La Tempesta

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TEATRO
DIGUGLIELMO SHAKESPEARERagione dell'opera.
C'è stata un'epoca della mia vita in cui sono stato innamorato di Titania. Io ero allora un ragazzetto appena settenne e vivevo in una vecchia villa toscana, fra le giogaie petrose della Gonfolina e i lecci medicei di Artimino. Ma appunto fra quelle pietre, nelle cui fessure crescevano le linarie gialle e dentro i cui ginepri arsicci zirlavano i tordi nei mattini di novembre, o sotto le ombre cupe dell'antico parco dove s'intravedevano ancora gli avanzi dello splendore d'altri tempi io ho ricercato invano la piccola regina delle Fate con tutto il suo minuscolo corteggio di genietti invisibili. Avevo imparato a conoscerla in un vecchio volume illustrato da uno di quelli artisti che con lo Stoddart e col William Blake furono i precursori di tutto l'idealismo letterario della pittura inglese. Avevo imparato a conoscerla in quelle grandi illustrazioni, un poco primitive, dove essa compariva sempre all'ombra dei tassobarbassi vellosi o delle fragole gigantesche, mentre sopra ogni stelo d'erba si cullava maliziosamente il piccolo «Cobweb» o l'inafferrabile «Pea's Blossom», mentre Puck dall'alto di un cespuglio vigilava se Oberon non si avvicinasse. Nella grande stanza deserta, il sole d'agosto entrava a fiotti dalle vetrate senza tende, e gli armadii intorno sapevano di resina, e i mosconi ronzavano contro i cristalli mentre lo stridio non interrotto delle cicale sembrava arrecare su dalla valle il saluto trionfale della terra feconda. Nella calma di quei pomeriggi estivi, mentre tutta la casa dormiva nella siesta quotidiana, io sfogliavo il vecchio volume trovato nella biblioteca paterna e imparavo a conoscere Caliban, punzecchiato dagli spiriti maligni di Prospero, e il cane bizzarro di Speed, e i cervi che scendevano ad abbeverarsi lungo il ruscello nella foresta delle Ardenne dove il vecchio duca esiliato ascoltava le bizzarrie filosofiche di messer Giacomo e i sospiri amorosi di Rosalinda. Ma sopra tutti era Titania quella che attirava il mio spirito infantile, Titania con le sue chiome disciolte, coi suoi occhi attoniti, con le sue collane di corolle fiorite e con la sua tenerezza per il bel somarello dalle lunghe orecchie pelose. Così che molte volte io mi son ritrovato, su per gli scopeti odorosi di funghi di Artimino o fra i pinastri di Villa Campi, a cercare timorosamente in ogni campanella d'oro di tassobarbasso e in ogni calice azzurro di fanciullaccia se non si nascondesse una di quelle fate misteriose che andavano di notte ad appendere goccie di rugiada sui fiori della loro regina.
Questa è stata la mia prima visione del mondo shekspiriano e se più tardi ho cercato altre cose nei suoi volumi e ho trovato altre emozioni fra i suoi eroi, nessuna certo è stata così pura e così spontanea come quella di un amore infantile, nato nel tedio delle ore di studio, dentro una grande villa toscana sui colli di Signa, arsi dall'estate. E forse è in quel ricordo lontano che debbo ricercare il senso quasi religioso che io ho avuto sempre per il grande poeta inglese. Col crescere degli anni e degli studii la prima sensazione puramente fantastica si è naturalmente modificata, ma anche oggi non posso rileggere i versi divini del «Midsummer night's dream» senza provare un poco l'antica nostalgia e ritrovare come in un angolo riposto del mio cuore qualcosa dell'amore di altri tempi. Per questo quando il Gaffuri di Bergamo mi propose di tradurgli quella divina fantasia per una edizione italiana delle illustrazioni di Arturo Rackham io accettai con gioia e mi accinsi al lavoro con tale un impeto di entusiasmo che i versi della traduzione mi vennero quasi naturalmente come in un accesso del «brevis furor» oraziano.
Pubblicato il volume io non pensavo certo a farlo seguire da altri, quando sopravvennero due fatti nuovi che fecero nascere in me una idea—ancora indeterminata—dell'opera a cui mi sono accinto. Il primo fu un articolo di G. S. Gargano, sul «Marzocco» di Firenze, articolo che oltre a parole fin troppo lusinghiere per la mia versione, conteneva come un ringraziamento per avere con essa fatto conoscere ai lettori italiani il capolavoro della fantasia shekspiriana nella sua integrità; e in secondo luogo venne la rappresentazione che di essa fu fatta dalla compagnia stabile all'Argentina di Roma, rappresentazione che ebbe esito trionfale e che mi procurò l'onore di una lettera dell'ambasciatore inglese sir Rennel Rodd—che è poeta tanto nobile, quanto è sagace diplomatico—nella quale dopo di avermi detto il suo piacere nell'aver assistito a quel trionfo del poema inglese che non credeva possibile d'innanzi a un pubblico latino, m'incoraggiava a proseguire e a dare agli italiani una intiera versione dell'opera shekspiriana.
Debbo confessare che da principio l'impresa mi parve così ardua che non osai concepirla. Ma le due voci diverse mi risuonavano continuamente nel pensiero e mi spronavano a tentarla. L'Italia, in fatti, non ha una vera e propria traduzione del Teatro di Guglielmo Shakespeare. Sia in prosa che in versi i traduttori italiani, per quanto valenti, non hanno mai avuto il coraggio di osare la semplicità e spesso la ruvidezza shekspiriana: costretti dalla moda del tempo a quella artificiosità ridondante che era propria della letteratura italiana, essi hanno travisato il testo, travestendolo in uno stile che non è lo stile del poeta inglese e spesso allontanandosene totalmente, quando un passo oscuro e audace sembrava loro che fosse insopportabile al pensiero italiano. D'altra parte, da che la poesia nostra si è felicemente liberata da quelle pastoie accademiche, nessun poeta aveva tentato di accingersi all'impresa non facile e non breve. Il Gargano, alcuni anni or sono, aveva tentato di costituire una società shekspiriana fra i varii letterati italiani, che si accingessero alla desiderata versione, la quale—tra parentesi—doveva essere in prosa e più documento letterario che lavoro d'arte. Ma il tentativo fallì e non fu danno—io credo. Perchè un'opera di tal genere deve essere compiuta da un unico individuo, che le dia quell'unità e quella armonia di intendimenti e di stile senza la quale non potrebbe riuscire degna dell'altissimo soggetto. D'altra parte, altre nazioni avevano già risoluto il problema per opera di uno solo, perchè non si sarebbe tentato di fare lo stesso in Italia? L'impresa è ardua, ma lusinghiera, e a poco a poco divenne così prepotente in me l'idea di attuarla, che decisi di accingermi al lavoro.
Nel qual lavoro io ho tentato sopra tutto la più scrupolosa fedeltà, rispettando i metri e le rime, rispettando i concetti e le espressioni anche là dove esse potevano sembrare meno tollerabili ad orecchi latini. Ma Guglielmo Shakespeare è con Dante Alighieri una di quelle forze vive della natura, da cui dobbiamo accettare tutto. D'altra, parte, per quello che riguarda la struttura metrica dei suoi drammi o delle sue commedie, essa ha una così profonda relazione con l'anima dei suoi personaggi che non potrebbe esserne divisa senza grave danno. Per questo, non solo ho lasciato la doppia forma prosastica e poetica—come era naturale—ma nei versi ho voluto rispettare per fino gli emistichi e quei distici rimati che quasi sempre chiudono il lungo discorso in versi sciolti di un personaggio. E anche questa fedeltà credo sia necessaria per rendere il pensiero shekspiriano, a punto perchè egli è di quei poeti in cui nulla è trascurabile e in cui ogni parola ha un significato profondo e immutabile.
Certo, ai primi passi di un'opera a cui dedicherò quanto oramai mi resta di vita, io non mi dissimulo le difficoltà e spesso mi dimando se veramente mi potrà bastare la forza per condurla a fine. Ma ricordando gli esempi di altri popoli e le parole buone di chi volle incoraggiarmi, so ritrovare la fiducia primitiva, confidando anche nei lettori i quali vorranno perdonare le possibili manchevolezze e incoraggiare anch'essi questo sforzo inteso a dare agl'italiani una visione il più possibilmente precisa di quel mondo creato da uno dei genii più alti che mai abbia onorato il pensiero umano.
Roma, Marzo 1911.
DIEGO ANGELI.
LA TEMPESTA
NOTA BIBLIOGRAFICA
Se bene non si sappia precisamente la data in cui fu scritta la Tempesta, pure il Malone—che è fra i più attendibili—la fa risalire al 1612, dandole così il penultimo posto nella serie delle produzioni shekspiriane. Ma se bene il Chalmers e il Drake spostino di un anno questa data—l'uno facendola risalire al 1611 e al 1613 l'altro—è oramai certo che fu una delle ultime opere teatrali scritte da Guglielmo Shakespeare. Da dove abbia tolto l'idea di questa divina fantasia lirica, non si può stabilire con precisione. Il Warton cita un romanzo italiano—Aurelio e Isabella—che fu popolarissimo in Inghilterra verso il 1588 e nel quale per fino il personaggio principale di Aurelio o meglio Orelio, come apparve nella versione inglese, poteva aver suggerito la figura di Ariel. Ma quello che si può stabilire con precisione è da dove il poeta abbia tratto la parte descrittiva della sua commedia. In quello scorcio del secolo XVI si pubblicarono in Inghilterra molte relazioni di viaggi, che erano avidamente lette dal popolo. Fra questi il naufragio di Henry May alle Isole Bermude (1598) il Reporte of the laste voyage of Capiteine Frobisher (1577) la History of travayle of John Barbot (1577) e la True relation of the travailes of William Davies barber and surgeon. Questa è del 1614, ma probabilmente correva già manoscritta fra i lettori inglesi avidi di avventure marinaresche. In tutti questi volumi si ritrovano particolari descrittivi che coincidono con quelli della Tempesta. Così nel viaggio del Frobisher è fatta parola di Sycorax, una povera selvaggia che egli trovò in un'isola e che ritenne essere una strega; e in quello del barbiere-chirurgo Davies si parla di Setebos che era una divinità adorata dai Patagoni. Inoltre tutti quei viaggiatori asserivano che le Bermude erano isole abitate da diavoli, da spiriti e da streghe e questa loro asserzione trovò tanto credito che la credenza se ne propagò fino agli ultimi anni delle guerre civili.
Quello che Guglielmo Shakespeare non potè togliere da nessun volume fu la festevolezza, la grazia e la poesia magnifica di questo lavoro che ottenne subito un grandissimo favore. Tanto grande che il Fletcher si affrettò ad imitarlo con un suo The sea voyage e lo imitò Sir John Sucling coi Gobelins, e per fino il Milton ne trasse non poche ispirazioni per The mask at Ludlow Castle. Del resto, una conferma del grande trionfo che dovette riportare questo lavoro si ha anche in una velenosa annotazione che il Ben Jonson fece alla sua Bartholomew Fair. «Se non vi è nella sua fiera un mostro servo» egli dice «chi può aiutarla? L'autore ha in odio di mostrare la natura spaventosa, nelle sue commedie come colui che inventa Racconti, Tempeste e simili scempiaggini del genere.» Ma i lettori contemporanei si troveranno più d'accordo col Warburton il quale osserva che «La Tempesta e il Sogno di una notte di mezza estate sono i più nobili sforzi di quella sublime e miracolosa immaginazione particolare allo Shakespeare, che si libra oltre i limiti della natura senza perderne il senso o—più propriamente—trascina la natura fuori di quei confini che ella stessa si era stabiliti».
PERSONAGGI RAPPRESENTATI
ALONZO, Re di Napoli.
SEBASTIANO, suo fratello.
PROSPERO, Duca legittimo di Milano.
ANTONIO, suo fratello, usurpatore del Ducato di Milano.
FERDINANDO, figlio del Re di Napoli.
GONZALO, vecchio e onesto consigliere del Re di Napoli.
ADRIANO }
FRANCESCO } Signori.
CALIBANO, schiavo deforme e selvaggio.
TRINCULO, buffone.
STEFANO, servo ubriacone.
Padrone della nave, Quartiermastro, Marinari.
MIRANDA, figlia di Prospero.
ARIEL, spirito aereo.
IRIDE }
CERERE }
GIUNONE } spiriti.
NINFE }
MIETITORI }
Altri spiriti al servizio di Prospero.
La scena è a bordo di una nave sul mare, poi in un'isola disabitata.
LA TEMPESTA
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
A bordo di una nave, sul mare. Una bufera con tuoni e fulmini.
Entrano il PADRONE della nave e il QUARTIERMASTRO.
IL PADRONEMastro….
IL QUARTIERMASTROEccomi, Padrone: che c'è?
IL PADRONEBene. Parla ai marinari e manovrate alla spiccia: altrimenti andiamo tutti a fondo. Presto! presto!
Exit.
Entrano vari MARINARI.
IL QUARTIERMASTROSu, cuori miei: presto, presto, cuori miei! Forza! forza! Serrate il bompresso. Attenti al fischio del Padrone! Soffia finchè tu non ne possa più, vento mio: finchè abbiamo spazio!
Entrano ALONZO, FERDINANDO,
ANTONIO, SEBASTIANO, GONZALO.
ALONZOBravo mastro: mi raccomando di stare attento.
Dove è il Padrone? Siate uomini!
IL QUARTIERMASTROFatemi la grazia di starvene giù, per ora!
ANTONIODov'è il Padrone, Quartiermastro?
IL QUARTIERMASTRONon lo sentite? C'imbarazzate la manovra. Rimanete nelle vostre cabine: così, aiutate la tempesta.
GONZALOSu, su, brav'uomo, un po' di pazienza.
IL QUARTIERMASTROQuando l'avrà il mare. Via di qua! Che importa a queste ondate il nome del Re? Alle vostre cabine! Silenzio e non c'impicciate.
GONZALOSta bene. Ma rammentati chi hai a bordo.
IL QUARTIERMASTRONessuno a cui voglia bene più che a me! Voi siete un consigliere: se potete comandare il silenzio a questi elementi e ricondurre la calma, non toccheremo più una gomena. Fate uso della vostra autorità. E se non lo potete, ringraziate il cielo di aver vissuto tanto e preparatevi nella vostra cabina per la disgrazia presente,—se disgrazia ha da esserci. Coraggio, ragazzi! Levatevi dai piedi, vi dico!
Exit.
GONZALOQuest'uomo mi rassicura! Non ha nessun segno d'affogato sopra di sè: il suo fisico è tutto per la forca. Serbalo per l'impiccagione, o buona sorte! E fa che la corda del suo destino sia la gomena della nostra salvezza: sulla nostra c'è poco da contare! Se non è nato per finir sulla forca, il nostro caso è disperato.
Exeunt.
Rientra il QUARTIERMASTRO.
IL QUARTIERMASTROGiù l'albero di maestra! Presto! Più giù! più giù! Cerchiamo d'incappare la vela.
Si odono grida dal di dentro.
La peste a quelli strilloni! Urlano più della tempesta e dei nostri comandi.
Rientrano SEBASTIANO, ALONZO e GONZALO.
Da capo? Cosa venite a fare? Dobbiamo lasciare andare ogni cosa e affogare? Volete proprio colare a fondo?
SEBASTIANOUn cancro alla lingua, cane bestemmiatore e senza pietà!
IL QUARTIERMASTROE allora, manovrate da voi!
ANTONIOAlla forca, carogna, alla forca! Figlio di puttana! insolente ciarlone! Abbiamo meno paura di te, d'affogare.
GONZALOGarantisco io che non affogherà: fosse pure la nave non più forte di un guscio di noce nè più sfondata di una sfrontata baldracca.
IL QUARTIERMASTROSerrate le vele! serrate le vele! Ammainate le drizze. Di nuovo in pieno mare: al largo.
Entrano alcuni marinari bagnati.
I MARINARI—Tutto è perduto!
–Preghiamo! Preghiamo!
–Tutto è perduto!
Exeunt.
IL QUARTIERMASTROE che? È dunque necessario che le nostre bocche sieno fredde?
GONZALOSono in preghiera il principe ed il Re. Andiamo a unirci a loro: il caso nostro non è diverso!
SEBASTIANONon ho pazienza!
ANTONIOSiamo truffati delle nostre vite da ubriaconi! Quel brigante là dall'ampia gola! Possa tu giacere affogato e travolto da ben dieci maree!
GONZALOE pure egli morrà impiccato se bene contro ciò giuri ogni goccia che quanto può s'apre per inghiottirlo.
Rumori confusi dall'interno.
–Misericordia! Andiamo a fondo!
–Andiamo a fondo! Addio moglie!
–Addio figliuoli! Addio fratello!
–Si affonda! Si affonda! Si affonda!
ANTONIODobbiamo affondare col nostro Re!
Exit.
SEBASTIANODobbiamo congedarci da lui!
Exit.
GONZALODarei volentieri mille iugeri di mare, per pochi metri di nuda terra: sterpami, roveti e ogni altra cosa. Che la volontà del cielo sia fatta! Ma io vorrei morire una morte asciutta!
Exit.
SCENA II
Nell'isola: d'innanzi alla grotta di Prospero.
Entrano PROSPERO e MIRANDA.
MIRANDASe con vostra arte, o caro padre, avete l'onde selvagge in tal frastuono messe or le pacificate. Il cielo—sembra— ardente pece pioverebbe, se il mar salendo alla sua guancia, il fuoco non ne cacciasse. Oh come insiem con quelli che ho veduto soffrire, anch'io soffersi! Un vascel valoroso—e non vi ha dubbio che in lui non fosse qualche creatura nobile—messo in pezzi! E quali grida mi percossero il cuore! E son perite quelle povere anime! Se fossi stata una Dea possente avrei sommerso il mare nella terra, prima che il buon vascello esso inghiottisse insieme con quelli che recava seco!
PROSPEROCalmati! non più paura e al pietoso cuore di' che non vi fu danno.
MIRANDAO triste giorno!
PROSPERONon vi fu danno. Io non ho fatto nulla che non fosse per te. Per te mio bene, per te mia figlia che non sai chi sei e non conosci d'onde io venga, o s'io, io non sia meglio di Prospero, padrone di una povera grotta e nulla più del padre tuo.
MIRANDANon ho pensato mai di sapere altra cosa.
PROSPEROIl tempo è giunto ch'io ti spieghi altra cosa. Or dunque dammi la mano ed il mio magico mantello or dalle spalle toglimi. Così.
Si toglie il mantello e lo stende per terra.
Quivi si giace la mia arte. Asciuga gli occhi e sii calma. Questa spaventosa vision del naufragio che percosse la virtù in te della compassione, con la sola potenza di mia arte comandata ho così sicuramente che non una sola anima—che dico?– non un solo capello di coloro che tu udisti gridare, che vedesti sprofondare nell'onde è andato perso. Siediti, è giunto il giorno in cui tu devi conoscere di più.
MIRANDASpesso mi avete cominciato a narrar quel ch'io mi fossi ma mi avete interrotto ad una vana mia richiesta lasciandomi, col dire: "Basta, non è ancor tempo".
PROSPEROE il tempo è giunto ed il momento ne sospinge. Tendi l'orecchio e presta attenzione. Puoi tu ricordare gli anni, pria che in questa grotta fossimo giunti? Io non suppongo che tu lo possa però che compiuti non avevi tre anni.
MIRANDAE pur lo posso, o signore.
PROSPEROMa cosa? Una dimora diversa? Altre persone? Dimmi quale immagine il ricordo tuo rattiene.
MIRANDAÈ così lunge! Ed è quel mio ricordo più come un sogno che una cosa vera. Ma, dite, non avevo allora cinque o sei donne d'intorno a me?
PROSPERONe avevi anche di più, Miranda. Ma in che modo tutto ciò vive nel pensiero tuo? E cosa vedi ancora entro l'oscuro baratro e nell'abisso alto del tempo? Se tu ricordi cose antecedenti al tuo giungere qui, puoi ricordare come qui tu giungesti.
MIRANDANo, non posso.
PROSPEROSono oramai trascorsi dodici anni, dodici anni, Miranda! Era tuo padre il duca di Milano e assai potente principe.
MIRANDAO signor mio, non siete dunque mio padre?
PROSPEROLa tua mamma che fu in vero la virtù stessa, ti dicea mia figlia ed era certo, duca di Milano il padre tuo. L'unica erede tu, e non indegna principessa!
MIRANDAO cielo! Qual brutto inganno quivi ci ha condotti o benedizione è stato quello che ci fu fatto?
PROSPEROL'uno e l'altra, o mia fanciulla: per un brutto inganno, come tu dicesti, noi qui venimmo ma l'aiuto è stato benedetto.
MIRANDAOh il cuore mi sanguina a pensar tutte le cose che sono ormai fuori del mio ricordo. Ma proseguite, ve ne prego.
PROSPEROIl mio fratello—era tuo zio—chiamato Antonio, te ne supplico, ascolta, e chi potrebbe pensare che un fratello esser potesse così perfido? E pur dopo me stesso nessuno amavo più di lui nel mondo. Tanto lo amavo che in sua cura detti tutto il mio Stato, ed era allora sopra le Signorie la prima e il primo Duca Prospero: in ogni dignità citato e nelle liberali arti pur senza paragone. Sommerso nello studio, su mio fratello il peso del governo tutto lasciai, sì che stranier divenni al mio paese, assorto nei segreti miei studii. Ma quel tuo subdolo zio…. di', mi ascolti?
MIRANDAOh sì molto attentamente.
PROSPERO…. come ebbe appreso ad elargir le grazie od a negarle, come seppe quale dovea promuover quale radiare quale rinnovellar fra creature che furon mie o trasformarle, avendo ambo le chiavi degli uffici e degli ufficiali, a intonare si compiacque tutto lo Stato in unica armonia cara agli orecchi suoi, sì ch'egli fu l'edera avvinta al principesco mio tronco dal qual suggeva ogni verdura. Ma non ascolti….
MIRANDAOh buon signore, ascolto!
PROSPEROSì, ascoltami, ti prego. Trascurando sì le cure mondane e tutto intento ai riposti misteri della mia mente, vivevo in così gran ritiro abbandonando ogni favore al mio falso fratello, che indole malvagia teneva sveglio. E quella mia fiducia come un buon genitore, produceva in lui tanta falsezza quanto più essa era grande. E questa non aveva limiti ed era una fiducia senza confini. Essendo in tal modo signore non solamente della mia ricchezza ma di quel che il poter mio consentiva di esigere, come uno che dicendo il falso sempre, fa di sua memoria tal peccatrice che finisce poi col creder vera la menzogna sua, egli credette d'esser duca e, inconscio di una tal finzione, ogni regale prerogativa fece sua, fin quando l'ambizione ognor crescendo…. Ascolti?
MIRANDACurerebbe la storia vostra i sordi!
PROSPERONon seppe più distinguer fra la parte ch'ei sosteneva e quegli per il quale la sosteneva, sì che pensò al fine d'essere di Milano l'assoluto signore. In quanto a me dovea sembrargli la biblioteca mia ducato grande abbastanza, sì che mi giudicava ormai incapace d'ogni regal cura. Alleato—però che da sè solo mal dominato avrebbe—con il Re di Napoli, promisegli un tributo ogni anno e a fargli omaggio la corona mal sottomise a quella sua più grande, ed il Ducato—ahi povera Milano!– libero fino allora, rese schiavo in un servaggio vergognoso.
MIRANDAOh cielo!
PROSPEROPensa alla sua condizione e a questo avvenimento e dimmi s'egli possa pur essermi fratello!
MIRANDAPeccherei pensando mal dell'avola: cattivi figli han recato buoni ventri.
PROSPEROEd ecco la fine. Il Re di Napoli che mi era acerrimo nemico, prestò orecchio alle richieste del fratello mio. Sì che in compenso del promesso omaggio e di non so quale tributo, fuori del ducato mi avrebbe egli bandito con i miei tutti e la bella Milano con ogni onore a mio fratel ceduta. Fu così che un esercito, di notte, a tradimento penetrò la cinta— e forse avea le porte di Milano aperte Antonio—e favoriti dalle tenebre ci cacciarono i ministri te piangente e me stesso.
MIRANDAAhimè pietà! Non ricordando come allora piansi ora di nuovo piangerò. Son gli occhi costretti a ciò da un tal racconto.
PROSPEROAscolta ancora un poco e porterò il tuo spirto agli affari che ci occupano. Senza questi la storia mia sarebbe troppo fuori di luogo.
MIRANDAMa perchè non hanno profittato—a distruggerci—dell'ora?
PROSPERODimanda giusta e ben doveva il mio racconto provocarla. Essi non hanno o cara figlia osato—così grande era l'amore che il mio popol tutto mi portava—segnar con sanguinosa impronta il lor misfatto, ma abbellirlo vollero con più bei colori. In breve, caricati che ci ebber sopra un barco, ci spinsero nel mare. Aveano scelto una vecchia carcassa di battello non attrezzato, senza vele, senza albero, senza sarte: per istinto l'avean già tutto abbandonato i sorci. Quivi ci hanno imbarcati e ai nostri pianti solo rispose il mare ed i sospiri ci rese il vento!
MIRANDAAhimè quale imbarazzo dovetti esser per voi!
PROSPEROTu, Cherubino, fosti invece la mia salvezza. Il tuo sorriso infuse in me come una forza celeste e come il mare ebbi cosparso delle più amare lacrime, un novello cuore si fece in me, per sopportare quel che avverrebbe.
MIRANDAE in che modo giungemmo a terra?
PROSPEROPer divina provvidenza un po' di cibo e un poco d'acqua che un nobil uom di Napoli—Gonzalo, addentro nel disegno—tutto preso dalla sua carità volle lasciarci. E insiem coi cibi i bei vestiarii, i ricchi tessuti, i lini e tutto il necessario che tanto ci ha giovato. Per sua grande gentilezza, sapendo il molto amore che per i libri avea, dalla mia stessa libreria seppe sceglier quei volumi che amavo più del mio ducato.