose che non ti importa niente di lei. E finiresti dritta tra le braccia della creatura che ti ha spinta dove ti trovi adesso.
Si alzò in piedi e guardò fuori dalla finestra. Scrutò tra gli alberi, le ombre fitte anche durante il giorno in mezzo ai i tronchi, e pensò alla lettera di Howard Randall.
Alla domanda di Howard Randall.
Chi sei tu?
Stava iniziando a credere di non essere più certa della risposta. E forse il motivo era che nella sua vita non c’era più il lavoro.
***
Quel pomeriggio interruppe la routine per la prima volta da quando l’aveva stabilita. Guidò fino a South Boston, al cimitero di St. Augustine. Era un luogo che evitava sin dal suo trasloco, non solo per il senso di colpa ma anche perché sembrava che qualsiasi forza crudele manipolasse il fato le avesse sferrato un ennesimo colpo. Sia Ramirez che Jack erano sepolti al cimitero di St Augustine e anche se erano in punti diversi, per Avery era lo stesso. Per quel che la riguardava, il centro dei suoi fallimenti e del suo dolore era in quel parco verde e lei non voleva averci niente a che fare.
Per quello era la prima volta che ci andava dopo i funerali. Rimase seduta in auto per un momento, guardando verso la tomba di Ramirez. Lentamente uscì dalla macchina e si incamminò dove era seppellito l’uomo che era stata pronta a sposare. La lapide era modesta. Qualcuno vi aveva recentemente lasciato sopra dei fiori bianchi, probabilmente sua madre, che si sarebbero seccati e appassiti al freddo in pochi giorni.
Non sapeva che cosa dire ma immaginò che fosse normale. Se Ramirez era consapevole della sua presenza e se avesse potuto sentire le sue parole (e una gran parte di Avery credeva che fosse così), avrebbe saputo che non era una donna sentimentale. Magari era persino scioccato, in qualsiasi luogo etereo si trovasse, che fosse andata a visitarlo.
Si infilò una mano in tasca ed estrasse l’anello che Ramirez aveva avuto intenzione di metterle al dito.
“Mi manchi,” disse. “Mi manchi e ora mi sento così… così persa. E non ti posso mentire… non è solo perché non ci sei più. Non so più cosa fare di me stessa. La mia vita sta candendo a pezzi e l’unica cosa che so potrebbe rimetterla insieme, il lavoro, forse è la scelta peggiore che potrei prendere.”
Cercò di immaginarselo lì con lei. Che cosa le avrebbe detto se avesse potuto? Sorrise pensando a come le avrebbe lanciato uno dei suoi ghigni sarcastici. Stringi i denti e fallo. Ecco cosa le avrebbe detto. Riporta il culo al lavoro e riprenditi quello che è rimasto della tua vita.
“Non mi sei d’aiuto,” disse a sua volta con un sorriso ironico. La inquietava un pochino quanto le veniva naturale parlargli attraverso la tomba. “Mi diresti di tornare a lavoro e di capire come andare avanti, non è vero?”
Fissò la lapide come se volesse costringerla a risponderle. Le scivolò una singola lacrima dall’angolo dell’occhio destro. L’asciugò mentre si voltava e si incamminava verso la tomba di Jack. Lui era stato sepolto dall’altro lato del cimitero, che riusciva a malapena a vedere da dove si trovava. Percorse un sentierino che attraversava il terreno, apprezzando il silenzio. Non fece caso alle poche altre persone lì a commemorare e a ricordare i propri cari, lasciandogli la loro privacy.
Ma quando arrivò alla tomba di Jack, vide che c’era già qualcuno. Era una donna, bassa e con la testa china. Dopo qualche altro passo, Avery capì che era Rose. Aveva le mani infilate nelle tasche e indossava un cappotto con il cappuccio, che era alzato a coprirle la testa.
Avery preferì non chiamarla, sperando di arrivare abbastanza vicino da poter parlare con lei. Ma dopo poco, Rose sembrò percepire il suo arrivo. Si voltò, si accorse di Avery e subito prese ad allontanarsi.
“Rose, non fare così,” disse Avery. “Non possiamo parlare solo per un minuto?”
“No, mamma. Gesù, non vorrai rovinarmi anche questo?”
“Rose!”
Ma la ragazza non aveva nient’altro da dirle. Affrettò il passo e Avery lottò contro se stessa per non inseguirla. Nuove lacrime le inondarono il volto mentre si voltava verso la tomba di Jack.
“Da chi l’ha presa questa testardaggine?” chiese alla lapide.
Come prima, anche la tomba di Jack non rispose. Avery si girò a destra e guardò Rose che camminava in lontananza. Allontanandosi da lei fino a svanire completamente.
CAPITOLO QUATTRO
Quando Avery entrò nell’ufficio della dottoressa Higdon, si sentì un cliché. La dottoressa era una donna composta ed elegante. Sembrava avere sempre la testa alzata verso l’alto, per mostrare la punta perfetta del naso e l’angolo del mento. Era attraente, anche se un po’ appariscente.
Avery aveva lottato contro la tentazione di andare da una psicologa ma sapeva abbastanza di come funzionavano le menti traumatizzate da sapere che ne aveva bisogno. Ed era doloroso da ammettere. Odiava l’idea di andare da una strizza-cervelli e non voleva ridursi a servirsi dei servizi di quella assegnata dalla polizia di Boston che aveva visto negli ultimi anni dopo certi casi particolarmente duri.
Quindi si era rivolta alla dottoressa Higdon, una psicologa di cui aveva sentito parlare l’anno precedente durante un caso in cui il sospettato l’aveva usata per superare una serie di fobie irrazionali.
“Apprezzo che mi abbia dato appuntamento così velocemente,” esordì Avery. “In realtà credevo di dover aspettare qualche settimana.”
Higdon scrollò le spalle mentre si accomodava sulla sua sedia. Quando Avery prese posto sul divano vicino, l’idea di essere un cliché umano crebbe.
“Beh, ho sentito parlare di lei diverse volte al telegiornale,” spiegò la psicologa. “E numerosi nuovi pazienti mi hanno fatto il suo nome, delle persone che apparentemente ha incontrato durante il suo lavoro. Quindi oggi avevo un’ora libera e ho pensato che sarebbe stato bello conoscerla.”
Sapendo che era straordinario ottenere un appuntamento con una psicologa rispettata solo due giorni dopo aver chiamato il suo ufficio, Avery aveva capito di non dover dare niente per scontato. E non essendo tipo da perdersi in chiacchiere, non aveva problemi ad arrivare subito al punto.
“Ho voluto vedere una psicologa perché, a essere sincera, ho una gran confusione in testa al momento. Una parte di me dice che starò meglio allontanandomi dal lavoro. Un’altra dice che invece guarirò solo essendo produttiva e rimanendo in ambiti che mi sono familiari… il che mi riporterebbe a lavoro.”
“Conosco solo i minimi dettagli dei problemi a cui sta accennando,” disse la Higdon. “Potrebbe elaborare?”
Avery passò dieci minuti facendo esattamente quello. Iniziò raccontando come si era svolto l’ultimo caso e concluse con la morte del suo ex marito e del suo futuro fidanzato. Parlò brevemente del suo trasferimento lontano dalla città e della recente crisi con Rose, sia dopo l’incontro al suo appartamento che quando si erano viste sulla tomba di Jack.
La dottoressa Higdon cominciò subito a farle domande, avendo preso appunti per tutto il tempo in cui Avery aveva parlato. “Il trasferimento alla cabina vicino a Walden Pond… che cosa l’ha spinta a farlo?”
“Non volevo stare vicino alla gente. È più isolata. Molto tranquilla.”
“Sente di poter guarire meglio sia emotivamente che fisicamente se sta da sola?” chiese la Higdon.
“Non lo so. È solo che… non volevo vivere dove tutti potessero passare a controllare come stavo centinaia di volte al giorno.”
“Ha sempre avuto difficoltà con le persone preoccupate per la sua salute?”
Avery scrollò le spalle. “Non proprio. È una questione di vulnerabilità, immagino. Nel mio lavoro, la vulnerabilità porta alla debolezza.”
“Dubito che sia vero. In termini di percezione, forse, ma non nella realtà dei fatti.” Si fermò per un momento e poi si sporse in avanti sulla sedia. “Non cercherò di prendere le cose alla lontana e di portarla con delicatezza ai problemi chiave,” disse. “Sono certa che capirebbe che cosa sto cercando di fare. Oltretutto il fatto che sa ammettere la paura di essere vulnerabile mi dice molto. Quindi credo che possiamo andare subito al punto.”
“Preferirei anche io così,” replicò Avery.
“Il tempo che ha passato da sola nella sua cabina… crede che abbia aiutato o ostacolato la sua guarigione?”
“Credo che dire che mi ha aiutato sarebbe esagerato, ma l’ha resa più semplice. Sapevo che non avrei dovuto avere a che fare con amici e parenti preoccupati per me.”
“Ha provato a mettersi in contatto con qualcuno durante questo periodo?”
“Solo con mia figlia,” rispose Avery.
“Ma lei ha rifiutato ogni suo tentativo di riavvicinamento?”
“Esatto. Sono abbastanza certa che incolpi me per la morte di suo padre.”
“Se vogliamo essere sincere, probabilmente ha ragione,” disse la Higdon. “E arriverà alla verità con i suoi tempi. Le persone hanno modi diversi di affrontare il lutto. Invece di fuggire in una cabina in mezzo ai boschi, sua figlia ha scelto di dare la colpa a un obiettivo facile. Ora lasci che le chieda una cosa… perché si è licenziata dal suo lavoro?”
“Perché mi sono sentita come se avessi perso tutto,” rispose Avery. Non dovette nemmeno pensarci. “Mi sono sentita come se avessi perso tutto e se avessi fallito nel mio lavoro. Non potevo rimanere perché mi avrebbe continuamente ricordato che non ero stata abbastanza brava.”
“Sente ancora di non essere abbastanza brava?”
“Beh… no. A rischio di sembrare presuntuosa, so fare molto bene il mio lavoro.”
“E le è mancato durante questi ultimi tre mesi, giusto?”
“Sì,” confessò Avery.
“Crede che il suo desiderio di tornare sia solo per riprendere la sua vita come l’aveva lasciata o pensa che la potrebbe aiutare a fare progressi?”
“È questo il problema. Non lo so. Ma sono arrivata a credere di doverlo scoprire. Penso di dover tornare indietro.”
La dottoressa Higdon annuì e scribacchiò qualcosa. “Crede che sua figlia reagirebbe negativamente se tornasse al suo lavoro?”
“Senza dubbio.”
“Okay, allora fingiamo che lei non abbia alcun potere su questa decisione, diciamo che a Rose non importi nulla se torna a lavoro o meno. Avrebbe qualche esitazione?”
La realizzazione la colpì come un pugno. “Probabilmente no.”
“Immagino che abbia la sua risposta, allora,” disse la Higdon. “Penso che a questo punto della sua elaborazione del lutto, lei e sua figlia non possiate lasciare che l’altra detti legge sul modo in cui affrontate il dolore. Rose ha bisogno di dare la colpa a qualcuno in questo momento. È così che sta affrontando la situazione…. E le difficoltà nel vostro rapporto glielo rendono più facile. Per quanto la riguarda… mi viene da dire che ritornare a lavoro potrebbe essere esattamente quello che le serve per andare avanti.”
“Le viene da dire?” ripeté Avery, confusa.
“Sì, credo che abbia senso, dato il suo passato e le sue esperienze. Tuttavia, durante il tempo che ha passato da sola, isolata da tutti, ha mai avuto pensieri suicidi?”
“No,” mentì lei. Lo fece facilmente e senza particolare pensiero. “Sono stata depressa, certo. Ma mai così tanto depressa.”
Sì, aveva omesso di parlare del suo quasi-suicidio. Non aveva nemmeno parlato del pacco di Howard Randall nel suo riassunto degli ultimi mesi. Non sapeva il perché. Per il momento le sembrava solo troppo privato.
“Essendo questo il caso,” disse la Higdon, “non vedo perché non dovrebbe tornare a lavoro. Ma penso che dovrebbe avere un partner. E so che è una faccenda delicata visto chi era il suo ultimo compagno. Tuttavia, non può mettersi in situazioni altamente stressanti da sola così presto. Le raccomanderei persino di non iniziare occupandosi di casi troppo impegnativi. Persino di fare lavoro d’ufficio.”
“Sarò sincera… questo non succederà.”
La Higdon fece un sorriso tirato. “Quindi pensa che farà così? Vedrà se tornare a lavoro la aiuterà a superare i suoi dubbi e il senso di colpa?”
“Presto,” rispose Avery, ripensando alla chiamata di Connelly di due giorni prima. “Sì, credo che potrei fare così.”
“Beh, le auguro ogni fortuna,” disse la Higdon, tendendosi a stringerle la mano. “Nel frattempo, si senta libera di chiamarmi se avesse bisogno di qualsiasi cosa.”
Avery strinse la mano della dottoressa e lasciò il suo ufficio. Odiava ammetterlo, ma si sentiva meglio di quanto non le succedesse da settimane, sin da quando aveva trovato la sua routine di esercizi fisici e mentali. Era certa di riuscire a pensare più chiaramente e non perché la Higdon le avesse svelato qualche verità nascosta. Aveva avuto solo bisogno che qualcuno le facesse notare che nonostante Rose fosse l’unica persona al di fuori del lavoro che le era rimasta nella vita, non significava che il modo in cui lei la vedeva e la paura del suo giudizio dovessero dettare legge su cosa avrebbe fatto con il resto della sua esistenza.
Guidò fino all’uscita più vicina per tornare alla cabina. Sulla sua sinistra svettavano gli edifici più alti di Boston. Il distretto era a soli venti minuti di distanza. Avrebbe potuto dirigersi da quella parte, fare visita a tutti e ricevere un caldo benvenuto. Avrebbe potuto strappare il cerotto e farlo.
Ma un caldo benvenuto non era quello che si meritava. In effetti, non era certa di che cosa meritasse.
E forse era da lì che derivava l’ultima briciola di esitazione.
***
L’incubo di quella notte non le era nuovo, ma era una variante del solito.
Nel sogno, era seduta nella sala visite del carcere. Non era quella in cui le era capitato a volte di visitare Howard Randall, ma uno spazio più ampio e dall’aria quasi antica. Rose e Jack erano seduti attorno al tavolo, con una scacchiera tra di loro. Tutti i pezzi erano sulla tavola, solo i re erano stati catturati.
“Lui non è qui,” disse Rose, con la voce che riecheggiava nella stanza cavernosa. “La tua piccola arma segreta non è qui.”
“Meglio così,” continuò Jack. “Era ora che imparassi a risolvere i casi più difficili da sola.”
Poi il suo ex marito si passò una mano sulla faccia e in un batter d’occhio, apparve con l’aspetto che aveva avuto la notte che lei aveva scoperto il suo corpo. Il lato destro del volto era coperto di sangue e tutta la carne sembrava incavata verso l’interno e pendente. Quando aprì la bocca, non c’era più la lingua. C’era solo oscurità tra i suoi denti, un abisso da cui uscivano le sue parole e, Avery sospettava, dove desiderava che lei finisse.
“Non sei riuscita a salvarmi,” disse l’uomo. “Non sei riuscita a salvarmi e ora devo fidarmi di lasciarti mia figlia.”
In quel momento Rose si alzò e iniziò ad allontanarsi dal tavolo. Avery si alzò insieme a lei, certa che sarebbe successo qualcosa di molto brutto se l’avesse persa di vista. Fece per seguirla ma non riuscì a muoversi. Abbassò lo sguardo e vide che entrambi i suoi piedi erano stati inchiodati a terra con delle enormi traversine. Erano distrutti, niente più di sangue, ossia e brandelli di carne.
“Rose!”
Ma sua figlia si limitò a girarsi per guardarla, sorridere e farle un cenno di saluto. E man mano che si allontanava, la stanza sembrava diventare più grande. Ombre emersero da ogni direzione, calando sulla ragazza.
“Rose!”
“Va tutto bene,” disse una voce alle sue spalle. “La terrò d’occhio io.”
Si voltò e vide Ramirez, la mano sulla pistola e intento a scrutare tra le ombre. E quando cominciò ad avanzare eroicamente per salvare Rose, le ombre iniziarono a discendere anche su di lui.
“No! Rimani qui!”
Tirò contro i chiodi conficcati nei piedi ma inutilmente. Poté solo guardare mentre le due persone che aveva amato di più al mondo venivano inghiottite dell’oscurità.
E in quel momento iniziarono le grida, in mezzo alle ombre, mentre Rose e Ramirez riempivano la stanza con le loro urla agonizzanti.
Ancora al tavolo, Jack la supplicò: “Per l’amore del cielo, fai qualcosa!”
Fu allora che Avery scattò a sedere sul letto, con un grido tra le labbra. Accese la lampada sul comodino con mano tremante. Per un istante ancora, vide l’enorme stanza tutta intorno a sé, che lentamente svanì, cacciata dalla luce e dalla veglia. Fissò la camera da letto ancora nuova della sua cabina e per la prima volta si chiese se lì si sarebbe mai sentita a casa.
Si ritrovò a pensare alla chiamata di Connelly. E poi al pacco di Howard Randall.
La sua vecchia vita la perseguitava nei sogni, certo, ma stava anche invadendo quella nuova esistenza isolata che aveva cercato di costruire per se stessa.
Sembrava che non avesse via di scampo.
Ma forse, solo forse, era il momento di smetterla di fuggire.
CAPITOLO CINQUE
Non appena aveva smesso di bere nei momenti più miserabili del suo periodo di lutto, aveva lentamente sostituito il consumo d’alcool con quello di caffeina. Mentre leggeva beveva solitamente due tazze di caffè intervallate da una Diet Coke. Per quel motivo, dopo qualche settimana, aveva cominciare a soffrire di mal di testa se passava più di un giorno senza caffeina. Non era il modo più sano di vivere ma era certo meglio che affogare la disperazione nell’alcol.
Era per quello che il giorno seguente, dopo pranzo, si ritrovò in un bar. Era uscita principalmente per fare la spesa, avendo finito il caffè alla cabina, e avendone bevuta solo una tazza di prima mattina, le serviva una rapida dose prima di tornare a casa a concludere la giornata. Aveva un libro che voleva finir di leggere e stava anche pensando di tornare nei boschi per provare di nuovo a dare la caccia ai cervi.
Il bar era uno dei posti più alla moda della zona, e c’erano quattro persone curve dietro i loro Macbook nel locale. La fila alla cassa era lunga, persino per quell’ora del pomeriggio. In tutto il posto riecheggiava il brusio di conversazioni, il ronzio delle macchine dietro al bancone del ber e la televisione tenuta a basso volume in un angolo del locale.
Avery arrivò alla cassa, ordinò il suo chai con doppia dose di espresso e si accomodò nell’area d’attesa. Passò il tempo guardando la lavagnetta di sughero piena di volantini di eventi locali: concerti, rappresentazioni teatrali, raccolte di denaro…
E poi notò la conversazione alle sue spalle. Fece del suo meglio per non far capire che stava origliando, tenendo gli occhi fissi sulla lavagnetta degli eventi.
C’erano due donne alle sue spalle. Una era sulla ventina, e portava stretta al petto una fascia per neonati. Il bambino dormiva in silenzio appoggiato a lei. L’altra aveva qualche anno di più, un drink in mano e non sembrava pronta a uscire dal locale.
Entrambe erano concentrate sulla televisione dietro il bancone. Conversavano a bassa voce, ma lei le sentiva ugualmente con facilità.
“Mio Dio… hai sentito questa storia?” stava dicendo la madre.
“Sì,” rispose la seconda donna. “È come se la gente stesse inventando modi sempre nuovi per farsi del male. Che razza di cervello devi avere per inventarti una cosa del genere?”
“Sembra che non abbiano ancora trovato quel maniaco,” disse la madre.
“E probabilmente non lo faranno,” rincarò l’altra. “Se potessero catturare questo tizio, ormai avrebbero già fatto qualcosa. Accidenti… Riesci a immaginare la famiglia della vittima, quando ha scoperto che fine ha fatto al telegiornale?”
Il barista chiamò il suo nome e le tese la bevanda da dietro il bancone, ed Avery distolse subito l’attenzione da loro. Accettò il bicchiere, e voltata verso la televisione, si permise di guardare il telegiornale per la prima volta dopo quasi tre mesi.
Circa una settimana prima era morto un uomo alla periferia della città, in un appartamento di una palazzina diroccata. Non una semplice morte, era piuttosto chiaro che si trattasse di un omicidio. La vittima era stata ritrovata nel suo armadio, coperta di ragni di varie specie. La polizia stava lavorando sull’ipotesi che si trattasse di un omicidio premeditato, dato che la metà dei ragni non era originaria della regione. Nonostante l’abbondanza degli animali, sul corpo erano stati trovati solo due morsi e nessuno era di un ragno velenoso. Secondo il notiziario, fino a quel momento la polizia ipotizzava che fosse morto per strangolamento oppure per un attacco cardiaco.






