Furfante, Prigioniera, Principessa

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Tano sedeva nella grotta dove i ribelli si erano tenuto nascosti per il momento, e li ascoltava discutere sul suo destino. Aveva le mani legate davanti a sé, ma almeno avevano fatto del loro meglio per medicargli e bendargli le ferite, lasciandolo davanti a un piccolo fuoco in modo che non congelasse mentre decidevano se ucciderlo a sangue freddo o no.
I ribelli sedevano attorno a un altro fuoco, stretti tra loro e intenti a discutere il da farsi per evitare che l’isola cadesse sotto le grinfie dell’Impero. Parlavano sottovoce in modo che Tano non potesse origliare i dettagli, ma lui già aveva capito la sostanza: stavano perdendo, e in malo modo. Si trovavano nelle grotte perché non avevano nessun altro posto dove andare.
Dopo un po’ quello che era ovviamente il loro capo si avvicinò e si sedette di fronte a Tano incrociando le gambe sul duro pavimento di pietra della caverna. Gli porse un pezzo di pane che Tano divorò famelicamente. Non era sicuro di quanto tempo fosse passato da quando aveva mangiato l’ultima volta.
“Io sono Akila,” disse l’uomo. “Sono al comando della ribellione.”
“Tano.”
“Tano e basta?”
Tano poté percepire la curiosità nella sua voce, e l’impazienza. Si chiese se l’uomo avesse indovinato chi era. Ad ogni modo la verità sembrava la migliore opzione in quel momento.
“Principe Tano,” ammise.
Akila rimase seduto davanti a lui per diversi secondi e Tano si trovò a chiedersi se allora sarebbe morto. Ci era andato molto vicino quando i ribelli avevano pensato che fosse un nobile qualsiasi senza un nome. Ora che sapevano che era uno della famiglia reale, vicino al re che li aveva tanto oppressi, gli pareva impossibile che potessero fare diversamente.
“Un principe,” disse Akila. Si guardò attorno adocchiando gli altri e Tano scorse il lampo di un sorriso. “Ehi, amici, abbiamo un principe qui.”
“Allora dovremmo assolutamente chiedere un riscatto,” disse con tono secco un altro. “Pensa a tutto quello che i suoi simili ci hanno fatto!”
“Va bene, basta così,” disse Akila. “Concentratevi sulla battaglia. Sarà una lunga notte.”
Tano udì un debole sospiro da parte dell’altro uomo mentre tutti si rigiravano verso il loro fuoco.
“Non sta andando bene allora?” chiese Tano. “Prima avete detto che la vostra fazione sta perdendo.”
Akila lo guardò severamente. “Dovrei sapere quando tenere la bocca chiusa. Forse dovresti farlo anche tu.”
“Ad ogni modo state pensando se uccidermi o no,” sottolineò Tano. “Mi pare che non ho molto da perdere.”
Tano attese. Quello non era il genere di uomo da poter costringere a dare delle risposte. C’era qualcosa di duro in Akila. Intransigente e diretto. Tano immaginò che gli sarebbe piaciuto se si fossero incontrati in migliori circostanze.
“Va bene,” disse Akila. “Sì, stiamo perdendo. I tuoi imperiali hanno più uomini rispetto a noi e a te non interessano i danni che potete fare. La città è sotto assedio per terra e per mare, così nessuno può uscire. Combatteremo dalle colline, ma quando puoi solo rifornirti via acqua, non c’è molto che si possa fare. Draco sarà anche un macellaio, ma è intelligente.”
Tano annuì. “Sì, lo è.”
“E ovviamente tu eri probabilmente lì quando ha progettato tutto,” disse Akila.
Ora Tano capiva. “È questo che stai sperando? Che io conosca tutti i loro piani?” Scosse la testa. “Non ero presente quando li hanno fatti. Non volevo essere presente e sono venuto qui solo perché mi hanno portato alla nave sotto sorveglianza. Magari se fossi stato lì avrei sentito la parte in cui pianificavano di pugnalarmi alla schiena.”
Pensò allora a Ceres, al modo in cui era stato costretto ad abbandonarla. Quello gli faceva più male di tutto il resto messo insieme. Se qualcuno in una posizione di potere aveva intenzione di provare a ucciderlo, si chiedeva, cosa avrebbero fatto a lei?
“Hai dei nemici,” disse Akila. Tano lo vide stringere e riaprire una mano, come se la lunga battaglia per la città avesse iniziato a dargli i crampi. “Sono anche gli stessi miei nemici. Ma non so se questo ti renda mio amico.”
Tano si guardò attorno osservando apertamente il resto della grotta. Considerando il numero incredibilmente piccolo di soldati lì presenti. “In questo preciso momento pare che tu possa farlo considerando gli amici che ti sono rimasti qui.”
“Sei pur sempre un nobile. Hai pur sempre la tua posizione a causa del sangue della gente comune,” disse Akila. Sospirò di nuovo. “Pare che se ti uccidessi farei quello che vogliono Draco e i suoi signori, ma mi hai anche detto che se chiedo un riscatto, non otterrò nulla. Ho una battaglia da vincere e non ho il tempo di tenermi attorno dei prigionieri che non sanno nulla. Quindi cosa dovrei fare di te, principe Tano?”
Tano ebbe l’impressione che stesse parlando seriamente. Che volesse veramente una soluzione migliore. Tano pensò rapidamente.
“Penso che la tua migliore scelta sia di lasciarmi andare,” disse.
Akila rise. “Bel tentativo. Se è il migliore che hai, tieniti forte. Cercherò di essere il più indolore possibile.”
Tano vide che la mano gli andava a una delle spade.
“Sono serio,” disse Tano. “Non posso aiutarti a vincere la battaglia per l’isola se sono qui.”
Vide l’incredulità di Akila e la certezza che dovesse per forza essere una trappola. Tano proseguì rapidamente, sapendo che la sua migliore speranza di sopravvivere nei prossimi minuti si trovava nel convincere quell’uomo che lui voleva aiutare la ribellione.
“Hai detto tu stesso che uno dei grandi problemi è che l’Impero ha la propria flotta a sostenere l’assalto,” disse Tano. “So che hanno lasciato delle scorte sulle navi perché erano troppo desiderosi di andare avanti con l’attacco. Quindi prendiamo le navi.”
Akila si alzò in piedi. “L’avete sentito questo, ragazzi? Il principe qui ha un piano per prendere le navi all’Impero.”
Tano vide che i ribelli iniziavano a riunirsi attorno a loro.
“E a cosa ci servono?” chiese Akila. “Prendiamo le loro navi, ma poi?”
Tano fece del suo meglio per spiegarsi. “Almeno avremo una via di fuga per alcune delle persone della città e per altri tuoi soldati. Toglieremo anche provviste ai soldati dell’Impero, quindi non potranno andare avanti per molto. E poi ci sono le baliste.”
“Cosa sono?” chiese uno dei ribelli. Non assomigliava molto a un soldato a vita. Come molti di coloro che c’erano in quella grotta, agli occhi di Tano.
“Cannoni,” spiegò Tano. “Armi disegnate per danneggiare altre navi, ma se venissero girate contro i soldati che si trovano sulla costa…”
Akila almeno sembrava considerare le possibilità. “Potrebbe essere qualcosa,” ammise. “E possiamo dare fuoco a tutte le navi che non usiamo. Alla fine Draco potrebbe spingere i suoi uomini a tornare e cercare di riprendersi le navi. Ma prima di tutto come facciamo a prendere queste navi, principe Tano? So che da dove vieni, se un principe chiede qualcosa lo ottiene, ma dubito che si possa fare lo stesso con la flotta di Draco.”
Tano si sforzò di sorridere con un livello di sicurezza che non sentiva. “È più o meno quello che faremo.”
Di nuovo Tano ebbe l’impressione che Akila stesse pensando più rapidamente di tutti i suoi uomini. Il capo dei ribelli sorrise.
“Sei matto,” disse alla fine, e Tano non riuscì a distinguere se avesse un tono di insulto o no.
“Ci sono morti a sufficienza sulle spiagge,” spiegò Tano, per il beneficio degli altri. “Prendiamo le loro armature e ci dirigiamo verso le navi. Con me insieme a voi sembrerà come una compagnia di soldati che torna dalla battaglia per fare scorta.”
“Cosa ne pensate?” chiese Akila.
Alla luce del fuoco che baluginava nella frotta, Tano non riusciva a distinguere gli uomini che parlavano. Le loro domande parevano emergere dal buio, così che non si poteva dire chi fosse d’accordo con lui, chi dubitasse e chi lo volesse morto. Ma non era neanche poi tanto peggio della politica a casa. Meglio per molti versi, dato che almeno nessuno gli stava sorridendo in faccia mentre complottava per ucciderlo.
“E le guardie sulle navi?” chiese uno dei ribelli.
“Non ce ne saranno molte,” disse Tano. “E sanno chi sono.”
“E tutta la gente che morirà in città mentre portiamo avanti questo piano?” gridò un altro.
“Stanno morendo anche adesso,” insistette Tano. “Almeno in questo modo avete un modo per controbattere all’attacco. Se le cose vanno bene potremo salvare centinaia, se non migliaia di persone.”
Calò il silenzio e l’ultima domanda venne fuori come una freccia.
“Come possiamo fidarci di lui, Akila? Non solo è uno di loro, ma è un nobile. Un principe.”
Tano si girò dalla parte opposta rispetto al punto da cui era venuta la voce, dando la schiena e facendo in modo che tutti potessero vederla. “Mi hanno pugnalato alla schiena. Mi hanno lasciato a morire. Ho tanti motivi per odiarli quanti ne avete voi.”
In quel momento non stava solo pensando al Tifone. Stava pensando a tutto ciò che la sua famiglia aveva fatto alla gente di Delo, e a tutto ciò che avevano fatto a Ceres. Se non l’avessero costretto ad andare alla Piazza della Fontana non sarebbe mai stato lì quando suo fratello moriva.
“Possiamo stare seduti qui,” disse Tano, “o possiamo combattere. Sì, sarà pericoloso. Se scoprono il nostro travestimento, probabilmente moriremo. Io voglio rischiare. E voi?” Vedendo che nessuno rispondeva, Tano alzò la voce. “E voi?”
Ottenne in cambio un grido di esultanza. Akila gli si avvicinò e gli strinse una spalla.
“Va bene, principe, pare che faremo le cose come dici tu. Fai tutto per bene, e avrai un amico per la vita.” La sua mano si strinse fino a che Tano poté sentire il dolore scorrergli lungo la schiena. “Tradiscici, fai uccidere i miei uomini, e giurò che ti darò la caccia fino alla fine.”
CAPITOLO OTTO
C’erano parti di Delo dove Berin di solito non andava. Erano parti che per lui puzzavano di sudore e disperazione, dove la gente faceva tutto ciò che serviva per tirare avanti. Respinse offerte che provenivano dall’ombra lanciando delle occhiatacce alla gente per tenerli alla larga.
Se avessero saputo dell’oro che aveva con sé, Berin sapeva che si sarebbe trovato con la gola tagliata, il borsello che aveva sotto alla tunica diviso tra loro e speso nelle taverne locali o nelle case per le scommesse prima ancora che si fosse fatto giorno. Erano quelli i posti che cercava adesso, perché dove altro avrebbe trovato soldati fuori servizio? In quanto fabbro, Berin conosceva i combattenti e sapeva in quali posti amavano andare.
Aveva dell’oro perché aveva fatto visita a un mercante e gli aveva portato due pugnali che aveva forgiato come campioni per quelli che avrebbero potuto assumerlo. Erano bellissimi, perfetti per la cintura di ogni nobile, lavorati con filigrana dorata e decorati con scene di caccia incise sulla lama. Erano l’ultima cosa di valore che gli era rimasta al mondo. Si era messo in fila con una decina di altre persone di fronte al banco del mercante e aveva guadagnato meno della metà di quello che pensava valessero.
Ma per Berin questo non era importante. Tutto ciò che contava era trovare i suoi figli, e per quello ci voleva l’oro. Con l’oro poteva comprare birra per la gente giusta, poteva mettere delle monete nelle mani giuste.
Si fece strada tra le taverne di Delo e fu un lento processo. Non poteva semplicemente arrivare e fare le domande che voleva. Doveva stare attento. Era di aiuto il fatto che avesse alcuni amici in città, e anche alcuni nell’esercito dell’Impero. Le sue armi avevano salvato ben più di qualche vita nel corso degli anni.
Trovò l’uomo che stava cercando, mezzo ubriaco a metà pomeriggio, seduto in una taverna e così puzzolente che lo spazio vuoto attorno a lui era decisamente ampio. Berin immaginò che fosse solo l’uniforme dell’esercito imperiale ad evitargli di essere gettato in mezzo alla strada. Beh, quello insieme al fatto che Jacare era tanto grasso che ci sarebbero voluti la metà degli avventori della taverna per sollevarlo.
Berin vide gli occhi del grosso uomo sollevarsi mentre gli si avvicinava. “Berin? Vecchio amico mio! Vieni a farti una bevuta con me! Però devi pagare. Al momento sono un po’…”
“Grasso? Ubriaco?” suggerì Berin. Sapeva che non se ne sarebbe curato. Il soldato sembrava fare un bello sforzo per essere il peggior esempio dell’esercito imperiale. Sembrava addirittura provare una perversa forma di orgoglio per questo.
“… finanziariamente imbarazzato,” concluse Jacare.
“Potrei aiutarti da questo punto di vista,” disse Berin. Ordinò da bere, ma non toccò il suo bicchiere. Doveva mantenere la mente sgombra se voleva trovare Ceres e Sartes. Aspettò quindi mentre Jacare mandava giù la sua birra con un rumore che lo faceva assomigliare a un asino che beve l’acqua da un abbeveratoio.
“Allora, cosa porta un uomo come te alla mia umile presenza?” chiese Jacare dopo un po’.
“Sono alla ricerca di notizie,” disse Berin. “Il genere di notizie che un uomo nella tua posizione potrebbe aver sentito.”
“Ah, bene, notizie. Le notizie sono un affare goloso. E probabilmente anche costoso.”
“Sto cercando mia figlia e mio figlio,” spiegò Berin. Con qualcun altro si sarebbe potuto guadagnare una certa empatia con quelle parole, ma sapeva che con un uomo del genere non avrebbe sortito un tale effetto.
“Tuo figlio? Nesos, giusto?”
Berin si appoggiò al tavolo e strinse una mano attorno al polso di Jacare mentre l’uomo si allungava a prendere un altro bicchiere. Non gli era rimasta molta della vecchia forza che si era procurato brandendo martelli nella forgia, ma ce n’era ancora a sufficienza per far sussultare un uomo. Bene, pensò Berin.
“Sartes,” disse Berin. “Il mio primogenito è morto. Sartes è stato preso dall’esercito. So che tu senti cosa succede in giro. Voglio sapere dove si trova, e voglio anche sapere dov’è mia figlia, Ceres.”
Jacare si sedette più comodo e Berin glielo permise. Non era comunque sicuro che avrebbe potuto trattenerlo molto più a lungo.
“Questo è il genere di cosa che potrei aver sentito,” ammise il soldato, “ma anche un genere di cose difficili. Ci sono dei costi.”
Berin tirò fuori la piccola sacca con l’oro. La vuotò sul tavolo, abbastanza distante dall’uomo, così che non potesse afferrarne facilmente il contenuto.
“Questo potrebbe pagare le spese?” chiese Berin dando un’occhiata a Jacare che stava vuotando il suo boccale. Lo vide contare l’oro, probabilmente meditando se avrebbe potuto ricavarne dell’altro.
“Tua figlia è la cosa più facile,” disse Jacare. “È su al castello con i nobili. Hanno annunciato che dovrebbe sposare il principe Tano.”
Berin osò lasciar andare un sospiro di sollievo a quelle parole, anche se non era sicuro di cosa pensare. Tano era uno dei pochi reali che lui apprezzasse un poco, ma proprio un matrimonio?
“Tuo figlio è più difficile. Fammi pensare. Ho sentito dire che alcune delle nuove reclute del Trentatreesimo stavano facendo i turni giù nel tuo quartiere, ma non ti garantisco che siano loro. Se sì, allora sono accampati poco più in là verso sud e stanno cercando di allenare le matricole a combattere contro i ribelli.”
A Berin salì il sapore della bile in bocca al solo pensiero. Poteva immaginare come l’esercito trattasse Sartes e in cosa consistesse quell’allenamento. Doveva riprendersi suo figlio. Ma Ceres era più vicina e la verità era che doveva almeno vedere sua figlia prima di andare a cercare Sartes. Si alzò in piedi.
“Non finisci la tua birra?” chiese Jacare.
Berin non rispose. Stava già andando al castello.
***
Per Berin fu più facile entrare al castello di quanto sarebbe stato per chiunque altro. Era passato un po’ di tempo, ma lui era sempre quello che era venuto lì a discutere i requisiti delle armi per i combattenti, o a portare pezzi speciali per i nobili. Era stato sufficientemente facile fingere di essere tornato per questioni di affari, passando direttamente attraverso le guardie ai cancelli esterni ed entrando nello spazio dove i combattenti si preparavano.
Il passo successivo sarebbe stato andare da lì a dove si trovava sua figlia. C’era un passaggio sbarrato tra la stanza dall’alto soffitto dove i lottatori si allenavano e il resto del castello. Berin doveva aspettare che quello si aprisse dall’altra parte, passando tra i servitori che l’avrebbero fatto e cercando di fare finta di avere importanti affari altrove nell’edificio.
Così fece, solo non nel modo che la maggior parte della gente avrebbe compreso.
“Ehi, tu! Dove pensi di andare?”
Berin si immobilizzò sentendo il duro tono di voce. Prima di girarsi già sapeva che lì c’era una guardia e che lui non aveva una scusa pronta per soddisfare la sua richiesta. Il meglio che poteva sperare per ora era di venire gettato fuori dal castello prima di poter arrivare più vicino a sua figlia. Il peggio invece sarebbero state le prigioni del castello, o magari essere trascinato via per venire giustiziato dove nessuno mai l’avrebbe saputo.
Si girò e vide due guardie che ovviamente erano soldati dell’Impero da un po’. Avevano capelli tanto grigi quanto quelli di Berin in quel momento, con l’aspetto consumato di uomini che avevano trascorso troppo tempo a combattere al sole in tutti quegli anni. Uno era una buona spanna più alto di Berin, ma sera piegato leggermente sulla lancia alla quale si appoggiava. L’altro aveva una barba che sicuramente aveva oliato e incerato a dovere per farla apparire affilata come l’arma che teneva in mano. Il sollievo scorse nelle vene di Berin quando li vide, perché li riconobbe entrambi.
“Varo, Cassio,” disse. “Sono io, Berin.”
La tensione rimase sospesa tra loro per un po’, e Berin si trovò a sperare che i due si ricordassero di lui. Poi le guardie si misero a ridere.
“Ecco chi è,” disse Varo raddrizzandosi per un momento dalla sua lancia. “Non ti si vede da… quanto è passato, Cassio?”
L’altro si accarezzò la barba mentre ci pensava. “Sono mesi che non viene più qui. Non ci si vede a dire il vero da quando mi ha portato quei parabraccia la scorsa estate.”
“Sono stato via,” spiegò Berin. Non disse dove. La gente poteva anche non pagare tanto i propri fabbri, ma dubitava che avrebbero reagito bene sapendo che aveva cercato lavoro altrove. I soldati di solito non amavano l’idea che i loro nemici ricevessero delle buone armi. “Tempi duri.”
“Tempi duri per tutti,” confermò Cassio. Berin lo vide accigliarsi leggermente. “Ma ancora non mi spiego cosa tu ci faccia nell’ala principale del castello.”
“Non dovresti stare qui, fabbro, e lo sai,” disse anche Varo.
“Cosa c’è?” chiese Cassio. “Una riparazione d’emergenza per la spada preferita del ragazzo di un qualche nobile? Penso che saremmo venuto a saperlo se Lucio avesse spezzato una lama. Avrebbe sicuramente fatto frustare a sangue il suo servitore.”
Berin sapeva che non se la sarebbe cavata con una bugia del genere. Decise invece di cercare la tattica che avrebbe potuto funzionare: l’onestà. “Sono qui per vedere mia figlia.”
Sentì Varo inspirare l’aria tra i denti. “Ah, questo è difficile.”
Cassio annuì. “L’ho vista combattere nell’arena l’altro giorno. Piccolina ma forte. Ha ucciso un orso spinoso e un combattente. Combattimento duro comunque.”
Il cuore di Berin gli si strinse nel petto all’udire quelle parole. Facevano combattere Ceres nell’arena? Anche se sapeva che era il suo sogno combattere lì, questo non gli appariva la miglior realizzazione di quel desiderio. No, era qualcos’altro.
“Devo vederla,” insistette Berin.
Varo piegò la testa di lato. “Come ti ho detto, è difficile. Nessuno entra a vederla adesso. Ordini della regina.”
“Ma io sono suo padre,” disse Berin.
Cassio allargò le braccia. “Non c’è molto che possiamo fare.”
Berin pensò rapidamente. “Non molto che puoi fare? È questo che io ho detto quando avevi bisogno di rifare l’impugnatura della tua lancia prima che il capitano vedesse che l’avevi rotta quella volta?”
“Abbiamo detto che non ne avremmo parlato,” disse la guardia con sguardo preoccupato.
“E tu, Varo?” continuò Berin insistendo prima che gli altri potessero decidere di buttarlo fuori. “Ho detto che era difficile quando volevi una spada che andasse bene per la tua mano piuttosto che quelle fornite dall’esercito?”
“Beh…”
Berin non si fermò. La cosa importante era continuare in avanti, contro le loro obiezioni. No, la cosa importante era vedere sua figlia.
“Quante volte il mio lavoro vi ha salvato la vita?” gli chiese. “Varo, mi hai raccontato tu la storia di quel bandito che il tuo scaglione inseguiva. Quale spada hai usato per ucciderlo?”
“La tua,” ammise Varo.
“E tu Cassio, quando volevi tutta quella filigrana sui tuoi schinieri per fare colpo su quella ragazza che poi hai sposato, da chi sei andato?”
“Da te,” rispose Cassio. Berin lo vide pensieroso.
“E questo prima che arrivassimo ai giorni in cui vi seguivo dappertutto nella campagna,” disse Berin. “E poi…”
Cassio sollevò una mano. “Va bene, va bene. Abbiamo capito. La stanza di tua figlia è più su. Ti facciamo vedere la strada. Ma se qualcuno di chiede qualcosa, ti stiamo semplicemente portando fuori dall’edificio.”
Berin dubitava che qualcuno avrebbe chiesto, ma adesso non aveva importanza. Solo una cosa contava. Stava per vedere sua figlia. Seguì i due lungo i corridoi del castello, arrivando alla fine a una porta sbarrata e chiusa da fuori con un lucchetto. Dato che la chiave si trovava nella serratura, la girò.
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