Grido d’Onore

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“Ha programmato di darmi in moglie fuori dal regno. Mi ha venduta a un Nevareno. Pare che stiano venendo a prendermi.”
Godfrey si mise a sedere furente.
“Non lo permetterò mai!” esclamò.
“Neanche io,” confermò lei. “Troverò il modo di oppormi.”
“Ma senza Firth non abbiamo più nessuna prova,” disse. “Non abbiamo modo di buttarlo giù dal trono. Gareth rimarrà libero.”
“Troveremo un modo,” rispose Gwen. “Troveremo…”
Improvvisamente la casa si riempì di luce: la porta si era aperta ed Akorth e Fulton entrarono.
“Mia signora,” iniziò Akorth, ma poi si voltò vedendo Godfrey.
“Brutto figlio di puttana!” gridò colmo di gioia. “Lo sapevo! Hai sempre fregato tutti in vita, figurarsi se non fregavi anche la morte!”
“Sapevo che nessun boccale di birra avrebbe mai potuto portarti nella fossa!” aggiunse Fulton.
Akorth e Fulton gli si avvicinarono, Godfrey saltò giù dal letto e tutti e tre si abbracciarono.
Poi Akorth si voltò serio verso Gwen.
“Mia signora, mi spiace disturbarti, ma abbiamo scorto un contingente di soldati che avanza all’orizzonte. Stanno venendo da questa parte.”
Gwen lo guardò allarmata, poi corse all’esterno, seguita da tutti, abbassando la testa passando sotto l’uscio e strizzando gli occhi per l’accecante luce del sole.
Il gruppetto rimase fuori e Gwen scrutò l’orizzonte vedendo un piccolo gruppo dell’Argento che si dirigeva verso la casa di Illepra. Cinque o sei uomini galoppavano a massima velocità e non c’era dubbio che stessero andando proprio verso di loro.
Godfrey si apprestò a sguainare la sua spada, ma Gwen gli pose una mano rassicurante sul polso.
“Quelli non sono uomini di Gareth, ma di Kendrick. Sono certa che vengono in pace.”
I soldati li raggiunsero e, senza esitazione smontarono da cavallo e si inginocchiarono davanti a Gwendolyn.
“Mia signora,” disse il primo soldato. “Vi portiamo grosse novità. Abbiamo respinto i McCloud! Vostro fratello Kendrick è salvo e mi ha chiesto di portarvi questo messaggio: Thor sta bene.”
Gwen scoppiò in lacrime alla notizia, sopraffatta dalla gratitudine e dal sollievo. Abbracciò Godfrey che ricambiò stringendola con affetto. Si sentiva come se la vita avesse ricominciato a scorrerle nelle vene.
“Torneranno tutti oggi,” continuò il messaggero, “e ci saranno grandi festeggiamenti nella Corte del Re!”
“Una notizia veramente magnifica!” esclamò Gwen.
“Mia signora,” disse un’altra voce profonda che Gwen riconobbe come quella di un rinomato guerriero, Srog, vestito di rosso, colore caratteristico dell’occidente, un uomo che lei conosceva da quando era bambina. Era stato vicino a suo padre. Si inginocchiò davanti a lei e Gwen si sentì imbarazzata.
“La prego, signore,” gli disse, “non inginocchiatevi davanti a me.”
Era un uomo famoso, un signore potente che aveva migliaia di soldati ai suoi comandi e che governava la sua città, Silesia, la roccaforte dell’Occidente, una città singolare, costruita in cima a una scogliera, affacciata sul Canyon. Era praticamente impenetrabile. E Srog era uno dei pochi uomini di cui suo padre si fidasse.
“Sono venuto fin qui con questi uomini perché ho sentito che si stanno verificando grossi cambiamenti nella Corte del Re,” disse dando a vedere di sapere il fatto suo. “Il trono è instabile. È necessario eleggere un nuovo governatore, qualcuno di fermo e sincero. Mi è giunta voce del desiderio di vostro padre che foste voi a regnare. Vostro padre era come un fratello per me, e la sua parola mi è sacra. Se questo era il suo desiderio, allora è anche il mio. Sono venuto per farvelo sapere. Se sarete voi a regnare, allora i miei uomini vi giureranno alleanza. Vi consiglio di agire in fretta. Gli eventi di oggi hanno dato prova che la Corte del Re ha bisogno di un nuovo capo al più presto.”
Gwen rimase ferma, stupita, non avendo idea di cosa rispondere. Si sentiva estremamente imbarazzata, ma provava anche un senso di orgoglio ed era soprattutto frastornata.
“Vi ringrazio signore,” rispose. “Vi sono grata per queste parole e per la vostra offerta. La considererò con serietà. Per ora desidero solo dare il benvenuto a mio fratello, e a Thor.”
Srog chinò la testa e si udì risuonare un corno all’orizzonte. Gwen sollevò lo sguardo e vide la nuvola di polvere: un enorme esercito stava apparendo all’orizzonte. Lei sollevò una mano per schermare la luce del sole e il cuore le si fermò. Anche da lì era chiaro di chi si trattasse. Era l’Argento. Erano gli uomini del Re.
E lanciato al galoppo davanti a loro, a guidarli, c’era Thor.
CAPITOLO UNDICI
Thor avanzava insieme all’esercito, migliaia di soldati diretti verso la Corte del Re, ed era trionfante. Faceva ancora fatica a capire ciò che era successo. Era fiero di quello che aveva fatto, fiero che proprio quando le cose sembravano volgere al peggio in battaglia, lui era stato capace di non cedere alla paura ma aveva avuto il coraggio di affrontare quei guerrieri. Ed era ancora scioccato di essere in qualche modo sopravvissuto.
L’intera battaglia si era svolta in modo surreale, e lui era veramente grato di aver saputo richiamare i suoi poteri; eppure si sentiva confuso dato che aveva notato che essi non sempre funzionavano a dovere. Non li capiva e, peggio di tutto, non sapeva da dove provenissero o come risvegliarli. Ciò gli faceva capire totalmente che doveva imparare a fare affidamento sulle sue abilità umane, cercando di essere il miglior lottatore, il miglior guerriero. Stava iniziando a capire che per essere il migliore aveva bisogno di entrambe le cose: il lottatore e lo stregone, se mai veramente lo era.
Cavalcarono tutta la notte per raggiungere la Corte del Re e Thor era decisamente esausto, ma allo stesso tempo entusiasta. Il primo sole stava sorgendo all’orizzonte, la vastità del cielo si apriva davanti a lui tingendosi di giallo e rosa, e gli sembrava di vedere il mondo per la prima volta. Non si era mai sentito così vivo. Era circondato dai suoi amici – Reece, O’Connor, Elden e i gemelli – da Kendrick, Kolk e Brom, e da centinaia di membri della Legione, dell’Argento e dell’Esercito del Re. Ma invece di tenere una posizione nelle retrovie, ora cavalcava al centro, circondato da tutti loro. In effetti lo guardavano tutti in modo diverso da quando avevano combattuto. Ora riconosceva l’ammirazione negli occhi non solo dei compagni della Legione, ma anche negli sguardi dei veri guerrieri. Aveva affrontato l’intero esercito dei McCloud da solo e aveva debellato l’ondata di guerra.
Thor era felice di non aver deluso nessuno dei suoi fratelli della Legione. Era felice che i suoi amici l’avessero scampata quasi illesi, e provava un senso di rimorso per coloro che erano morti in battaglia. Non li conosceva, ma avrebbe voluto aver salvato anche loro. Era stata una battaglia sanguinosa e crudele, e anche adesso, mentre cavalcava, ovunque guardasse gli venivano alla mente immagini del combattimento, delle varie armi e dei guerrieri che lo avevano assalito. I McCloud erano un popolo feroce e lui era stato fortunato. Chissà se sarebbe stato altrettanto fortunato in una seconda occasione. Chissà se sarebbe stato capace di richiamare nuovamente i suoi poteri. Non sapeva se si sarebbero nuovamente ripresentati. Aveva bisogno di risposte. E doveva trovare sua madre. Aveva bisogno di sapere chi era veramente. Doveva trovare Argon.
Krohn mugolò accanto a lui, e Thor si piegò indietro per accarezzargli la testa. Lui ricambiò leccandogli la mano. Thor era sollevato dal fatto che Krohn fosse sano e salvo. Lo aveva portato fuori dal campo di battaglia e lo aveva caricato sul suo cavallo, dietro di lui. Sembrava che fosse in grado di camminare, ma Thor voleva che si riposasse e si riprendesse per il lungo viaggio di ritorno. Il colpo che Krohn si era preso aveva l’aspetto di essere stato piuttosto violento, e Thor pensava avesse una costola rotta. Non aveva parole per esprimere la gratitudine che provava per lui: lo sentiva più come un fratello che come un animale, gli aveva salvato la vita più di una volta.
Raggiunsero la cima di una collina e il regno apparve in lontananza davanti a loro: la gloriosa città della Corte del Re, con decine di torri e pinnacoli, con le sue antiche mura di pietra e il suo enorme ponte levatoio, i suoi cancelli ad arco, le sue centinaia di soldati di guardia sui parapetti e in strada; le distese di terreni tutt’attorno e ovviamente il castello del re al centro. Il pensiero di Thor andò immediatamente a Gwen. Lei lo aveva sostenuto in battaglia, lei gli aveva dato ragione e motivo per vivere. Sapendo di essere stato isolato laggiù, di aver subito un’imboscata, lo faceva temere anche per la vita di lei. Sperava che stesse bene, che qualsiasi potere avesse messo in moto quel tradimento, l’avesse risparmiata.
Thor sentì un grido di esultazione in lontananza, vide qualcosa che scintillava alla luce e strizzando gli occhi verso la cima della collina, si rese conto che si stava formando all’orizzonte, davanti alla Corte del Re, un’enorme folla che si riversava nella strada e sventolava bandiere. La gente stava accorrendo per dare loro il benvenuto.
Qualcuno suonò un corno e Thor si rese conto che li stavano accogliendo per il loro ritorno a casa. Per la prima volta in vita sua non si sentì più un estraneo.
“Quei corni suonano per te,” disse Reece accanto a lui, dandogli un colpetto sulla schiena e guardandolo con un nuovo senso di rispetto. “Sei il campione di questa guerra. Ora sei l’eroe della gente.”
“Pensa, uno di noi, un semplice membro della Legione, che sconfigge l’intero esercito dei McCloud,” aggiunse O’Connor colmo di orgoglio.
“Hai reso un grande onore all’intera Legione,” disse Elden. “Ora dovranno prendere noi tutti molto più sul serio.”
“Senza dire che ci hai salvato la vita,” aggiunse Conval.
Thor scrollò le spalle, pieno d’orgoglio, ma rifiutando di permettere che tutto questo gli desse alla testa. Sapeva di essere umano, fragile, vulnerabile, come uno qualsiasi di loro. E che l’intera battaglia sarebbe potuta andare in tutt’altro modo.
“Ho fatto semplicemente quello per cui sono stato allenato,” rispose Thor. “Quello per cui noi tutti siamo stati allenati. Non sono per niente migliore di nessuno di voi. Sono semplicemente stato fortunato.”
“Io direi che è stata ben più che mera fortuna,” ribatté Reece.
Continuarono tutti trotterellando, scendendo la strada principale che conduceva alla Corte del Re. Nel frattempo la via si stava riempiendo di gente che si riversava dalla campagna, esultante, sventolando striscioni dipinti di giallo e blu, i colori dei MacGil. Thor si rese conto che stava diventando una vera a propria sfilata. L’intera corte era venuta lì per festeggiarli, e gioia e sollievo erano chiaramente visibili sui loro volti. Poteva ben capire perché: se l’esercito dei McCloud si fosse avvicinato di più, avrebbero potuto distruggere tutto.
Thor avanzava con gli altri fra la gente assiepata attorno a loro, oltrepassando il ponte levatoio con gran fragore di zoccoli. Attraversarono il cancello ad arco: sotto il tunnel la luce si fece scura, ma quando sbucarono dalla parte opposta si ritrovarono finalmente nella Corte del Re, accolti dal popolo esultante. Sventolavano bandiere e lanciavano loro dolciumi; una banda di musicisti iniziò a suonare cembali e percuotere tamburi mentre la gente si metteva a danzare in mezzo alla strada.
Thor scese da cavallo come gli altri, perché procedere a cavallo si stava facendo sempre più difficile, poi aiutò anche Krohn a venire a terra. Fece molta attenzione, osservandolo prima zoppicare e poi camminare normalmente: ora sembrava stare bene e Thor ne fu sollevato. Krohn si voltò a leccargli la mano, riconoscente.
Attraversarono tutti la piazza e Thor ricevette gli abbracci e le strette di miriadi di persone che neanche conosceva.
“Ci hai salvati!” disse un uomo più anziano degli altri. “Hai liberato il nostro regno!”
Thor avrebbe voluto rispondere, ma non ci riuscì, la sua voce inghiottita dal chiasso di centinaia di persone che esultavano e gridavano attorno a lui e dalla musica che cresceva sempre più. Presto furono fatti rotolare attraverso il campo dei barili di birra e la gente iniziò a bere, cantare e ridere festosamente.
Ma Thor aveva solo una cosa in mente: Gwendolyn. Doveva vederla. Osservò attentamente tutti i volti tentando disperatamente di scorgerla, sicuro che fosse lì anche lei, ma si sentì spezzare il cuore constatando che non riusciva a trovarla.
Poi sentì un colpetto sulla spalla.
“Penso che la donna che stai cercando sia da quella parte,” disse Reece girandosi e indicando dalla parte opposta.
Thor si voltò e gli si accesero gli occhi. Lì, diretta con passo svelto verso di lui e dispiegando un sorriso smagliante, con un aspetto stanco, come se fosse stata sveglia tutta la notte, c’era proprio Gwendolyn.
Sembrava più bella che mai. Corse veloce verso di lui e gli si gettò tra le braccia. Lui la strinse forte a sé facendola roteare in mezzo alla folla. Lei rimase aggrappata a lui senza volersi staccare e lui sentì le sue lacrime che gli bagnavano il collo. Percepiva il suo amore e si sentiva veramente a suo agio.
“Grazie a Dio sei vivo,” gli disse colma di gioia.
“Non ho pensato a nient’altro che a te,” le rispose Thor tenendola stretta. Mentre la teneva fra la braccia sembrava che al mondo fosse tornato tutto a ruotare nel senso giusto.
Lentamente la riadagiò a terra, lei lo fissò, si chinò verso di lui e si baciarono a lungo, mentre la gente passava loro accanto urtandoli.
“Gwendolyn!” gridò Reece con voce allegra.
Lei si voltò ad abbracciarlo, poi anche Godfrey si fece avanti e abbracciò Thor prima e suo fratello Reece subito dopo. Era come un grande incontro di famiglia e a Thor pareva di esserne parte, si sentiva come se quella fosse già la sua famiglia. Erano tutti uniti dal loro affetto per MacGil, e dal loro odio per Gareth.
Krohn si avvicinò loro e saltò addosso a Gwendolyn, che si abbassò ridendo e lo abbracciò lasciandosi leccare la faccia.
“Diventi ogni giorno più grande!” esclamò. “Come posso ringraziarti per aver tenuto Thor in salvo?”
Krohn continuò a salirle addosso con le zampe, fino a che lei, ridendo, dovette accarezzarlo e ammansirlo perché rimanesse giù.
“Andiamocene da qui,” disse Gwen a Thor, dato che entrambi venivano spintonati dalla gente proveniente da ogni direzione. Gli prese la mano.
Lui gliela strinse e stava per seguirla quando improvvisamente diversi soldati dell’Argento sopraggiunsero dietro di lui e lo sollevarono in aria, al di sopra delle loro teste, mettendoselo sulle spalle. Mentre Thor veniva sollevato in aria dalla folla si levò un alto grido.
“THORGRIN” esultarono tutti.
Thor fu fatto girare da una parte e dall’altra e si ritrovò con un boccale di birra in mano. Si piegò indietro e bevve, mentre la folla continuava ad esultare selvaggiamente.
Poi venne rimesso bruscamente a terra e incespicò ridendo, mentre tutti lo abbracciavano.
“Ora andiamo alla festa per la vittoria,” disse un soldato che Thor non conosceva, un membro dell’Argento, che gli diede una corposa manata sulla schiena. “È una festa per soli guerrieri. Per uomini. E tu verrai con noi. C’è un posto riservato per te al tavolo. E anche voi,” aggiunse rivolgendosi a Reece, O’Connor e gli altri amici di Thor. “Siete uomini ora. E verrete con noi.”
Le grida di giubilo continuarono mentre venivano afferrati dai membri dell’Argento e trascinati via. Thor si liberò all’ultimo secondo e si voltò verso Gwen, sentendosi in colpa e non volendola lasciare.
“Va’ con loro,” disse lei altruisticamente. “È importante che tu lo faccia. Festeggia con i tuoi fratelli. Fai festa con loro. È una tradizione nell’Argento. Non puoi mancare. Più tardi stanotte incontriamoci sul retro della Sala delle Armi. Allora potremo stare insieme.”
Thor si chinò verso di lei e la baciò un’ultima volta, tenendola stretta quanto a lungo poté, fino a che gli altri soldati lo tirarono via con loro.
“Ti amo,” gli disse Gwen
“Anch’io ti amo,” le rispose, più sinceramente di quanto lei potesse immaginare.
Tutto ciò a cui riuscì a pensare mentre lo trascinavano via, mentre guardava quegli occhi meravigliosi così pieni di amore per lui, era che voleva più di ogni altra cosa chiederle di sposarlo e farla così sua per sempre. Si disse che quello non era il momento giusto.
Forse più tardi quella stessa notte.
CAPITOLO DODICI
Gareth si trovava nella sua stanza e guardava dalla finestra alle prime luci dell’alba che sorgeva sulla Corte del Re. Osservava la folla che si stava radunando sotto di lui e provava un senso di nausea salirgli dallo stomaco. All’orizzonte si trovava la sua paura più grande, la vera immagine di ciò che maggiormente temeva: l’esercito del Re che stava tornando, vittorioso e trionfante dopo lo scontro con i McCloud. Kendrick e Thor erano in testa liberi e vivi, degli eroi. Le sue spie lo avevano già informato di tutto ciò che era successo, che Thor era sopravvissuto all’imboscata e che era vivo e stava bene. Ora quegli uomini erano tutti più forti e tornavano alla Corte del Re in qualità di solida forza armata. Tutti i suoi piani erano terribilmente falliti e gli avevano lasciato un buco nello stomaco. Sentiva che il regno gli si stava stringendo addosso.
Gareth udì uno scricchiolio nella camera e si voltò di scatto chiudendo gli occhi per la paura non appena vide cosa aveva di fronte.
“Apri gli occhi, figlio!” tuonò una voce.
Tremando Gareth aprì gli occhi e fu scioccato di vedere suo padre lì in piedi davanti a lui: un cadavere in via di decomposizione, la corona arrugginita in testa e uno scettro altrettanto arrugginito in mano. Lo guardava con aria di rimprovero, come aveva sempre fatto in vita.
“Il sangue verrà lavato con il sangue,” sentenziò suo padre.
“Ti odio!” gridò Gareth. “TI ODIO!” ripeté, e trasse il pugnale dalla sua cintura avventandosi contro di lui.
Quando lo raggiunse conficcò il pugnale, non colpendo però altro che aria, e incespicò in avanti.
Si voltò dall’altra parte, ma la visione era scomparsa. Era solo nella camera. Era sempre stato solo. Stava perdendo la testa?
Corse dall’altra parte della stanza, rovistò nel suo armadio dei vestiti e prese la pipa di oppio con mani tremanti. La accese rapidamente e aspirò profondamente diverse volte. Sentì le droghe entrargli velocemente in circolo, si sentì momentaneamente perso nello sballo che quelle sostanze gli donavano. Negli ultimi giorni si era sempre più lasciato andare all’oppio, che sembrava essere l’unica cosa in grado di aiutarlo a cacciare l’immagine di suo padre. Gareth era tormentato da quel luogo e iniziava a chiedersi se il fantasma di suo padre fosse imprigionato tra quelle pareti e se fosse opportuno spostare la corte da qualche altra parte. In ogni caso avrebbe voluto radere al suolo quell’edificio: quel posto conteneva tutti i ricordi della sua infanzia che lui odiava.
Gareth si voltò nuovamente verso la finestra: era madido di sudore gelato e si asciugò la fronte con il dorso della mano. Rimase a guardare. L’esercito si stava avvicinando e Thor era ben visibile addirittura da lì, mentre la stupida gente gli si ammassava attorno trattandolo da eroe. Gareth era livido di rabbia e bruciava di invidia. Tutti i piani che aveva escogitato erano falliti: Kendrick era stato liberato, Thor era vivo, persino Godfrey era stato capace di sfuggire in qualche modo al veleno, anche se quella quantità avrebbe potuto ammazzare un cavallo.
Però allo stesso tempo altri piani erano andati a buon fine: Firth almeno era morto, e non erano rimasti testimoni che provassero che lui aveva ucciso suo padre. Gareth fece un profondo respiro, sollevato, constatando che le cose non erano poi così male come sembravano. Dopotutto la scorta di Nevareni era per strada per venire a prendere Gwendolyn e portarla via con loro in qualche orribile angolo dell’Anello come sposa. Sorrise al pensiero, iniziando a sentirsi meglio. Sì, almeno lei a breve gli si sarebbe levata dai piedi.
Gareth aveva tempo. Avrebbe trovato altri modi per sistemare Kendrick, Thor e Godfrey: aveva un sacco di possibili piani per farli fuori. E aveva a disposizione tutto il tempo e tutto il potere del mondo per metterli in pratica. Sì, avevano vinto questo round, ma non si sarebbero aggiudicati anche il prossimo.
Gareth udì un altro rumore, si voltò ma non vide nulla. Doveva uscire di lì, non poteva più restare in quella stanza.
Si girò e uscì in fretta e furia dalla camera. La porta si spalancò prima che lui vi giungesse davanti, aperta dai suoi servitori, sempre attenti ad anticipare ogni sua mossa.
Gareth si gettò addosso il mantello e la corona di suo padre, afferrò lo scettro e scese velocemente nell’atrio. Percorse i corridoi fino a che raggiunse la sua sala da pranzo privata, una ricca stanza in pietra con alti soffitti ad arco e vetrate colorate illuminate dalla luce della prima mattina. Due servitori stavano davanti alla porta aperta, un altro dietro il capo della tavola. Era un lungo tavolo da banchetto di circa quindici metri, con decine di sedie allineate lungo i lati. Il servitore porse la sedia a Gareth mentre lui si avvicinava. Era un’antica sedia di quercia sulla quale suo padre aveva seduto innumerevoli volte.
Gareth si sedette e si rese conto di quanto odiasse anche quella stanza. Ricordò di essere stato costretto a sedersi là dentro da bambino, tutta la famiglia riunita attorno al tavolo, a ricevere ramanzine o rimproveri da suo padre e da sua madre. Ora la stanza era desolatamente vuota. Non c’era nessuno là dentro a parte lui: non i suoi fratelli e genitori, né i suoi amici. Neanche i suoi consiglieri. Nei giorni passati era riuscito a isolare tutti, e ora mangiava da solo. Preferiva comunque così: per troppe volte aveva visto il fantasma di suo padre là dentro con lui, e si era imbarazzato quando aveva urlato di fronte agli altri.
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