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“E la mia capacità di tradurre i segnali?” chiese Kevin, e poi capì la risposta a quella domanda prima ancora che qualcuno degli altri potesse dire qualcosa. Gli Ilari non parlavano la sua lingua, ma lui li poteva comunque capire, e poteva percepire i segnali delle Intelligenze Artificiali che comunicavano tra loro, riuscendo a tradurre i messaggi quando diventavano più forti.
… sembra essersi ripreso del tutto…
… può essere necessario…
“La procedura non dovrebbe aver influenzato null’altro che la tua malattia,” disse il generale s’Lara dando un’occhiata a uno dei medici, che annuì. Kevin poté vedere il sollievo del generale di fronte a quella conferma.
Kevin avrebbe dovuto provare gioia per quella notizia. Provava gioia, ma c’era anche dell’altro. Si sentiva come se in qualche modo le cose avessero dovuto essere più complicate. Dopo tutto il lavoro che gli scienziati avevano fatto sulla Terra tentando di stabilizzarlo e guarirlo, gli sembrava impossibile che questi alieni lo potessero far stare bene con un così minimo sforzo.
“Voi… mi avete guarito,” disse. “Perché? Perché mi avete guarito? Sapete quello che ho fatto. Sapete che sono responsabile della distruzione del mondo in cui vi nascondevate.”
“E ti abbiamo messo a processo per questo,” disse il generale s’Lara. “Abbiamo concordato di farti restare. Pensi che avremmo evitato la tua guarigione pur avendo la possibilità di aiutarti? Non siamo fatti così. Non è una cosa giusta.”
La bontà e benevolenza di quel gesto travolse Kevin. Come potevano questi alieni essere così buoni? Sembrava impossibile che qualcuno potesse essere tanto generoso con una persona che aveva tentato di fare loro del male. Dopo tutto quello che lui aveva fatto…
“Non è stata colpa tua, Kevin,” disse Chloe.
Kevin avrebbe voluto poterci credere. Ma il massimo che poteva fare era provare un’enorme gratitudine per essere trattato a quel modo.
“Grazie,” disse al generale. “Io… non so cosa dire.”
Gli avevano ridato la sua vita. Lo avevano guarito laddove nessun altro era stato in grado di farlo, e l’avevano fatto quando lui era certo che non avessero alcun motivo per farlo.
“Non serve che tu dica niente,” disse il generale s’Lara. “Noi aiutiamo coloro che ne hanno davvero bisogno. Cerchiamo la pace dove la si può trovare. Perdoniamo.”
Sembrava impossibile da credere. Kevin non era sicuro che sarebbe mai stato capace di perdonare l’Alveare. Se avesse avuto la possibilità di distruggerlo, l’avrebbe fatto. Eppure… si voltò a guardare Ro. Kevin non lo odiava. Si fidava addirittura di lui, eppure l’ex Puro era stato tra coloro che avevano tentato di distruggere il suo pianeta.
“Ho così tanto da imparare,” disse Kevin.
Guardò verso Chloe e di nuovo provò quella sensazione di colpa per aver pensato a Luna e non a lei quando era in punto di morte. C’era stata Chloe con lui sulla navicella spaziale dell’Alveare. Era stata lei ad aiutarlo a fuggire. Lui sapeva ciò che lei provava per lui, e sentiva anche lui qualcosa… ma era il volto di Luna che gli appariva nella mente quando chiudeva gli occhi, era a Luna che pensava in ogni momento tranquillo, anche se probabilmente ora era perduta nella massa dei trasformati.
“Ti è stato donato un nuovo inizio,” disse il generale s’Lara, gentilmente, come se avesse capito l’enormità di tutto ciò che gli stava accadendo. “La domanda è cosa intendi farne.”
Kevin in quel momento non poteva stare nella stanza. Era troppo. Non era solo il fatto che non sapesse cosa dire o cosa pensare, ma voleva respirare un po’ di aria aperta. Voleva ricordare a se stesso cosa volesse dire realmente essere vivo. Che poteva davvero potenzialmente avere un futuro.
C’erano porte che dall’infermeria portavano a una specie di balconata che sembrava essere cresciuta dall’albero stesso. Si curvava attorno al tronco come una specie di grosso fungo cresciuto lì, sufficientemente grande da sostenere lui e una dozzina di altre persone. Kevin vi si portò, trovandosi circondato dall’albero, con la bellezza del mondo dispiegata sotto di sé. Qua e là piccole navicelle sfrecciavano tra gli alberi, agili come uccelli, cantando melodie che riempivano lo spazio di musica, mentre le piante rampicanti pendevano dai rami arrivando quasi a toccare terra, e creature pelose grandi la metà di Kevin salivano e scendevano da esse.
L’aria era dolce, e non solo per il muschio e i fiori della foresta o la vegetazione rigogliosa, sebbene quel contesto fosse certamente di aiuto. Era il fatto che ora Kevin poteva respirare a pieni polmoni senza provare dolore, e stare lì in piedi senza lo stordimento che gli derivava dalla leucodistrofia che minacciava di travolgerlo. Era così strano starsene lì a quel modo, e più Kevin vi rimaneva, più era certo che tutta la sua vita fosse stata influenzata dalla sua malattia. Aveva pensato che si fosse presentata nella sua vita solo pochi mesi prima, ma con un solo respiro aveva capito che invece l’aveva avuta da sempre, da subito lì in agguato e in attesa, e lui se n’era accorto solo quando si era fatta più invasiva.
Rimase fermo lì ad ammirare l’enormità e la bellezza del mondo che lo circondava, e l’emozione gli parve semplicemente travolgente. Gli erano successe così tante cose, e adesso si sentiva più in forma che mai. Lo stesso aveva la percezione di essere piccolo in proporzione a tutto ciò che gli stava attorno. Era come se ci fossero troppe cose che lui ancora non sapeva, troppe cose che doveva ancora imparare e capire. Aveva tutta la sua nuova vita da trascorrere, e c’erano così tante cose da fare e imparare, che non sapeva proprio da che parte cominciare.
“Kevin, stai bene?” chiese Chloe uscendo dietro di lui.
Per un momento o due Kevin avrebbe voluto nascondersi dietro alla stranezza di tutta quella situazione che aveva vissuto. Avrebbe voluto dirle che era solo lo shock di ciò che era successo, o quell’improvvisa guarigione. Avrebbe voluto fingere che tutto andasse bene. Avrebbe voluto mentire, anche se Chloe era una persona che non meritava bugie.
Ma sapeva di non poterlo fare.
“Io… Chloe, devo dirti una cosa.”
“Sei innamorato di Luna,” disse lei. Rimase ferma lì, immobile come una statua, senza dire niente, ovviamente aspettando che fosse Kevin a decidere di prendere la parola. Gli ci volle qualche secondo, semplicemente per lo shock di aver sentito Chloe svelargli quella cosa prima di lui.
Annuì. “Io… siamo amici da sempre. Penso a lei tutto il tempo. Vorrei… vorrei poter provare questo per te, ma non è così.”
Chloe rimase ferma lì per quella che gli parve un’eternità, e Kevin si trovò a desiderare di non averle inflitto quel genere di dolore, anche se sapeva che non ci sarebbe stata altra scelta. Non voleva farle del male, ma non voleva neanche mentirle. Kevin si aspettava che esplodesse, che gli gridasse contro, che reagisse con quel genere di emozioni che sempre la riempivano fino all’orlo. Invece lei rimase ferma come una statua.
“Sì,” disse alla fine. “Lo so.”
“Lo sai,” disse Kevin. “Tutto qui?”
“Cosa vuoi che dica?” ribatté lei più dura, e Kevin percepì il dolore nella sua voce. “Fa male, ovvio che fa male, ma nell’Alveare ho visto quanto peggio potessero andare le cose. Ho visto quanto sia malvagio tentare di forzare quello che si prova nelle persone. Ho…”
Kevin vide le lacrime che iniziavano a salirle agli occhi e automaticamente le mise un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé per confortarla. Era piuttosto sicuro che se uno diceva a qualcun altro che non lo amava, non avrebbe dovuto offrirsi di confortarlo, ma non poteva farne a meno.
“Mi spiace,” disse. “Vorrei…”
“Cosa vorresti, Kevin?” chiese Chloe. “Che niente di tutto questo fosse successo? Non desiderarlo. Io non lo vorrei.”
Una parte di Kevin lo desiderava, nonostante tutto. Desiderava che l’invasione degli alieni non ci fosse mai stata. Desiderava non aver aperto la capsula che avevano inviato, o di essere stato capace di fare qualcosa per fermare i danni che erano stati causati. Non poteva neanche contare il numero delle persone cui era stato fatto del male, o peggio, a causa dei ciò che era successo. Se avesse potuto riportare indietro quelle cose, l’avrebbe fatto, semplicemente perché odiava l’idea che nell’universo ci fosse del dolore generato da lui. Eppure se tutto questo non fosse successo, lui non avrebbe mai incontrato Chloe. E non avrebbe mai fatto neanche la metà delle cose strabilianti che aveva compiuto.
Kevin allora capì che Chloe aveva ragione: non dovevano desiderare che le cose fossero andare in modo diverso. Ad ogni modo continuava a pensare a come risponderle quando vide il cielo che iniziava a farsi più scuro, con una forma fin troppo familiare che si posizionava sopra al mondo.
“No,” sussurrò. “No…”
La navicella madre dell’Alveare si mise in posizione come una specie di scherzo visivo: un momento la si vedeva e l’attimo dopo no. Stava sospesa sopra al mondo degli Ilari, ne dominava l’orizzonte e delle navicelle da atterraggio già iniziavano ad uscirne, dando l’impressione che muovere una cosa così grande e terrificante fosse una bazzecola.
Kevin vide il generale s’Lara accorrere sul balcone con lo stesso orrore che provava lui in quel momento. Avevano pensato di essere salvi. Avevano pensato per lo meno di avere tempo.
“Com’è possibile?” chiese. “Come hanno fatto a trovarci quando li avevamo seminati?”
Guardò Kevin e Chloe, poi si voltò verso Ro, che si trovava ancora all’interno dell’infermeria. I suoi sospetti erano ovviamente per Kevin, ed era difficile non condividerli. Non che Kevin pensasse che Ro avesse potuto fare qualcosa del genere apposta, ma era forse possibile che in lui ci fossero dei residui di connessione con l’Alveare? E se invece stavano seguendo le tracce di Kevin e non di Ro?
Stava ancora pensando quando Chloe si fece avanti, tendendo il braccio.
“Sta… sta pulsando. Penso… penso che lo stiano tracciando. Levatemelo. Levatelo!”
Kevin non sapeva davvero cosa dire. Sopra di loro la navicella madre stava ferma in posizione, sputando fuori navicelle più piccole che promettevano nient’altro che morte. Kevin sollevò lo sguardo verso di esse. Gli sembrava tutto così ingiusto. Gli Ilari lo avevano appena salvato, gli avevano appena concesso una possibilità di vivere il resto della sua vita.
Ora l’Alveare era lì, e Kevin non capiva in che modo sarebbero potuto scampare alla morte.
CAPITOLO CINQUE
Luna era… Luna era. Doveva cercare di ricordarselo. Doveva ricordare che lei esisteva, ed era reale, e non era solo… solo… il ricordo e le parole le stavano scivolando via anche se lei e il resto dei… i Sopravvissuti, ecco, stavano andando verso le fabbriche che avevano scelto come posto dove avrebbero trovato con maggiore probabilità quello di cui avevano bisogno.
Luna era furiosa all’interno della gabbia, tirava le sbarre d’acciaio come se le sue mani potessero essere in grado di strapparle. Ora vedeva il sangue su quelle sbarre, e non ricordava da dove venisse. Era per i suoi attacchi al metallo o era qualcos’altro? Cercava di trattenersi, ma non aveva alcun controllo sul proprio corpo. Gli alieni che la comandavano volevano che lei trovasse un modo per uscire da lì, per uccidere, senza pensare a quanto questo potesse nel frattempo danneggiarla.
“Tieni duro, Luna,” disse Ignazio. Anche lui sembrava preoccupato ora. “Troveremo un modo per elaborare la cura. Ti riporteremo a quello che eri prima. Tornerai te stessa.”
Ma non era a se stessa che Luna pensava adesso. Stava pensando a Kevin. Kevin era l’unico ricordo al quale lei si riuscisse a tenere, come uno scalatore si sarebbe tenuto a una roccia per paura di precipitare. Stava aggrappata alla sua immagine, ma ora anche i ricordi di lui stavano iniziando a sbiadirsi, sempre più sbrindellati ai confini, come un… come un… non ricordava neanche cosa. Ricordava di aver viaggiato con lui per il paese. Ricordava i momenti divertenti prima che tutto questo avesse inizio, quando erano due amici, ma anche tante di quelle cose avevano cominciato a scivolarle via. Ad ogni modo Luna si teneva stretta a Kevin con tutta la forza possibile, e così facendo le parve di poter trattenere anche parte del resto. Riconosceva il cane Bobby che correva in mezzo al gruppo, il più vicino possibile a lei. Ora non stava ringhiando, ma forse era perché capiva che in quella condizione non poteva fare del male a nessuno.
Si stavano avvicinando alle fabbriche adesso, e Luna vide gli altri che si guardavano attorno con quel genere di ovvia cautela che veniva dalle troppe brutte esperienze vissute. Erano così tanti adesso, praticamente un esercito, e una parte di Luna disse a se stessa che avrebbe dovuto trasformarli in cose come lei. Soffiò fuori altro vapore contro di loro, sebbene non sortisse alcun effetto, grazie alla cura.
Alcuni di loro la guardavano con paura mentre camminavano, come se si aspettassero che lei facesse loro del male da un momento all’altro. Alcuni sfiorarono le armi che avevano, insicuri se usarle o meno. Ricordava una di quelle persone, ricordava che si chiamava Lupetto, ma in quel momento non ricordava nient’altro di lui, né capiva perché le facesse così male che lui in particolare tenesse la mano stretta sull’impugnatura della pistola.
“Pare che questo posto sia stato sede di qualche battaglia,” disse Ignazio, rivolgendosi a Leon. “Sei sicuro che troveremo qui quello che ci serve per elaborare la cura?”
Leon rispose con una scrollata di spalle, che non fu per niente confortante per Luna. “Non sono sicuro di niente. Si sono sentiti rumori di battaglia nella zona industriale, e i trasformati potrebbero aver saccheggiato il posto. Non sappiamo cosa ci sia qui.”
Luna non sapeva cosa pensare al riguardo. In verità, riusciva a malapena a pensare, arrivata a questo punto. Nonostante le riserve di Leon, il gruppo avanzò comunque con cautela tra i resti degli edifici, guardandosi attorno come se fossero alla ricerca di eventuali tracce di nemici. L’intero luogo sembrava un cimitero con quelle carcasse di enormi creature di metallo, porzioni di pareti danneggiate o addirittura crollate nel corso dei combattimenti che si dovevano essere svolti lì.
La trascinarono nella sua gabbia su ruote fino a un punto dove si trovava l’insegna di una società chimica, che penzolava in un angolo e sembrava poter cadere a terra da un momento all’altro. Entrarono, e ovunque Luna guardasse c’erano vasche e contenitori, alcuni tanto grandi da essere attraversate da passerelle di metallo perforato. Alcune vasche sembravano vuote, il contenuto tolto intenzionalmente, o colato da delle perdite o semplicemente evaporato, ma altre contenevano prodotto chimici che si muovevano e ribollivano qua e là in un modo che prometteva morte a qualsiasi sfortunato ci cadesse dentro. Il suolo era cosparso di detriti ed era difficile camminarci sopra. C’erano travi che sembravano essere cadute dal soffitto e scatole sparpagliate qua e là che sembravano essere state aperte e rovistate per controllarne il contenuto.
I Sopravvissuti si sparpagliarono attorno a Luna e iniziarono a perquisire la fabbrica, muovendosi tra le pile di macerie e prendendo ciò che era rimasto, presumibilmente nella speranza che una delle scatole contenesse qualcosa di utile.
“Cosa stiamo cercando?” chiese uno di loro.
Fu Barnaby a rispondere. “Ci serviranno macchinari per la lavorazione dei prodotti chimici, in modo da assemblarli e trasformarli in una qualche forma utilizzabile. Cercate bene.”
Tutto ciò che Luna poteva fare era aspettare e sperare, e l’attesa era odiosa. Parte di lei la odiava perché significava che non avrebbe potuto uccidere la gente che le stava attorno, ma sapeva che quella parte non era realmente lei, ma solo la parte che era controllata. La più grossa preoccupazione era che più tempo passava e più difficile era ricordare. Non poteva aspettare, perché non c’era tempo per aspettare.
“Qui!” gridò Leon da dietro un mucchio di cianfrusaglie. C’era una nota di speranza nella sua voce, ma Luna non osò condividerla in quel momento. “Barnaby, Ignazio, venite a vedere questo.”
Luna vide i due scomparire dietro al mucchio. I secondi passarono, poi i minuti.
“Portate Luna,” gridò Ignazio, e la sua speranza parve ancora più solida e presente nella voce, perché lui poteva per certo sapere che era quello che stavano cercando.
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